Anniversari, Foibe

“Foibe, fascisti e comunisti: vi spiego il Giorno del ricordo”: parla lo storico Raoul Pupo

Intervista al professore dell’Università di Trieste, uno dei massimi esperti sull’argomento, per far luce su alcuni aspetti ancora poco chiari nell’immaginario collettivo.

Il 10 febbraio l’Italia celebra il Giorno del ricordo, giornata istituita per commemorare la memoria di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo degli istriani, dei fiumani e dei dalmati italiani dalle loro terre tra il 1943 e 1945, e della più complessa vicenda del confine orientale.

Con massacro delle foibe si intende l’affossamento in grandi cavità naturali di alcune migliaia di italiani da parte delle forze jugoslave e alcuni partigiani italiani vicini a loro. Con esodo, invece, intendiamo il fenomeno migratorio di circa 300mila italiani di Istria, Fiume e Dalmazia, che lasciarono la loro terra passata in mano di Tito per restare in suolo italiano.

Parla Raoul Pupo, professore di Storia contemporanea all’Università di Trieste e uno dei massimi conoscitori sull’argomento, di fare luce su alcuni aspetti ancora poco chiari nell’immaginario collettivo.

Professore, quali furono le conseguenze del fenomeno foibe e esodo?

Questi eventi messi insieme hanno provocato la scomparsa quasi integrale della componente autoctona bilingue e cultura italiana nei suoi territori di insediamento storico a Zara, Fiume e Istria in generale.

Le foibe in realtà non hanno avuto un ampio effetto, le migliaia di morti hanno provocato gravi ferite della memoria ma non hanno inciso particolarmente sugli equilibri nazionali e di potere della regione. Quello che ha provocato la principale frattura storica dall’epoca della romanizzazione è l’esodo, in quanto ha significato la sparizione di una delle componenti storiche della regione.

Mio nonno, esule, mi parlava spesso di quei “comunisti titini” e mi diceva che ai tempi di Mussolini viveva meglio. Non era il solo esule a pensarla cosi. Dire che gli esuli erano fascisti è soltanto uno stereotipo?

Gli esuli istriani erano saldamente anticomunisti, avevano provato sulla loro pelle cos’era il socialismo reale ed erano scappati via, quindi erano tutto meno che comunisti. Non è vero che fossero tutti fascisti, la maggior parte di loro nel dopoguerra votava democrazia cristiana, soltanto alcuni piccoli gruppi votavano per il movimento sociale.

Quella degli esuli era una realtà popolare conservatrice, e quando qualcuno diceva che ai tempi di Mussolini stava bene vuol dire allora stava meglio rispetto a quello che ha vissuto dopo. Avendo rischiato la vita e vissuto situazioni invivibili a casa loro, il paragone con il passato è tutto a vantaggio dello stesso. Durante il fascismo l’Istria era stata una terra di povertà, dagli anni Venti ci fu una crisi economica dalla quale iniziò ad uscire appena dalla fine degli anni Trenta. Subito prima della guerra ci fu in seguito alla politica autarchica un inizio di ripresa economica e si cominciavano a vedere orizzonti migliori rispetto a una miseria secolare. Poi è arrivata la guerra che per loro ha voluto dire la fine di tutto.

Naturalmente questo riguardò la componente italiana della popolazione. La comunità slovena e croata aveva giudizi diversi, in quanto minoranza oppressa dal regime. La politica del fascismo era volta a distruggere la loro identità e a trasformarli in italiani. Anche dal punto di vista economico e sociale stavano peggio rispetto a prima, sloveni e croati erano per lo più braccianti senza terra o coloni. Nell’ultimo periodo dell’amministrazione asburgica, grazie a un tessuto di cooperative, erano riusciti ad avere un miglioramento del loro stato sociale riuscendo a comprare della terra. Poi il fascismo da una parte distrusse tutto il tessuto redditizio cooperativo che li sosteneva, poiché connotato in senso nazionale, dall’altro impose una fiscalità più grave: il risultato è che molti di loro persero la terra.

Chi furono i colpevoli dei vari eccidi?

Fondamentalmente i quadri del movimento di liberazione jugoslavo, movimento contro i tedeschi occupatori ma anche contro gli italiani. Gli esponenti del movimento erano alle origini figli di esuli istriani sloveni e croati che durante il ventennio avevano dovuto abbandonare quella terra. Arrivati in Istria si collegano con i loro parenti, esponenti del tradizionale nazionalismo croato, e su questa base creano prima il partito comunista croato poi il movimento di liberazione. Sono dei quadri che hanno un forte antagonismo sia sociale che nazionale nei confronti dell’italiano, che viene percepito come fascista, quindi poi quando hanno il potere si lasciano andare ad angherie di tutti i tipi.

La violenza delle foibe scavò un solco di terrore fra la popolazione italiana. Le intimidazioni, bastonature, arresti e sparizioni del dopoguerra rafforzarono il clima di paura. Le ragioni dell’esodo sono però molto più complesse. In sintesi, il collasso della società italiana, dovuto alla duplice rivoluzione, nazionale e sociale, attuata dalle autorità jugoslave. Ciò creò una situazione di invivibilità generalizzata. Di conseguenza, quando – con ritmi diversi nei diversi contesti – le comunità italiane si resero conto che la dominazione jugoslava era divenuta definitiva, scattò il meccanismo dell’esodo.

Perché fu istituito il giorno del ricordo?

Venne istituito per cercare di sanare la ferita aperta nella coscienza degli esuli e dei parenti delle vittime delle foibe. Nonostante la loro integrazione perfettamente riuscita nel tessuto sociale italiano avevano dovuto silenziare le loro origini per ragioni non solo politiche ma antropologiche. Si erano inseriti nell’Italia del boom economico, l’Italia che voleva lasciarsi alle spalle tutto quello che voleva dire guerra, sconfitta, miseria. Non c’era posto per rivangare queste storie terribili.

Gli esuli rimasero zitti, molto spesso non avevano trasmesso queste storie nemmeno ai figli, le loro vicende erano conosciute all’interno dei circuiti speciali dei profughi ma quasi per nulla all’interno della comunità nazionale. Ne continuavano a parlare ossessivamente tra di loro, ma all’esterno era una storia che non interessava a nessuno.

Dopo la fine della guerra fredda c’è dappertutto in Europa una riscoperta di storie che prima erano state messe da parte, fra queste c’è anche la storia del confine orientale. Attraverso un complesso iter parlamentare arriva questa proposta per l’istituzione della giornata del ricordo che viene approvata in parlamento con una maggioranza larghissima, alla camera con pochissimi voti contrari e al senato addirittura senza opposizione.

Non trova che il Giorno del ricordo venga usato per esaltare la patria o l’italianità di certe zone più che per ricordare il dramma di queste persone?

Il Giorno del ricordo viene usato in tanti modi e può venire usato in senso puramente strumentale: è stato usato e continuerà a venire usato da parte di componenti politiche di estrema destra. Già dagli anni Novanta era partita una campagna dall’allora partito di Alleanza Nazionale per l’istituzione di vie e piazze ai “martiri delle foibe”. Era un’operazione politica di matrice neofascista.

Ma il Giorno del ricordo si presta sia per riconciliare la memoria degli esuli e delle vittime delle foibe sia per riscoprire tutta la storia del confine orientale, che è una storia abbastanza complessa, perché oltre le foibe e l’esodo c’è anche tutto quello che è successo prima. Va sempre tenuta presente una cosa: il giorno del ricordo cade il 10 febbraio del 1947, che è la data della firma del trattato di pace che segna la perdita della Venezia Giulia per l’Italia. Quel trattato di pace riguarda la guerra iniziata dall’Italia col fascismo, che è entrata in guerra per sua scelta a fianco della Germania, quindi ha invaso e distrutto la Jugoslavia annettendola parzialmente. L’inizio della catastrofe, quindi, è l’attacco dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale con la responsabilità del fascismo.

Come venne vista al tempo l’istituzione di questa giornata in Slovenia e in Croazia? E come sono percepite foibe ed esodo oggi a Trieste?

Alcune reazioni sono state preoccupate e negative. C’è stata una fase attorno al 2005, dopo le prime giornate del ricordo, in cui da parte italiana c’è stato qualche intervento patriottico sopra le righe, provocando cosi una crisi diplomatica e per converso l’istituzione in Slovenia della festa per il ricongiungimento del litorale sloveno alla madre patria, che era esattamente speculare al giorno del ricordo. In Croazia ci fu una polemica molto dura tra il presidente croato dell’epoca Stipe Mesic e il presidente Napolitano.

Interventi di riconciliazione nell’area tedesca ci furono molto presto, con incontri tra capi di stato e varie cerimonie. Italia, Slovenia e Croazia hanno tardato, e dal ritardo è scoppiata la crisi. Con l’intervento della diplomazia e i massimi vertici si è arrivati nel 2010 ad una riappacificazione. Il presidente della Repubblica italiano, sloveno e croato si incontrarono a Trieste facendo il giro di tutti i luoghi della memoria e fu organizzato un grande concerto in Piazza Unità richiudendo cosi il cerchio.

A Trieste questo argomento è una delle grandi ossessioni, e mentre negli anni Sessanta e Settanta era un argomento di polemica politica, adesso, mettendo da parte alcuni gruppi di esagitati nazionalisti o negazionisti, sulle foibe c’è meno tensione e l’argomento è ricondotto alle sue dimensioni reali. C’è una grande frequenza ai memoriali: molte persone, sopratutto giovani, vengono da tutta Italia alla foiba di Basovizza dove ora c’è un centro di informazione e di divulgazione.

Ci possiamo aspettare novità riguardo a ulteriori studi?

Sulle foibe dal punto di vista interpretativo non sono da attendersi novità, si potrebbe andare avanti dal punto di vista della quantificazione. Entro certi limiti il numero di vittime rimarrà imperfetto per problemi di fonti, però incrociando meglio quelle esistenti si potrebbe arrivare a delle approssimazioni migliori. Di solito quando si parla di infoibati se ne parla in senso simbolico, comprendendo tutti i morti italiani da parte delle forze jugoslave, ma il numero reale delle vittime complessivo è stimato tra 3.000 e 4.000.

Sull’esodo invece c’è ancora molto da dire, in quanto spostamento di una comunità al completo di tutte le sue classi sociali e articolazioni. In anni recentissimi ci sono state delle novità importanti: una collega di Rovigno ha lavorato sulle fonti ex jugoslave finalmente disponibili e quindi è riuscita a vedere i problemi visti dall’ottica del potere, tuttavia ci sono ancora aspetti di storia politica e sociale che meritano di essere approfonditi.

Fonte: tipi.it (qui)

Anniversari

Tricolore, 222 anni fa nasceva la prima bandiera italiana, in realtà un po’ francese.

 BANDIERA TRICOLORE. Il tricolore italiano, verde bianco rosso, è ritenuto una variante della bandiera della Rivoluzione francese. Adottato da Napoleone per le legioni lombarde e italiane (ott. 1796), poi dalla Repubblica Cispadana (Reggio Emilia, 7 genn. 1797) e da quella Cisalpina (9 luglio 1797). Le altre Repubbliche democratiche sorte tra 1797 e 1799 a Venezia, Genova, Roma e Napoli, non potendo fondersi con la Cisalpina, dovettero invece escludere il verde e adottare altri colori. Il tricolore passò quindi alla Repubblica Italiana(1801) e al Regno Italico (1805-14). Riapparve nei moti carbonari del 1821 e del 1831, divenne la bandiera della Giovine Italia e fu portato in America da Garibaldi. Nel 1848-49, sventolò in tutti gli Stati italiani in cui sorsero o furono desiderati governi costituzionali. Il 23 marzo 1848 Carlo Alberto proclamò il tricolore b. nazionale facendovi inserire, bordato di blu, lo scudo dei Savoia. Tale bandiera rimase poi quella dello Stato sardo, per divenire, nel 1861, la bandiera del Regno d’Italia. Dopo il referendum del 2 giugno 1946 e la proclamazione della Repubblica, lo scudo dei Savoia è scomparso dalla bandiera italiana.

Fonte: treccani.it (qui)

CISALPINA, REPUBBLICA. – Il 29 giugno 1797, il Bonaparte fondava la Repubblica Cisalpina, composta di gran parte dell’antico ducato di Milano, del Bergamasco, del Cremonese, del Modenese. La costituzione della repubblica fu redatta da un comitato composto da elementi di varie tendenze: fu un lavoro che tradiva la fretta con cui era stato fatto, cosicché non si riuscì a fondere i diversi sistemi vigenti e a rendere la nuova costituzione adatta ai bisogni e all’indole delle popolazioni.

Il territorio era stato diviso in dipartimenti denominati dai monti e dai fiumi che attraversano le varie regioni; il potere sovrano risiedeva nei cittadini, che avevano raggiunto i vent’anni, i quali, a mezzo delle assemblee primarie distrettuali e delle assemblee elettorali, concorrevano alla nomina del Gran consiglio, in cui risiedeva il potere legislativo, composto dei seniori e degli iuniori, mentre il potere esecutivo spettava al Direttorio, formato di cinque membri. La giustizia civile era affidata ai tribunali dipartimentali e ai giudici di pace, la penale ai tribunali suddetti col concorso della giuria e dell’accusa pubblica. Un’alta corte di giustizia veniva chiamata a pronunciarsi sulle accuse ai membri del Corpo Legislativo e del Direttorio. La forza armata era costituita dalla Guardia Nazionale e dalle truppe assoldate per arruolamento volontario. Veniva ammessa la professione di ogni culto, senza particolare riconoscimento di quello cattolico.

La costituzione cisalpina, modellata su quella francese del 1795, riuscì pertanto inadatta allo scopo e la giudicò tale lo stesso Bonaparte, che, alla vigilia di promulgare la Costituzione, fuse la Repubblica Cispadana con la Cisalpina, formando così uno stato di circa due milioni e mezzo di abitanti che fu solennemente inaugurato a Milano il 21 messidoro dell’anno V (9 luglio 1797) e Bonaparte ne formò il Direttorio chiamandone presidente il Serbelloni. La Cisalpina accresciuta, col trattato di Campoformio, del Bresciano, del Mantovano e della Valtellina, costituiva uno stato indipendente con leggi proprie e con proprio esercito; ma era di fatto sotto il dominio della Repubblica francese, a favore della quale veniva imposto un esoso trattato d’alleanza. Nel Corpo Legislativo avevano predominio gli elementi più accesi. Ne nacquero gravi malcontenti e disordini, specie nelle campagne; si rendeva perciò evidentemente necessaria una riforma della costituzione. Il Direttorio francese, che intendeva di favorire gli elementi più temperati, inviò a Milano il Trouvé per attuare i suoi propositi, ma questi a nulla riuscì. Violente agitazioni sconvolsero la Cisalpina, le quali culminarono, quando nell’imminenza della guerra fu decretata una leva di novemila uomini, in tumulti, specialmente fra le popolazioni rurali. Intanto gli Austro-Russi, sconfitti il 27 aprile 1799 i Francesi a Cassano d’Adda, entrarono il 28 in Milano, dove s’iniziò la reazione. Venne abolita la Guardia Nazionale, ordinata la consegna delle armi, si rincrudirono le imposte, si decretarono confische, s’imprigionarono i giacobini non emigrati, come il Reina, il Sangiorgio, il Moscati. Fu invocata di nuovo la Francia. Rovesciato a Parigi il Direttorio e subentrato il Consolato, il Bonaparte, accintosi alla riconquista dell’Italia, dopo la vittoria di Marengo ripristinava la Repubblica Cisalpina, che col trattato di Lunéville del 9 febbraio 1801 riacquistava l’autonomia perduta, ma restava in dominio dei Francesi. Rinacquero le contese fra i varî partiti: i demagoghi ricominciarono da capo nelle lotte contro la religione e le tradizioni del passato.

A togliere il disordine e l’indisciplina che regnava tra le truppe, il Teulié, ministro della guerra, cercò d’introdurre serie riforme, ma con scarso esito; invece di procedere a una più equa e razionale distribuzione dei pesi pubblici, si decretarono enormi ed arbitrarie imposte, prestiti forzosi e requisizioni ingiuste da parte dei commissarî di guerra francesi. La seconda Repubblica Cisalpina volgeva così a rovina e si sarebbe sfasciata se non fosse intervenuto il Bonaparte, convocando i deputati cisalpini in Lione: il 14 febbraio 1802 veniva inaugurata in Milano la Repubblica Italiana.

Bibl.: F. Cusani, Storia di Milano, Milano 1861; G. De Castro, Milano e la Repubblica Cisalpina giusta le poesie, le caricature ecc., Milano 1879; C. Cantù, Corrispondenza di diplomatici della Repubblica e del Regno d’Italia, Milano 1884; Le assemblee del Risorgimento, Roma 1911, I, pref. di C. Montalcini.

Fonte: treccani.it (qui)
Anniversari, Euro, Politica

1999-2019. L’Euro compie 20 anni. E le pecore festeggiano e seguono il vento del conformismo. A quando il Governo del cambiamento?

Il primo gennaio 1999 la moneta unica faceva il suo ingresso ufficiale sui mercati finanziari, per approdare tre anni dopo, il primo gennaio 2002, nelle tasche dei cittadini europei, italiani compresi.

Un periodo significativo di circolazione per poter fare un primo bilancio del suo avvento. E le somme, soprattutto per l’Italia, non sono per niente lusinghiere, anzi tutt’altro. A scorrere le cifre messe insieme in questi giorni da Bloomberg Economics, che ha fatto un resoconto del primo ventennio di euro, il nostro Paese ne esce infatti con le ossa rotte.

Quel che però bisognerebbe approfondire è se il nostro attuale malessere economico dipenda direttamente dall’euro, o quanto non piuttosto dal fatto che la moneta unica ha contribuito ad amplificare carenze strutturali del nostro sistema produttivo. Ma andiamo con ordine, e vediamo cosa ci dicono i numeri.

Venti anni di arretramento

Le prime evidenze, relative allo studio di Bloomberg, ci mostrano senza pietà, uno scenario devastante per il nostro Paese. Basti pensare ad esempio che tra il 1985 e il 2001 il prodotto interno lordo italiano era cresciuto di 482 miliardi di euro (+44%), mentre tra il 2002 e il 2017 la crescita è stata pari a 31 miliardi, ovvero uno striminzito + 2% in quasi vent’anni.

Altra nota molto dolente poi è quella delle esportazioni, da sempre cavallo di battaglia della nostra economia. Ebbene, sempre tra l’85 e il 2001, l’export era cresciuto in Italia del 136,3%, mentre, dall’avvento dell’euro, la crescita si è fermata a un modesto +40,9%, ossia meno di un terzo.

A questo già desolante panorama, potremmo poi ancora aggiungere il fatto che il Pil pro capite è allo stesso livello del 1999, che la disoccupazione da sei anni staziona sempre intorno all’11% e che la produzione industriale langue ancora del 22% al di sotto dei livelli massimi raggiunti nel 2007.

Produttività, tallone d’Achille

Ma un’analisi seria e ragionata non può fermarsi a queste pur eclatanti evidenze. Quel che bisognerebbe approfondire infatti è, come già accennato, quanto l’entrata in vigore dell’euro non abbia accresciuto difficoltà che erano già insite nel nostro sistema economico, e che lo rendevano già di per sé più debole rispetto ad altre economie europee.

E in questo senso, un esempio molto lampante è rappresentato dalla produttività. Quest’ultima rappresenta in maniera molto semplificata, la quantità di prodotto che ogni singolo lavoratore produce in una data unità di tempo, ad esempio in un’ora. Una produttività più alta, significa che un sistema produttivo è più efficiente, più innovativo, e dunque più concorrenziale sul mercato.

Se andiamo a scorrere le statistiche realizzate da Eurostat sui Paesi dell’Unione, scopriamo allora che questo rappresenta un vero e proprio tallone d’Achille dell’Italia. Nel periodo che va infatti dal 1999 al 2017, la produttività in Italia non solo non è cresciuta, ma è addirittura calata quasi del 5%.

Nello stesso periodo, la Francia ha visto la propria produttività crescere più del 13%, la Spagna del 12% e la Germania ha fatto un balzo in avanti anch’essa del 12%, il tutto grazie a forti riforme del mercato del lavoro, che invece in Italia sono state sempre poco incisive. Non a caso forse, questi Paesi hanno ottenuto benefici ben più consistenti dall’entrata in vigore dell’euro, come dimostra lo stesso studio di Bloomberg.

Addio svalutazione

Ma perché la moneta unica influisce così tanto nel rapporto tra produttività e sviluppo dell’economia? La spiegazione è semplice: in passato, per colmare gap di mancata evoluzione della produttività, l’Italia utilizzava lo strumento, fin troppo abusato, della svalutazione monetaria.

Una lira debole, ci permetteva comunque di essere competitivi sui mercati internazionali, nonostante la nostra produttività fosse inferiore a quella dai nostri competitor. Con l’arrivo dell’euro, il giochetto della svalutazione non è stato più possibile, e il nodo di una mancata crescita della produttività è venuto drammaticamente al pettine.

Abbiamo deciso di competere con grandi Paesi, come Germania e Francia appunto, e per farlo ora dobbiamo utilizzare gli stessi mezzi, ossia l’innovazione, gli investimenti, la ricerca. Tutte armi che in Italia da anni risultano spuntate, per colpe tanto della politica che della classe imprenditoriale.

In tutto questo scenario dunque, l’euro non ha fatto altro che mettere in evidenza questa palese arretratezza del nostro sistema produttivo. Ci sarebbe stato tutto il tempo per rimediare, e forse c’è ancora, l’importante sarebbe però non addossare tutte le colpe all’euro, il cui funzionamento andrebbe comunque magari in parte migliorato, ma cercare di individuare le debolezze strutturali della nostra economia e intervenire su di esse. A cominciare proprio dalla produttività.

Ed oggi nessun TG nazionale ha ricordato l’anniversario che sta passando in sordina…

Di seguito i grandi successi dell’Euro prodotto in Italia…

Poveri che vivono con meno di 1,90 dollari al giorno.

Numero poveri in indigenza assoluta

Nel 2017 un abitante del meridione su 4 era in povertà assoluta. Se vediamo l’evoluzione temporale.

Un successo. Infatti, (dati dossier ACLI povertà) a povertà relativa in Italia era dell’11,2% nel 1999 ed è salita al 13,7% della popolazione nel 2015. Un grande, grandissimo successo, chi va a stappare lo spumante?

Il PIL pro capite è stato in calo, e solo di recente si è ripreso, ma ricordiamo che dal 15 ottobre 2014 è stata conteggiata l’economia sommersa che pesa per 187 del 2014, pari all’11,5% del PIL del 2011. Un desiderio dell’Eurostat (che caso) che ha gonfiato i dati dal 2011 in poi, se no la caduta sarebbe stata ancora peggiore. Che si deve fare per dire che l’Euro è un bene…

 

Ricordiamo poi gli effetti sulla produzione industriale italia dell’introduzione dell’euro:

Tanto per ricordare.

Quindi scusateci se, al contrario di Juncker, non stappiamo lo spumante, anzi ci arrabbiamo ancora un po’ di più, perchè ci sono voluti 20 anni affinchè il disastro della moneta unica divenisse un tema di discussione generale. 20 anni di povertà e suicidi economici, un ventennio perso per l’Italia.

Immagino i soliti furboni che affermeranno che “La colpa non è dell’Euro”, che “Non abbiamo fatto le riforme” ed altre amenità simili. Certo, l’influenza esatta dell’euro non è facilmente determinabile, anche se esistono modelli macroeconomici indicativi della distruttività di un’unione monetaria per economie come quella italiana. A questi signori chiediamo una controprova , comunque: usciamo dall’euro  e restiamone fuori per 20 anni, facendo politica economica espansiva, poi, fra 20 anni confrontiamo i due periodi. Iniziamo subito uscendo…

Fonte: scenarieconomici.it (qui) e panorama.it (qui)

Se poi vuoi vedere gli incrementi dei prezzi ed il conseguente minore potere d’acquisto leggi di seguito:

Dall’introduzione dell’euro ad oggi, i prezzi e le tariffe in Italia per beni e servizi di largo consumo sono aumentati mediamente del +59,1%. Lo denuncia il Codacons, che diffonde oggi tutti i numeri sul fenomeno a distanza di 15 anni dal passaggio dalla lira all’euro.

“Il Codacons fu la prima associazione che nel gennaio 2002, quando venne introdotto l’euro, denunciò gli aumenti selvaggi e le speculazioni da changeover – spiega il Presidente Carlo Rienzi – All’epoca venimmo accusati di euroscetticismo e di terrorismo mediatico, mentre oggi tutti ci danno ragione, perché la prova di ciò che è successo è sotto gli occhi di chiunque, a partire dagli stessi commercianti, prime vittime della loro stessa politica suicida”.

Dal gennaio 2002 al gennaio 2017 i cittadini italiani hanno subito rincari medi del +59,1%, con punte del +207,7% per la penna a sfera, +198,7% per il tramezzino consumato al bar, +159,7% per un cono gelato – spiega il Codacons – Comprare un giornale costa il 94,8% in più; va meglio con l’espresso al bar (+34,3%) ma attenzione alla classica pizza margherita:+103,9%.

Gli aumenti di prezzi e tariffe degli ultimi 15 anni hanno determinato una maggiore spesa a carico degli italiani complessivamente pari a 14.183 euro a famiglia, contribuendo alla perdita di potere d’acquisto e al generale impoverimento del ceto medio – calcola il Codacons.

Ma ad impressionare di più è il confronto tra i prezzi dei beni di largo consumo dalla lira all’euro. Ecco di seguito una tabella realizzata dal Codacons che dimostra l’andamento dei listini al dettaglio dagli ultimi giorni delle lire (dicembre 2001) ai giorni nostri (qui)

11 Settembre 2001, Anniversari

Diciassette anni fa l’attacco alle Torri Gemelle

Un canale YouTube tedesco, creato dieci anni dopo l’attacco alle Torri Gemelle, pubblica da tempo video amatoriali (e non) che documentano i momenti successivi allo schianto degli arei sui grattacieli di Manhattan. I filmati sono stati lavorati per migliorare sensibilmente l’immagine originale. E’ quanto accaduto anche a questo video registrato l’11 settembre 2001 da Mark LaGanga, all’epoca operatore della CBS. Le sue immagini sono sul web già da diversi anni, ma mai come in questa versione restaurata restituiscono il dramma vissuto dai cittadini di New York. Questo il video originale della durata di circa 25 minuti.

 

 Fonte: YouTube.com video Mark LaGanga (qui)

Anniversari, Cultura, Storia

8 settembre 1943: L’armistizio che divise il Paese in due.

I fatti dell’8 settembre del 1943, l’armistizio, fecero dell’Italia un Paese allo sbando: con l’illusione della pace, gli italiani si avviavano a un lungo periodo di stenti, bombardamenti, rappresaglie e guerra civile.

Badoglio in Abissinia in uno scatto del 1936.|WIKIMEDIA

Beppe Fenoglio in Primavera di bellezza (1959) raccontò l’8 settembre del 1943 dal punto di vista di un soldato: “E poi nemmeno l’ordine hanno saputo darci. Di ordini ne è arrivato un fottio, ma uno diverso dall’altro, o contrario. Resistere ai tedeschi – non sparare sui tedeschi – non lasciarsi disarmare dai tedeschi – uccidere i tedeschi – autodisarmarsi – non cedere le armi”.

Poche righe che rappresentano esattamente i momenti drammatici in cui il nostro Paese, stremato dalla guerra, fu consegnato in mani straniere, americane al Sud, tedesche al Nord.

Il generale Giuseppe Castellano firma l’armistizio a Cassibile per conto di Badoglio. Il giorno dopo la sua proclamazione il re abbandona Roma e si rifugia a Brindisi.

IL PAESE ALLO SBANDO. Mussolini era stato deposto da poco, dalla seduta del Gran consiglio del Fascismo, il 25 luglio 1943. Quel giorno il re Vittorio Emanuele III aveva nominato capo del Governo il maresciallo Pietro Badoglio, ex capo di Stato maggiore: fu lui ad autorizzare la resa.

Il 3 settembre 1943 fu siglato segretamente l’armistizio di Cassibile tra il generale Castellano, incaricato da Badoglio, e il suo pari grado americano Eisenhower (che nel 1953 sarebbe diventato il 34° presidente degli Stati Uniti).

«L’armistizio fu reso pubblico 5 giorni dopo», racconta la storica Elena Aga Rossi, autrice di Una nazione allo sbando (Il Mulino) su Focus Storia 63: «La situazione militare era disastrosa. Dopo lo sbarco in Sicilia, il 10 luglio, il governo italiano aveva perso tempo prezioso nel tentativo di evitare una resa senza condizioni. Ma non ci riuscì.»

LA GUERRA È FINITA? Alle 19:45 dell’8 settembre Badoglio lesse ai microfoni dell’Eiar (antesignana della Rai) il suo proclama, che includeva un passaggio decisamente ambiguo:

[…] Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza […]

A nessuno fu chiaro che cosa si dovesse fare: non sparare più agli americani? Iniziare a colpire i tedeschi? Il proclama era (volutamente) poco esplicito. I primi a pagarne le spese furono i soldati. Ordinando alle forze armate italiane di reagire solo se attaccate, il proclama sottintendeva la speranza – dimostratasi illusoria – che gli americani ci avrebbero tolto le castagne dal fuoco guidando loro un attacco contro i tedeschi al posto nostro nei punti nevralgici del Paese. Ma questo non avvenne.

ROMA CITTÀ APERTA. Come se non bastasse, i vertici politici del Paese abbandonarono le postazioni: all’alba del 9 settembre, con le prime notizie di un’avanzata di truppe tedesche verso Roma, il re, la regina,  Badoglio e altri pezzi grossi dello Stato maggiore fuggirono da Roma e si fermarono a Brindisi che divenne per qualche mese la sede degli Enti istituzionali.

Intanto, nessuna misura era stata prevista per difendere la capitale, e l’esercito, lasciato senza ordini, in molti casi si dissolse. La reazione tedesca non si fece attendere. «Il comando supremo delle forze armate del Reich diede via al Piano Achse, già pronto da tempo», spiega Elena Aga Rossi. «La notte stessa dell’8 settembre le forze tedesche presero possesso di aeroporti, stazioni ferroviarie e caserme, cogliendo di sorpresa le forze italiane».

Borsa nera a Roma: una “rivendita” di tabacchi, o comunque di qualcosa del genere. Nel novembre del ’43 entrò in vigore la tessera per il tabacco, che dava diritto a tre sigarette oppure a un sigaro al giorno. I negozi, però, erano raramente riforniti: gli italiani impararono a confezionarsi da sé le sigarette, riciclando il tabacco dei mozziconi o utilizzando i surrogati più fantasiosi. | WIKIMEDIA

L’ESERCITO NEL CAOS. I tedeschi emanarono poi le direttive da applicare per il disarmo dei militari italiani, che dovevano essere suddivisi in tre gruppi: chi accettava di continuare a combattere dalla loro parte poteva conservare le armi; chi non lo faceva era mandato nei campi di internamento in Germania come prigioniero di guerra, mentre chi opponeva resistenza o si schierava con le forze partigiane veniva fucilato, se era un ufficiale, oppure impiegato nei campi di lavoro sul posto o nell’Europa occupata.

LA BORSA NERA. Per i civili le cose non andarono meglio. L’Italia era già abituata al razionamento alimentare introdotto durante la guerra e il mercato nero era una realtà economicamente corposa anche prima dell’8 settembre.

Dopo l’armistizio però la situazione s’inasprì, perché gli occupanti nazisti fecero requisizioni di ogni genere e bloccarono la distribuzione di carburante (tutto di provenienza tedesca) al Sud. Risultato? C’erano tessere annonarie per quasi tutto, dal sapone al cibo all’abbigliamento.

GUERRA CIVILE? La popolazione, che si era illusa che la guerra fosse finalmente finita, prese atto che così non era. Il conflitto si trascinò ancora per più di un anno, fino alla primavera del 1945. Con l’aggravante di trasformarsi in una sorta di guerra civile.

Mussolini, il 23 settembre 1943, proclamò infatti la Repubblica di Salò, mentre i partigiani diedero il via alla guerra di liberazione: il Comitato di Liberazione Nazionale fu fondato a Roma il 9 settembre 1943, mentre lo Stato italiano era praticamente dissolto e con esso la credibilità dei suoi vertici istituzionali.

Fonte: focus.it (qui)

Anniversari

Primavera di Praga, 50 anni fa l’invasione sovietica mette fine al “socialismo dal volto umano”

Da liberatori dai nazisti a invasori: i tank russi invadono Praga e sorprendono la popolazione locale. Gli stessi militari russi non ne sanno molto e convinti di fare un’esercitazione si ritrovano ad occupare un ‘territorio amico’. 200 persone, da una parte e dall’altra, muoiono durante gli scontri in una manovra finalizzata a stroncare le riforme del segretario generale del Partito Comunista, Alexander Dubček, e decretare la fine del tanto desiderato ‘socialismo dal volto umano’ che il politico cecoslovacco cercò di imprimere nel sogno della Primavera di Praga.

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Seimila blindati e mezzo milione di soldati stroncano il sogno della Primavera del 1968 per Praga e per la Cecoslovacchia. L’invasione sovietica decreta la fine del ‘socialismo dal volto umano’, desiderato dal politico Alexander Dubček, sotto lo sferragliare dei cingoli dei carri armati a scapito del trattato di amicizia, cooperazione e mutua assistenza tra Paesi comunisti. Nella notte tra il 20 e il 21 agosto le truppe di cinque Paesi del Patto di Varsavia invadono la Cecoslovacchia tra l’incredulità della gente che non riesce a considerare nemici i soldati e circonda i carri armati cercando di dialogare in russo con gli occupanti. Anche Umberto Eco – testimone oculare – lo racconta sulle pagine dell’Espresso del primo settembre 1968. Dubček chiede di non opporre resistenza, ma alla fine il bagno di sangue è inevitabile: 200 persone muiono negli scontri. Il politico cecoslovacco, eletto nel gennaio 1968 segretario generale del Partito Comunista (Pcc) e premier dell’allora Cecoslovacchia, è protagonista di un tentativo di introdurre elementi di democrazia in uno dei sistemi più duri del Patto di Varsavia. Con l’elezione, in marzo, dell’ex generale Ludvík Svoboda alla presidenza della Cecoslovacchia, le riforma sociali hanno la strada spianata. All’ordine del giorno c’è la censura che viene parzialmente abolita, il ripristino della libertà di parola e d’opinione e l’apertura delle frontiere. Nel progetto c’è anche la creazione di una Cecoslovacchia federata. Pur non mettendo in discussione la propria fedeltà all’Urss di Leonid Il’ič Brežnev, le riforme cecoslovacche allarmano i russi. Due mesi più tardi, il giornalista e scrittore ceco Ludvík Vaculík pubblica il ‘Manifesto delle duemila parole’: una dichiarazione di aperto dissenso nei confronti del partito comunista – ma non eversiva – e un invito all’ala progressista a lavorare per una svolta più decisa. Dubček e altri riformisti non condividono il Manifesto, che viene sottoscritto da centomila persone, e la repressione si abbatte su migliaia di firmatari mentre il leader del Pcc condanna pubblicamente il testo. La Primavera finisce qui.

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E il 3 agosto a Bratislava Dubček incontra Brežnev per rinnovare la sua fiducia, nonché quella del Paese e del partito, all’Unione Sovietica. Ma al Cremlino le rassicurazioni non bastano. La decisione è oramai presa da tempo e le immagini dei tank sovietici in piazza San Venceslao fanno il giro del mondo. La propaganda di Mosca insiste sulla liberazione del Paese dai controrivoluzionari, mentre la radio di Praga continua a diffondere i disperati messaggi nell’Europa libera esortando a non credere a quella versione palesemente falsa. Il 24 agosto, Dubček e gli altri esponenti del governo cecoslovacco vengono portati a Mosca e obbligati ad accettare la presenza delle truppe del Patto di Varsavia e a rinunciare al programma di riforme. Il sogno della primavera di Praga evapora tra le nuvole grigie che sovrastano il Cremlino.

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Comincia l’era della “normalizzazione”, ovvero la repressione e il riallineamento all’ortodossia sovietica. Il 16 gennaio 1969 lo studente universitario Jan Palach, senza dire una sola parola, si cosparge di benzina e si dà fuoco in piazza Venceslao. Il mondo plaude al gesto disperato e guarda con ammirazione la vicenda. Centinaia di migliaia di persone partecipano ai funerali del ragazzo e sfidano il regime. Il 17 aprile, però, Dubček viene destituito e il suo posto è rimpiazzato da Gustav Husák. “Non solo non abbiamo taciuto, ma abbiamo agito e cercato di pesare, e di fronte all’intervento militare dei cinque Paesi del patto di Varsavia abbiamo espresso il nostro grave dissenso”, afferma Pietro Ingrao alla Camera il 29 agosto 1968.

Da rainews.it (qui)