Accantoniamo il risultato della Leopolda. La notevole partecipazione di pubblico e le ricche proposte uscite dai vari tavoli. Ci interessa, invece, capire l’uso che ne verrà fatto di questo appuntamento fiorentino, all’interno del Pd.
Le proposte di Renzi (e Padoan) di dimezzare lo spread e tagliare le tasse saranno l’ossatura del programma del prossimo Pd? Martina si è affrettato a dire che a Firenze sono uscite indicazioni complementari con il programma del partito. La coppia inedita, Renzi&Padoan, sul palco, ha sempre usato il noi, inteso loro due, nessun accenno al partito democratico.
L’ex sindaco di Firenze ha pubblicizzato la Leopolda sulla sua enews specificando a tono che nulla aveva da spartire con il congresso del Pd, con le primarie, con le lotte di corrente, a marcare le distanze nette, quasi voler dire che all’occorrenza dalla Leopolda poteva nascere altro. La Boschi, seconda gamba della Leopolda, ha affermato al termine della seconda giornata di lavori, che “non è una espressione del Pd in quanto tale”. Pigiare sul tasto dei comitati civici è un primo passo? Per dire che ci vuole altro rispetto al Pd (un partito di Renzi è dato dall’8 al 15%)?
È vero che la Leopolda è sempre stato un laboratorio a sé. Ma con un solo deus ex machina: Matteo Renzi. La Leopolda è stata sempre funzionale ai propositi e agli obiettivi di Renzi (e del suo gruppo) e viceversa. Che di volta in volta ricopriva incarichi politici e istituzionali. Prima la scalata al Pd. Poi a Palazzo Chigi (di fatto il programma della Leopolda era stato assunto, fatto proprio dal partito democratico).
Quindi da segretario del Pd per la seconda volta, dopo le primarie. Fino a oggi. Dove non si capisce, in fondo, quello che vuole fare Renzi. In un bagnomaria senza fine, in attesa di qualcosa che somiglia tanto al ritorno in sella. D’altronde la strategia renziana è rimasta quella dalle ultime elezioni in poi: gli italiani hanno votato quelli sbagliati, i gialloverdi al governo faranno un flop gigantesco, il Paese sarà in pericolo default e saremo richiamati per salvare l’Italia.
E questa strategia personale, la sola, rivendicando le cose fatte nei mille giorni, coincideva, coincide, naturalmente con la rinascita del Pd (o di qualcos’altro) a opera dello stesso Renzi. D’altronde l’opposto postulato che lega Salvini e Di Maio al governo si poggia su questo enunciato: ma voi (Renzi e il Pd) che avete avuto responsabilità di governo e di gestione della cosa pubblica, cosa facevate se avete tutte le soluzioni oggi? Salvini e Di Maio quando ce l’hanno con qualcuno ce l’hanno con Renzi e il Pd di Renzi non con i dirigenti attuali Martina&C.
Non è un caso che il controllo dei gruppi parlamentari sia nelle disponibilità di Renzi. Lo stesso svolgimento, però con diversi terremoti e assestamenti in corso d’opera, succede all’interno del partito che l’ex premier non ha mai guardato con smisurato affetto e attenzione, ritenendolo ormai una scatola vuota nemmeno utile per le feste dell’Unità.
Dopo la Leopolda il king maker Matteo Renzi deve però scegliere, dire, parlare, esporre la sua vera road map e sottolineiamo vera, non quella liturgica e ipocrita, a uso e consumo di giornali e tv. Lo deve fare perché la misura è colma anche nei suoi confronti, proprio per il continuo tergiversare e orchestrare dietro le quinte.
Renzi ha sbagliato molto (l’abbiamo scritto in diversi post). In particolare a dimettersi di continuo. Troppe volte, senza un senso, o appellandosi a una prassi anglosassone balorda: perdo le elezioni mi dimetto. Perché Renzi si è dimesso se continua fare l’arbitro del Pd? Sarebbe stato meglio restare al proprio posto, anche da sconfitto. Nel frattempo nel Pd dopo il 4 marzo è stata avviata una veloce corsa a derenzizzare il Partito.
O almeno tentare questa strada. Con risultati, poi, quelli di oggi, incerti, sconnessi e senza prospettiva. Pure i candidati, potenziali, detti e non detti, alle primarie, cozzano di fronte all’eredità, culturale e programmatica renziana, della quale non possono farne a meno. Il Pd non può farne a meno. Non ci sono alternative valide che conquistano e che possano andare molto in là senza Renzi protagonista.
Il nodo irrisolto sta qui. Renzi non troverà mai un candidato a sua immagine e somiglianza che possa conquistare la maggioranza del partito. E infatti il panorama odierno è fatto di molti candidati possibili che comunque non raggiungerebbero mai il 50% più uno per essere eletti. Una situazione ideale per essere richiamato a gran voce alla guida del partito?
Le proposte politiche iniziando da Zingaretti sono destrutturate, abbozzate, ondivaghe (l’1% del Pil alle famiglie), parlare e poi non parlare con i 5 Stelle (tema che sta ridiventando d’attualità nel caso di una crisi del governo gialloverde), slogan retro, aprirsi, includere, citazioni di Martin Luther King e Pasolini di corredo. Su Renzi prima dice che è poco credibile e poi si ritrae.
Martina ha fatto quello che ha potuto, ondivago pure lui su diversi temi, caldeggiando posizioni addirittura della sinistra che fu, pensando a Corbyn. I candidati renziani o pseudo tali? Minniti e Richetti. Il primo pare avere più chance ma anche lui come il secondo servono per sparigliare le carte. Dividere più possibile la torta. Senza un vero capo del partito possibile. Minniti rimane un uomo delle istituzioni capace agli Interni e dintorni. Richetti (che contemporaneamente al comizio di chiusura di Renzi, teneva una iniziativa a Milano) è una bella faccia, ma comunque una copia bravo ragazzo di Renzi.
Ecco perché la palla è sempre nelle mani dell’ex premier. Che appunto deve decidere il da farsi. E lo dovrebbe pronunciare nella prossima conferenza del Pd di fine ottobre. Il forum programmatico. Chiarendosi un po’ le idee, prima di tutto. Per esempio, pensando a una remuntada scrivendo appelli con Juncker non è proprio il massimo per gli elettori che potenzialmente potrebbero votare Pd. Lo stesso, grandi ammucchiate con il cinico Macron. Cautela. Non confondere i piani delle relazioni politiche con le strategie elettorali.
Il Pd su tutto deve decidere da che parte stare (Ricolfi su Il Messaggero ha scritto che la sinistra rimane un quadro senza cornice). A partire dall’immigrazione che sarà uno dei punti, insieme all’economia, che determinerà le prossime elezioni europee (a proposito perché più nessuno a sinistra propone lo ius soli?). La legge e il rispetto della legge dovrebbe essere il faro di ogni posizione, dal sindaco di Riace all’evasione fiscale. Dire che “avremo bisogno di più Europa” è uno slogan che fa ridere se non elenchi pochi punti per cambiare davvero.
E Renzi dove sta? Che fa? Non dimentichiamo che il Pd ha un grande problema strutturale e di classe dirigente sul territorio. La spinta renziana non è mai partita malgrado il Pd è la fotocopia del renzismo. Nelle sezioni, in tante sezioni, siamo ad un salto indietro. Lo vedremo nelle prossime elezioni amministrative con grandi ammucchiate a sinistra comprendenti leu, sindacato, anpi, arci, cioè quel mondo che Renzi aveva messo dalla parte durante il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016.
Ci saranno candidati sindaci, non rilevatosi dei fenomeni nella gestione amministrativa, ma che comunque catalizzano su di loro la supplenza del Pd, partito e segretari di sezione, a livello locale. Diversi, tanti ostacoli sui quali si è messo fino ad ora della pezze, per nulla convincenti.
Matteo Renzi inaugurando la Leopolda di quest’anno ha detto: con me c’è un popolo che non s’arrende. Vorremmo sapere se lui e il suo popolo coincide con quello del Pd.
Fonte: huffingtonpost.it (qui)
“Siamo al punto di non ritorno, ognuno per la sua strada”. Si sarebbe espresso in questi termini, con alcuni collaboratori, Matteo Renzi. Al “punto di non ritorno” è il Pd, nell’indiscrezione riportata su Il Giornale da Augusto Minzolini. Che svela come l’ex premier ed ex segretario stia già lavorando a un nuovo soggetto politico, la cui gestazione sarebbe già in fase avanzata, con tanto di modelli e scadenze.
La svolta sarebbe la Leopolda del prossimo autunno, mentre la nascita della nuova creatura è prevista per l’inizio del 2019, pronta per competere alle elezioni europee che si terranno, appunto, il prossimo anno. Ci saranno dunque, in Parlamento, due partiti e due gruppi distinti, e un accordo sarebbe in via di definizione consensuale anche riguardo alle Fondazioni, ovvero le risorse. I modelli? En Marche di Macron e lo spagnolo Ciudadanos, ovvero un modello di partito più aperto alla società civile e all’associazionismo rispetto a quanto è fin qui stato il Pd.
Fonte: liberoquotidiano.it (qui) Articolo del 23 marzo 2018.