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Economia, Politica

Deficit, una partita fuori tempo massimo

di Gianmaria Vianova – 7 luglio 2018 (tratto dal sito L’Intellettuale dissidente – qui)

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Il Governo Conte è nato incendiario ma rischia di morire pompiere. Ecco perché la partita sul deficit andava giocata in sede europea anni fa: oggi il rischio è che non sussistano le condizioni per spuntarla. La scelta è tra rispettare i vincoli, stringere complicatissime alleanze sul campo e strappare unilateralmente, ma per le ultime due rischia di essere troppo tardi.

Il Governo Conte è nato incendiario ma rischia di morire pompiere. Ecco perché la partita sul deficit andava giocata in sede europea anni fa: oggi il rischio è che non sussistano le condizioni per spuntarla. La scelta è tra rispettare i vincoli, stringere complicatissime alleanze sul campo e strappare unilateralmente, ma per le ultime due rischia di essere troppo tardi.

C’è un tempo per tutto. Uno per parlare, uno per tacere. Uno per amare, uno per saper andare oltre. Uno per gettarsi nella mischia, uno per capire che è meglio tirarsene fuori. Le tempistiche sono fondamentali. La fisica gira attorno al tempo, l’universo con lei. Le ere hanno una collocazione temporale, persino le partite di calcio girano attorno al dio Crono. Questo, il Governo Conte, lo deve capire. Quando giunge l’estate, la stagione in cui il Mediterraneo si riempie di turisti e crisi migratorie, è il momento giusto per prendere una posizione, riacquistando peso politico, riguardo ad ombrelloni e accoglienza. È anche vero, però, che quando si è un governo giovane, in età preadolescenziale, le estati volano. Le foglie ingialliscono, la maturità incombe e bisogna cominciare a pensare al denaro. L’autunno, le responsabilità. Si vuole raggiungere l’indipendenza, attuare delle scelte. Fuor di metafora: disegnare una manovra economica.

Partiamo da questo presupposto: il contratto di governo costa. È oramai entrata nella storia l’analisi dell’Osservatorio sui conti pubblici guidato dall’onnipresente Carlo Cottarelli: tra i 109 e i 126 miliardi di euro in maggiori uscite. Secondo il primo ministro mancato, il tempo suggerisce di tirare la cinghia e ridurre il debito. Per Lega e Cinque Stelle sembrava invece che l’orologio indicasse più deficit. Una legislatura da incendiari, con la riscoperta di stimoli keynesiani che per l’Europa paiono novecenteschi (per gli Stati Uniti chiedere ad Obama). Poi il Governo Conte è nato: all’economia, da Roma Tre con furore, Giovanni Tria. Ma, inutile nascondersi, per quanto riguarda la posizione nei confronti degli euroburocrati Tria non è Savona, così come Savona non era Bagnai. Sin dalle prime uscite pubbliche il Ministro ha espresso parole di continuità rispetto al precedente esecutivo. Niente voli mirabolanti, gli obiettivi di bilancio verranno rispettati, non attaccheremo Bruxelles, tutto rimandato al 2019. Ok, tempo al tempo, ma pare che il nato incendiario stia stirando la tuta ignifuga e aumentando la pressione dell’autopompa: a morire da pompiere ci vuole un istante.

Secondo i calcoli di Cottarelli il rapporto deficit/Pil andrebbe al 9% comprendendo i moltiplicatori, consci che questi ultimi hanno la stessa affidabilità dei rumor sulla ipotetica reunion degli Oasis

Sia chiaro, se uno volesse applicare in toto il contratto il tempo lo potrebbe trovare. Aprire i rubinetti, invitare amici alle aste del Tesoro e vai di deficit. Sebbene ce lo si racconti da decenni, il deficit non è un peccato religioso, né un crimine perseguibile per legge. Sta ai libri di economia come la salsa di pomodoro alla pizza: è la normalità. È provato che un disavanzo del settore pubblico provochi un avanzo pressoché speculare – ad osservare i trend – nel settore privato. La realtà è una sola, c’è chi la vede mezza piena (stimolo della domanda, maggiore crescita, riduzione del rapporto debito/Pil) e chi mezza vuota (i neonati nascono con più debito sulle spalle). Il fatto è questo: c’è un tempo per leggere un economista “eterodosso” sotto l’ombrellone e un tempo per trovare il modo di sfuggire alle maglie dell’ordinamento europeo.

Bella la magia dei saldi settoriali: se lo Stato spende di più il privato riceve di più

“Fare” deficit – e il verbo fare è pertinente perché comporta un’azione convinta e diretta, prettamente attiva – va contro i dettami di Bruxelles. L’astronave Italia dovrebbe infatti seguire una traiettoria di rientro nell’atmosfera del bilancio in accordo con l’Ue: deficit all’1,6% quest’anno, 0,8% nel 2019 e pareggio nel 2020. Il DEF approvato in aprile dal governo uscente, in questo senso, non è stato ritoccato. Certo, tempo al tempo anche in questo caso, ma dopo un po’ bisognerà cominciare a dire “chi è al governo non aspetti tempo”. Il programma di governo è la sublimazione dell’aggettivo “ambizioso” e ci sono solo due vie per attuarlo in toto: ignorare l’Ue oppure prendere una pala e scavare in giro per il bilancio alla ricerca di coperture, tante coperture. A leggere il DEF, “riconsiderare in tempi brevi il quadro di finanza pubblica nel rispetto degli impegni europei per quanto riguarda i saldi di bilancio 2019-2021”, pare che sia stata scelta la strada europeisticamente più battuta. Conte, Di Maio e Salvini sanno che ai loro sostenitori potrebbe bastare anche solo un assaggio del “contratto del cambiamento”: la base legastellata è per definizione indulgente con i propri vertici e sarà disposta ad ingoiare una discreta quantità di rospi, a meno di clamorosi tradimenti percepiti sin nel profondo (è pur sempre un elettorato deluso, per buona parte ripescato in extremis dall’astensione). Ebbene, se anche si volesse attuare un piano economico gradualmente, bisognerebbe comunque aggredire le clausole di salvaguardia, da disattivare entro il 31 dicembre (costo: 12 miliardi) salvo volersi tirare addosso, masochisticamente, l’ira di ogni essere umano senziente.

Contratto del cambiamento o no, le risorse vanno trovate. Ecco che, manco a dirlo, è tempo di porsi una domanda: c’è la volontà di scardinare il paradigma delle risorse scarse? Se sì, nonostante i segnali discordanti (“uno e Tria”, “uno Tria e centomila” li hanno già usati?) i luoghi chiave non sono più tanto le commissioni bilancio di Camera e Senato, dove albergano Borghi e Bagnai, quanto Strasburgo e Bruxelles. Certo, nulla vieterebbe al Governo Conte di procedere unilateralmente, senza previa consultazione con gli “ufficiosi commissari”: le conseguenze, però, ci sarebbero. Privi di sovranità monetaria e di una classe di tecnici disposti a strappare, la macchina della speculazione si metterebbe in azione. Ad ogni punto di spread un editoriale apocalittico. Ad ogni diretta Facebook fiume ed improvvisata di Salvini e Di Maio (perché le farebbero, eccome) una affermazione estrapolata fuori dal contesto diventerebbe una sentenza. Agenzie di rating, partner europei ed euroburocrati parlerebbero dell’Italia come della Cenerentola che si è illusa un’altra volta. La verità fa male, ma è la seguente: nel regno dell’informazione compulsiva e largamente prezzolata non frega niente a nessuno se sei in avanzo primario da oltre 20 anni, contano solo le apparenze.

Borghi e Bagnai, L’ex uomo di Deutsche Bank e l’ex professore vicino alla sinistra, oramai soprannominati B & B, rappresentano la componente più euroscettica delle forze al governo

C’è un tempo per tutto. Uno per pubblicare pdf del contratto e un altro per buttare giù un piano d’azione. La soluzione più chirurgica ed asettica sarebbe quella di un accordo, reale, in sede europea. Ribaltare, una volta per tutte, il paradigma dell’austerità a tutti i costi, del principio contabile di fronte a quello umano, del tasso di disoccupazione che anche se è altino va bene, perché tende al NAIRU. Con l’avanzare dell’onda “populista” e dell’euroscetticismo ci si potrebbe quindi illudere che questo sia il momento propizio. Il fatto è che no, non solo non è il momento propizio: dichiarare guerra al deficit nel 2018 è un atto fuori tempo. Guardiamoci attorno. In Francia Macron spinge per un Fondo Monetario Europeo, quindi maggiori controlli sulla politica fiscale. In Spagna i socialisti di Sanchez, con il loro governo di minoranza, non hanno la minima intenzione di uscire dal seminato dopo la traumatica opera di deflazione salariale attuata. In Germania una Merkel scricchiolante non sarà mai a favore di politiche espansive. Kurz in Austria men che meno. In una Unione mai così disunita e caotica nei rapporti non bisogna confondere gli interessi nazionali in politica migratoria con quelli di politica economica. Nel 2018, allo stato dell’arte, nessuno ha interesse nell’addolcire i vincoli di bilancio. In altre parole nessuno ha interesse nel seguire l’Italia in questa battaglia, non gratuitamente per lo meno.

Componenti del Pil dell’Eurozona, dall’European economic forecast della Commissione Europea datato maggio 2018

Nello European economic forecast di maggio, la Commissione Europea analizzava la situazione delle varie economie dell’Unione. Interessante il grafico qui riproposto, che spacchetta le componenti della crescita, mettendole in relazione con il tasso reale di variazione del Pil e il famigerato “output gap” (la differenza tra la velocità registrata dell’economia e la sua velocità massima potenziale). Notiamo tre cose: la crescita del Pil si dovrebbe assestare sul 2%, le componenti principali della crescita sono consumo privato e investimenti, l’economia europea viaggia già al pieno regime di equilibrio previsto dalle istituzioni. Traducendo, agli occhi dell’Ue: non è necessario stimolare la crescita, il settore privato si è già messo in moto, ulteriore stimolo in disavanzo potrebbe provocare squilibri, quindi a disattendere i principi fondanti della costruzione europea stessa (ovvero l’anteposizione dell’equilibrio di economia sociale fortemente competitiva e dei prezzi alla piena occupazione).

Anche focalizzandoci unicamente alla situazione italiana, i presupposti non cambiano:

Componenti del Pil Italiano, dall’European economic forecast della Commissione Europea datato maggio 2018

L’output gap dell’Italia è destinato a sconfinare in territorio positivo, quello che per la dottrina amante del libero mercato autoregolatore è il campo dell’irreale: l’economia italiana ha raggiunto un nuovo equilibrio che è necessario preservare e non certo macchiare con politiche non convenzionalmente accettate come “salutari”.

Nelle righe precedenti si è accennato spesso all’importanza del tempo. Ecco, il tempo giusto per sbattere i pugni sul tavolo (ma sul serio, non per gioco) pare essere passato. Laddove i grafici sopra riportati presentavano un’area viola, in corrispondenza dei valori negativi, l’Italia si sarebbe dovuta muovere con forza. Tra il 2011 e il 2016, infatti, tutta l’economia europea viaggiava ben al di sotto delle proprie potenzialità. Allora si sarebbe dovuto lavorare per addolcire i parametri europei, introducendo il concetto di “politiche anticicliche” nelle sedi opportune e piani formali di stimolo, anche nel caso ciò si dovesse ripetere nel futuro. Allora, l’Italia, fu troppo occupata a rientrare in fretta e furia all’interno dei parametri del 3%, sempre per evitare che a Bruxelles si mettessero a rispolverare la VHS di Cenerentola, doppiata nella lingua di Dante.

I deficit fatti registrare da Italia (rossa), Francia (blu) e Spagna (viola) tra il 2007 e il 2017: Roma è rientrata prontamente all’interno dei vincoli di Maastricht, la Francia solo nel 2017

Durante la crisi peggiore dal ’29 (ma rispetto a quest’ultima più persistente) il primo pensiero delle istituzioni sovranazionali per l’Italia fu il rientro dal deficit. Ok, lo fu per tutte. Il Six Pack, i fondi salva Stati, l’indipendenza della Bce. Per Roma, però, il conto fu più salato, unendo l’utile – non nostro – al dilettevole – altrui: il debito pubblico andava contenuto e, allo stesso tempo, bisognava comprimere la domanda interna, le importazioni e riequilibrare la bilancia commerciale. L’Italia si trovava a dover fronteggiare una lotta nell’interesse nazionale con un bipolarismo sghembo. Da una parte un Silvio Berlusconi debole, al quarto mandato, vittima di sé stesso e inseguito dalla giustizia: con una lettera della Bce fu avvisato, con la spallata dello spread fu destituito. Dall’altra il centrosinistra, il Partito Democratico, formazione politica più irriducibilmente europeista forse di tutto il continente, pervasa da una esterofilia tale da spingerla a sostenere Monti e tutte le politiche di Letta, Renzi e Gentiloni, comprese le loro battaglie “che non erano nell’interesse dell’Italia” (come lo stesso Renzi dichiarò su Twitter). Uno scacchiere sterile, durante un caos sotto al cielo. Ecco, proprio per quello la situazione era perfetta, ma il libro di Mao in libreria era finito.

Un tweet che probabilmente non passerà mai di moda

Si sarebbe potuto decidere di operare clandestinamente in deficit, come Francia e Spagna ci hanno insegnato, oppure esporre una visione di lungo periodo. Non fu fatto nulla di tutto ciò. Il risultato, nel 2018, è una congiuntura economica apparentemente migliorata, in cui la crisi è stata debellata nei numeri e i partner europei non sanno neanche più cosa sia la recessione. L’economia italiana, con  la fiacca ripresa all’ 1,4%, vive una crescita senza riduzione della disoccupazione o del tasso di povertà. Com’è possibile? Probabilmente il sistema economico, lasciato alla mano invisibile del mercato, ha raggiunto un nuovo equilibrio, con tasso di disoccupazione naturale superiore al 10% e il 99% dei nuovi lavori a tempo determinato (ce lo dice l’ISTAT).

Non si avrà mai una controprova, ma se l’Italia si fosse uniformata all’andazzo dilagante attuando una politica fiscale espansiva quando opportuno probabilmente lo stimolo alla domanda internaavrebbe potuto giovare nella creazione di situazione di equilibrio più clemente e positiva. Certamente una correzione a base di spesa pubblica si sarebbe rivelata meno dolorosa di quella applicata, dato che nel menù si annoveravano deflazione salariale, bassi tassi di utilizzazione della capacità produttiva e riduzione del potere d’acquisto delle famiglie.

Solo un posto di lavoro dipendente su cento creato tra il maggio 2017 e il maggio 2018 è a tempo indeterminato, secondo l’ultimo report dell’ISTAT

C’è un tempo per tutto, lo si è detto. Era anche giunto il tempo dell’Eurozona, o meglio il tempo di morire. Crisi dei debiti pubblici, deflazione, mancanza di strumenti tali da poter assorbire gli shock. A Bruxelles sapevano, hanno finta di non vedere. Quando i burocrati si sparavano maratone di discorsi della Thatcher, pensando a come raggiungere il nirvana dello Stato minimo senza eliminare il carrozzone pubblico che dà loro un lavoro (senza riuscirci), chiusero le finestre. Liberi tutti, andate e spargete il deficit. Sarebbe bastato far valere il peso del Paese allora, terza economia dell’eurozona, per seguire a ruota e rimandare, come razionalità e scienza economica recitano, l’austerità a momenti di espansione successivi.

Siccome l’Ue lasciava sforare in barba ai trattati, i Paesi “trasgressori” non avevano motivo di svegliare il cane che dormiva, impuntandosi nel voler riscrivere le regole: Roma invece – con la storica volontà e testardaggine che ci ha portati affannosamente nell’Euro (consci dei fallimenti di serpenti monetari e SME) e con quel senso di inferiorità instillato dapprima internamente dall’intellighenzia progressista e solo poi cavalcato dall’esterno – ha voluto fare la prima della classe. Sempre al primo banco, “maestra, maestra!”, sperando in una valutazione clemente alla fine dell’anno. Il problema è che il voto dell’esame di terza media conta come il taglio dei vitalizi dei parlamentari sul bilancio: la frazione della frazione della frazione di una qualsiasi entità avente consistenza.

Letta e Renzi leggono il salatissimo conto della cena consumata il 4 marzo: quella sul deficit era una battaglia che la sinistra poteva e doveva fare propria, invece il Pd si è illuso che gli italiani avrebbero giustificato i sacrifici in un’ottica di coerenza e rispetto verso Bruxelles

Senza politica fiscale espansiva ci siamo affidati a quella monetaria accomodante. Il problema è che, al di là dello storytelling, quella servì primariamente a dare l’ossigeno ad un paziente in stato comatoso. Draghi infatti ha proceduto ad oltranza, ben più della Fed o della Bank of England, per non far saltare tutto e calmierare i tassi, mica per altro. Ora che nel 2019 i rubinetti verranno chiusi (sebbene non si prevede che nel breve termine la Bce dreni la liquidità immessa) cosa ne avremo ricavato? Conclamata flessibilità che si scontra con clausole di salvaguardia automatiche al retrogusto di ipoteca, una Imposta sul Valore Aggiunto che oramai è un essere senziente che cresce per suo conto manco Stranger Things e un obiettivo di pareggio di bilancio che suona come una condanna. C’è un tempo per tutto e quel tempo, con le condizioni ideali s’intende, è passato. Mettersi a sforare unilateralmente, ora, non ha giustificazioni politiche: per farlo bisogna essere pronti a solcare un mare in tempesta e a conservare ogni goccia di lucidità.

I protagonisti della serie Netflix osservano IVA, la creatura misteriosa che non smette mai di crescere

Se il governo vuole davvero operare una forte discontinuità deve agire come un ninja, data la difficoltà aumentata esponenzialmente. Il piano d’azione non può limitarsi al DEF, ma deve scendere nelle piazze e irrorare carta stampata e pagine Html. Va sradicato l’autorazzismo che ci ha sempre spinto ad accontentarci e, altresì, sfatato il mito che vede in un piano B (che sia d’uscita dall’Euro, di fonti di finanziamento alternative o di shock fiscali) una minaccia. Bisogna armarsi negozialmente, studiarsi la teoria dei giochi ed essere consci che in questa battaglia sui vincoli di bilancio l’Italia sarà sostanzialmente sola. Niente più comizi improvvisati sul tema, giro di vite sulle dichiarazioni in ambito economico, bando all’argomento durante dirette improvvisate sui social. Un’opera meticolosa, alla ricerca di margini. Logorante, asfissiante, certosina. Il governo deve sperare che l’Ue mostri il fianco, si riveli spietata e del tutto autoreferenziale. Bisogna essere scaltri, con molte notti insonni e tanti fatti. Ci si chiede se il governo abbia le capacità per attuare questa strategia oramai fuori tempo massimo, ma ancor prima se abbia la volontà di volerla intraprendere. In caso contrario, mano allo Stato sociale e occhio al portafogli.

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