Africa, Europa, Immigrazione, Politica

Kagame: “La crisi migratoria è una creazione dell’Europa”.

Dal quotidiano ruandese The New Times riportiamo la traduzione di un’intervista al presidente Paul Kagame, che affronta temi cruciali per l’Africa visti da un’ottica – per una volta – non europeocentrica. Non sorprende che sottolinei il ruolo dell’Europa nell’attirare gli immigrati clandestini, lo scarso effetto dei miliardi di fondi affluiti in Africa (di cui molti avevano “un biglietto di ritorno”), l’atteggiamento ipocrita e presuntuoso tenuto da un’Europa peraltro in crisi. 

Il presidente Paul Kagame afferma che l’Europa ha investito miliardi in modo sbagliato e ha invitato i migranti. Considera il modello europeo di democrazia inefficiente e le élite africane problematiche.

In un’intervista esclusiva con il quotidiano austriaco Die Presse, il presidente Kagame, che si trovava nel paese europeo per il vertice di alto livello Europa-Africa che si è tenuto nella capitale Vienna, parla a lungo dei legami africani ed europei, del commercio, dell’impegno della Cina in Africa e degli aiuti.

Di seguito è riportata la versione tradotta dell’articolo originariamente pubblicato in tedesco.

Perché l’Europa ha riscoperto il suo interesse per l’Africa? A causa della crisi migratoria?

L’Europa ha trascurato l’Africa. L’Africa avrebbe dovuto essere un partner da scegliere anche solo i base alla nostra storia comune. Ma gli europei hanno semplicemente avuto un atteggiamento sbagliato. Sono stati presuntuosi.

L’Europa ha creduto di rappresentare tutto ciò che il mondo ha da offrire; che tutti gli altri potessero solo imparare dall’Europa e chiedere aiuto. Questo è il modo in cui gli europei hanno gestito l’Africa per secoli.

E questo sta cambiando ora?

Sta iniziando a cambiare. A causa di alcuni fatti.

Quali fatti?

L’Europa ha capito che le cose non sono così rosee nel suo stesso continente. La migrazione è solo una parte del problema, solo una parte di ciò per cui i cittadini europei sono scontenti. Basta guardare a tutte le proteste e al cambiamento del panorama politico. La rabbia è diretta contro gli errori commessi dalla leadership politica.

La popolazione africana raddoppierà entro il 2050. Solo per questa ragione, molte persone potrebbero prendere il cammino dell’Europa nei prossimi anni.

Non è solo una questione di dimensioni della popolazione. Quello che conta è il contesto in cui cresce la popolazione. La Cina ha 1,3 miliardi di abitanti. Tuttavia, non si sono viste legioni di cinesi migrare illegalmente in altri paesi.

Anche se la popolazione dell’Africa non crescesse, in molti posti la povertà sarebbe ancora così grande che le persone cercherebbero alternative. L’Europa ha investito miliardi su miliardi di dollari in Africa. Qualcosa deve essere andato storto.

Che cosa è andato storto?

In parte, è che questi miliardi avevano un biglietto di ritorno. Sono fluiti in Africa e poi tornati di nuovo in Europa. Questo denaro non ha lasciato nulla sul terreno in Africa.

Alcuni di questi soldi potrebbero essere scomparsi nelle tasche dei leader africani.

Supponiamo per un momento che sia così. L’Europa sarebbe davvero così pazza da riempire di denaro le tasche di ladri? Potrebbe anche esserci un’altra ragione per cui il denaro non ha prodotto risultati: perché è stato investito nel posto sbagliato.

Quindi dove dovrebbero andare i fondi per lo sviluppo?

Nell’industria, nelle infrastrutture e nelle istituzioni educative per la gioventù africana, il cui numero sta crescendo rapidamente. Questo è l’unico modo per avere un dividendo demografico.

La Cina sta investendo molto nelle infrastrutture. Le aziende cinesi stanno costruendo strade in Ruanda. I cinesi lavorano in modo più intelligente degli europei?

La Cina è attiva in Ruanda, ma non in modo inappropriato. Le nuove strade in Ruanda sono in gran parte costruite con denaro europeo. A volte ci sono subappaltatori cinesi.

Ritiene che l’impegno della Cina in Africa sia una buona cosa?

È buono, ma può ancora essere migliorato. Gli africani devono soprattutto lavorare su se stessi. In Ruanda, conosciamo la nostra capacità e quali proposte cinesi dobbiamo accettare, in modo da non sovraccaricarci di debiti. Ma ci sono anche paesi che non hanno fatto buoni accordi e ora si stanno strangolando.

Questi paesi sono incappati nella trappola del debito.

Non tutti, ma può succedere. Dipende da noi africani. Perché non sappiamo come negoziare con la Cina? Certamente i cinesi non sono qui solo come filantropi per aiutarci.

Quindi lei vede anche un problema relativo alle élite in Africa.

Decisamente. L’Africa è rimasta un continente da cui le persone semplicemente si servono.

Quale paese è servito da modello di sviluppo per lei? Singapore?

Abbiamo imparato alcune cose da Singapore. Collaboriamo ancora con Singapore oggi. Ma non abbiamo cercato di copiare nessun altro paese.

Quali sono i fattori chiave per lo sviluppo?

La prima cosa e la più importante è investire nella propria gente, nella salute e nell’educazione. In secondo luogo, devi investire denaro in infrastrutture e, in terzo luogo, in tecnologia.

Stiamo cercando di creare sistemi di valore che ci consentano di essere più efficienti: turismo, informatica, energia. Ma soprattutto vogliamo fornire una migliore educazione ai nostri cittadini per favorire l’innovazione e l’imprenditorialità.

Ha una visione su dove dovrebbe essere il suo paese tra 20 anni?

Abbiamo iniziato nel 2000 con un piano per il 2020. Ora abbiamo elaborato un nuovo piano dal 2020 al 2050, diviso in due fasi di 15 anni. La nostra visione è quella di costruire un paese stabile, sicuro, prospero e sostenibile, in cui i nostri cittadini possano vivere una vita buona in un ambiente incontaminato.

Lei è stato generale, ministro della Difesa e dal 2000 presidente…

Mi manca la mia vita come comandante militare e ministro della Difesa. (Ride). La preferivo alle sciocchezze che spesso devo affrontare.

L’ex presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, la ha fortemente criticata nel 2015 per aver cambiato la costituzione per rimanere in carica più a lungo. Si considera indispensabile per il benessere del suo paese?

Una cosa dovrebbe essere buona o cattiva solo perché Obama la vede in quel modo? In Germania, Angela Merkel ha corso per quattro elezioni. Nessuno si è inquietato. Non ho proposto io di cambiare la costituzione. Non sono stato coinvolto nella decisione, ma l’ho accettata. I ruandesi apprezzano il lavoro che ho svolto.

Chiaramente rimprovera all’Occidente di imporre i suoi standard democratici agli altri.

L’ipocrisia degli europei è sorprendente. Predicano ciò che non praticano loro stessi. Perché c’è questo fallimento in Europa? A causa della democrazia? Se democrazia significa fallimento, allora la democrazia europea non è qualcosa che dovrei praticare.

Come valuta la gestione europea della crisi dei rifugiati del 2015 ?

L’Europa ha un problema di migrazione perché non è riuscita ad affrontare il problema in anticipo. Invece di aiutare l’Africa, ha ulteriormente impoverito il continente. Non mi fraintenda: non sto dando all’Europa tutta la colpa del problema della migrazione.

È un problema condiviso. Gli africani devono chiedersi perché c’è questo caos con la gente che continua a fuggire dalle proprie terre. Di questo non può essere ritenuta responsabile l’Europa.

Ma gli europei vogliono modellare gli altri a loro immagine. Lamentano costantemente che l’Africa è piena di dittatori. Che è un modo per dire: “Noi sì che siamo liberi, l’Europa è il paradiso, vieni!”. Così l’Europa ha invitato gli africani. Fino ad oggi.

Alcuni leader dell’opposizione sono stati recentemente rilasciati dal carcere in Ruanda. Espandere lo spazio democratico è una parte della sua strategia di sviluppo?

Non sono sicuro che le persone abbiano la stessa cosa in mente quando parlano di democrazia. E cosa intende per “leader dell’opposizione”? Uno di loro ha infranto ogni tipo di regola quando si è proposta come candidata alla presidenza.

Questa storia è stata poi presentata come se volessi impedirle di partecipare alle elezioni. Questa donna avrebbe avuto zero possibilità di vincere anche alle elezioni come sindaco.

Se lei è così popolare, la repressione non dovrebbe essere necessaria.

Che cos’è la democrazia? Permettere ai malfattori di ottenere il sopravvento? L’altra donna che è stata rilasciata era stata condannata per avere collaborato con gli autori di genocidio. In altri paesi sarebbe stata giustiziata.

Allora, perché è stata rilasciata?

Abbiamo concesso la clemenza a molti. La nostra stessa gente ci richiama all’ordine, quando vedono assassini per le strade. Non ci fa piacere farlo, ma vogliamo avere un futuro comune nel nostro paese.

Quanto è fragile l’equilibrio in Ruanda? Solo 24 anni fa furono massacrate 800.000 persone.

Stiamo cercando di guarire la società. Molti parenti delle vittime lo trovano difficile da capire. Parliamo con loro. La politica non è un gioco. Riguarda la vita delle persone.

Die Presse

Christian Ultsch, 24 dicembre 2018

Europa, Federalismo, Politica, Sovranità

La strada è quella di un sovranismo debole, federalista. Mentre con l’Europa è necessario ripensare la nostra appartenenza in modo diverso da come è stato fino ad ora.

 

Dal Convegno dell’Associazione Aletheia organizzato lo scorso 2 febbraio 2019 gli intervento del Prof. Becchi. Il titolo del convegno è stata “Chi comanda a casa nostra?”.

Il Prof. Becchi affronta il tema del rapporto tra Costituzione italiana e Trattati europei (di Maastricht e di Lisbona), ma parte del suoi interventi indagano anche sul tema dell’appartenenza fino a evidenziare che si debba ricercare il sovranismo e con la particolare situazione italiana, che ha le caratteristiche di un laboratorio politico, può emergere un particolare sovrasmo debole e federalista, di Johannes Althusius (qui). Un sovranismo che non può essere forte, ma per le caratteristiche di chi Governa il Paese, esprimono oggi due sovranismi quello identitario della Lega (un tempo secessionistico) e quello solidaristico del Movimento 5 Stelle.

Conclude con un accenno alle prossime elezioni europee laddove ad oggi tutti i principali partiti affrontano il tema Europa con la medesima proposta politica ovvero che l’Europa deve cambiare, ma nessuno affronta il tema nodale, e cioè la necessità che si imponga un manifesto per la difesa delle identità dei popoli europei e una necessaria revisione del modello di appartenenza all’Europa.

Europa, Germania

Se cade la Germania, cade l’Unione Europea

Riflessioni sulle possibili crisi e opportunità dei dati economico-politici della nazione tedesca.

La Francia è momentaneamente caduta in disgrazia, per di più in un momento politico decisamente propizio per quelle forze politiche che spingono in direzione del sovranismo. È propizio perché in concomitanza con il periodo che precede le elezioni Europee, che potrebbero determinare una fase più fertile di cambiamenti in senso reazionario o rivoluzionario a seconda di come le forze in gioco sapranno sfruttarlo.

E dunque oggi, dopo la Brexit e la protesta dei gilet jaunes, è la Germania l’unica vera stabile nazione promotrice del progetto europeista, nonostante la (ri)proposizione dell’asse franco-tedesco segnato dal patto di Aquisgrana. Essa cova al suo interno delle contraddizioni molto forti: basti pensare al grosso nodo rappresentato dalla situazione in cui versa Deutsche Bank con le sue scommesse in derivati per 48,26 trilioni di euro, pari a quindici volte il Pil della Germania. Se anche una piccola parte di queste scommesse dovesse risultare perduta, sarebbe un serio problema per la sua economia interna, nonché per la tanto declamata “tenuta dell’Euro”. Gli squilibri interni all’assetto tedesco sono sempre stati calmierati da interventi pubblici di una vera e propria cassa di Depositi e Prestiti (la KFW) i cui sovvenzionamenti vengono esentati dal computo del Deficit, mentre le altre Nazioni Europee venivano sottoposte a rigide limitazioni sull’interventismo pubblico.

Quello della Germania è un impero di carta, fragile, che gioca da vent’anni sulle opportunità offerte dai peggiori difetti della moneta unica e che ai propri vantaggi ha sacrificato il suo medesimo progetto: esempio paradigmatico è la conduzione della crisi greca. Non è esagerato affermare che se domani finisse l’Euro, la Germania sarebbe tra i maggiori imputati del suo fallimento. Ad un quadro complesso si aggiungono i recenti dati economici che hanno visto la Germania sfiorare la recessione nel 2018 e la revisione al ribasso di tutte le sue stime di crescita, di cui Il motivo principale consiste nel rallentamento dello sviluppo dell’economia cinese, che sta trascinando tutti i Paesi fortemente esportatori (la Germania lo è molto più dell’Italia, con un surplus commerciale da più di venti miliardi). Anche questo è un altro tema su cui riflettere: la distorta dipendenza dell’economia Occidentale dall’economia cinese, già manifestatasi nel crollo della Apple di inizio gennaio, molto sentita negli Usa e oggetto di campagna elettorale dell’attuale Presidente Donald Trump, che ha risposto con una politica sui dazi. Tutti indici di debolezza sul fronte della politica estera ed interna, per quello che è ad oggi il Paese cardine dell’Unione, che potrebbero segnare una svolta radicale, se propiziate da condizioni favorevoli.

Una forte crisi dell’economia tedesca significherebbe la fine dell’Euro? Si può dire che con le attuali variabili ciò è altamente probabile, ma che oggi tale crisi è poco più che un’ombra. Ciò che è sicuro, è che se l’amalgama “populista” non si darà una direzione chiara soccomberà, con nemici forse meno potenti di quello che sembrano, ma certamente molto più organizzati.

Fonte: L’Intellettuale Dissidente (qui) Articolo di P. Maruotti del18 febbraio 2019.

Economia, Europa, Politica, Unione Europea, Verso le elezioni europee

La crisi che verrà, cambierà ancora lo scenario politico interno. E l’Europa franco-tedesca sarà sempre più forte.

Riprendo un articolo di Roberto Marchesi apparso sul sito de il Fatto quotidiano (qui) dal titolo “Questo ciclo economico è alla fine. Un’altra recessione è alle porte”. Ma anche altri annunciavano la recessione nel 2019. Nella speranza che la recessione resti tecnica e non si traduca in una nuova crisi economica, segno della chiusura del ciclo economico di crescita. Dimenticavo un crisi ora ci colpirebbe in modo drammatico non essendo come sistema paese riusciti a ritornare alla situazione pre-crisi 2008. Un dato è incontrovertibile, la recessione tecnica conseguenza di diversi fattori, tra i quali l’insufficienza delle politiche della precedente legislatura e del Governo Gentiloni troppo appiattite sui modelli imposti di austerità, consente, nostro malgrado di verificare se le misure messe in campo dal Governo del cambiamento sono state adeguate e sufficienti o dovranno essere implementate sforando quel limite anacronistico del 3% imposto da Bruxelless. D’ora in poi verificheremo cosa il Governo Conte sarà in grado di fare per affrontare la recessione e capire quali correttivi saranno adottati alla politica economica gialloverde. Spero sicuramente in una manovra correttiva, ma non di aumento delle imposte, semmai di espansione, a deficit, della spesa produttiva e degli investimenti necessari per stimolare l’economia in recessione. Un anno bellissimo lo ha definito il Presidente Conte, lui è consapevole che saremo pronti a osannarli se ci salveremo, ma anche pronti a spazzarli via se falliranno. E’ indubbio che le crisi economiche hanno già fatto vittime illustri. Nel 2008 la grande crisi ed il governo Berlusconi in carica proprio dal 2008 è finito con Governo in vitro guidato da Monti. Siamo nel 2019 e la recessione tecnica, rischia di diventare una seconda crisi che metterà a dura prova i debiti sovrani. Ma Draghi non interverrà prontamete. Attenderà che la crisi si evidenzierà in modo chiaro prima di proporre un nuovo QE alle cui condizioni gli Stati non metteranno ostacoli. Altra cessione di sovranità, in cambio di una ombrello protettivo. Uno scenario che speriamo sia scongiurabile. L’Europa delle banche sarà pronta ad approfittarne e vorrà la rivincita sui populismi. Arriverà la proposta di Debito pubblico europeo (di figli e figliastri ovviamente). E l’accordo di Aquisgrana tra Francia e Germania recentemente siglato sarà messo in atto. Saranno loro a governare il debito pubblico dell’area euro. Saranno loro a pretendere un”Unione europea a due velocità. Un’Europa che illusoriamente si presenterà con due facce, ma il risultato non sarà altro che quello che è già prestabilito, un ulteriore passo verso l’integrazione europea a guida franco-tedesca, dove la parte tedesca continuerà a guidare le politiche europee e la parte mediterranea continuerà a restare su quel piano inclinato quanto basta per non scivolare nell’abisso. Un colonialismo interno vestito da cooperazione solidaristica. Ma il punto è il seguente: la nostra attuale classe politica si accoderà o farà saltare il tavolo?

Quando si parla di borsa e mercati, parlare di “fine di un ciclo” significa innanzitutto dire che una burrasca per i risparmiatorista arrivando. In questa occasione non si tratterà di una semplice “correzione” (riaggiustamento dei valori, nda) ma sarà certamente una fase recessiva probabilmente lunga e pesante, visto che, oltre ai fenomeni soliti (di seguito descritti), questa avrà caratteristiche globali molto più ampie e contemporanee. Sarà perciò impossibile, nello spazio breve di questo articolo, descrivere compiutamente l’intero intreccio di tutti questi fenomeni, e le responsabilità di chi li governa, ma colgo l’occasione di un chiarissimo articolo pubblicato questo mese dalla popolare rivista americana Fortune, sotto il titolo: “The end is near for the economic boom” (La fine è vicina per il boom economico), per suonare anche qui le sirene, perché quando una crisi arriva negli Usa diventa sempre globale.

Vediamo dunque quali sono questi indicatori economici che fanno scattare l’allarme.

Il primo è il Treasury yield curve (vedi grafico sotto), quello che segna la differenza tra il rendimento delle obbligazioni di medio-lungo periodo da quelle a breve scadenza. E’ un classico: quando questo indicatore arriva all’inversione, cioè quando i bond di breve periodo danno rendimento maggiore di quelli a lunga scadenza, significa che il mercato è arrivato al punto di “correzione” ovvero: l’ottimismo deve essere sostituito dalla prudenza.

L’altro sicuro indicatore che preannuncia l’inversione di tendenza, e l’imminente entrata in recessione, è quello della disoccupazione.

Davvero curioso questo indicatore, perché è come guardarsi allo specchio, ti vedi al contrario di come sei in realtà e di come ti vedono tutti gli altri. Quando esso segnala il massimo del bel tempo significa che è in arrivo la tempesta! E’ davvero strano, ma finora non ha mai fallito!

L’anomalia sta (forse) nel fatto che, essendo un indicatore molto seguito anche a livello popolare, il bassissimo livello dei disoccupati consente all’indice della “confidenza”, cioè il gradimento popolare, di volare alto anche se in realtà, proprio sul piano economico, segnala “brutto tempo in arrivo” a causa dello squilibrio che si viene a creare per l’eccessivo ottimismo.

Un indicatore che invece tutti capiscono è quello dell’indebitamento, sia pubblico che privato che sta salendo senza freni e senza alcun serio motivo. Geoff Colvin, l’autore dell’articolo di Fortune citato sopra, attribuisce questa imprudenza all’eccesso di confidenza, ma sulla crescita della spesa pubblica la responsabilità (anzi, l’irresponsabilità) non può essere d’altri che di Trump, che evidentemente cura altri interessi invece che quelli della nazione.

Ma anche l’indebitamento privato è arrivato ad un livello preoccupante, e non otterrà grandi benefici dalla “flat tax” di Trump, dato che non ce n’era bisogno. Infatti le imprese, mediamente, si sono indebitate senza che ve ne fosse reale bisogno dato che il loro boom economico dura da decenni avendo attraversato senza gravi danni tutte le recessioni incontrate. “Bonanza” è cominciata per loro da Reagan in poi e dal 1997 (anno della completa liberalizzazione delle banche) la media annuale degli utili (fino al 2017) è stata del 7,2% (indice S&P).

Non sapendo come investire proficuamente quella “manna” dal cielo optano in gran parte sul “buy-back”, cioè l’acquisto di azioni proprie che, pur dando maggiore solidità finanziaria all’impresa (spesso non necessaria), non trova poi fattivo utilizzo imprenditoriale. Sono come la medicina data a chi non ne ha bisogno. Finirà col far male invece che bene.

Infatti, con una disoccupazione così bassa questa orgia di utili inutili produrrà solo inflazione, che la Banca Centrale (la Fed) sarà disarmata a quel punto a contrastare, perché Trump sta già usando dissennatamente tutti gli strumenti di politica economica al solo scopo di produrre (per se stesso) “armi di distrazione di massa” senza benefici reali per l’economia e per la gente, che anzi viene sempre più mortificata dalle sue scelte strampalate.

Persino Bernanke, l’ex presidente Fed repubblicano che si è trovato nel 2008 proprio nel vortice della prima “Grande Recessione” della storia economica, e ha trovato nella sperimentazione su larga scala del Quantitative Easing la via per accompagnare coerentemente il presidente Obama fuori dalla crisi, ha avuto parole di forte critica per Trump: “Questi stimoli all’economia arrivano nel momento sbagliato, Wile E. Coyote is going to go off the cliff” (mentre Willy Coyote vola giù dal precipizio).

Ci sarebbe ancora molto da dire ancora sulle politiche di Trump: la guerra dei dazil’autarchial’arroganza politica con cui vuole trattare nemici e alleati allo stesso modo, ecc. ecc. ma qui non ho più spazio. Questo ciclo economico va ad esaurirsi proprio nel momento peggiore. Ci sono già tutti i segnali della depressione in arrivo (ma non aspettatevi, avverte Geoff Colvin, che siano gli economisti a suonare la sirena, “loro non lo fanno mai!”), tuttavia, inspiegabilmente, la cosa non sembra interessare l’amministrazione Trump.

Tra pochi giorni (il 15 settembre) saranno dieci anni esatti dal grande crollo in Borsa del 2008 che ha accompagnato il fallimento di Lehman Brothers. Speriamo che la storia non si ripeta.

Europa, Politica, Sovranità

Perchè Draghi fa’ paura. Come Stalin. di M. Blondet

“Un paese perde sovranità quando il  debito è troppo alto”,  ha esalato Mario Draghi   in audizione all’europarlamento giorni fa.

Sui blog di chi capisce queste cose, ci si è stupiti e indignati. Alcuni  sarcastici:  Draghi ha riportato in vigore la schiavitù per debiti, un  grande progresso del  capitalismo. I commenti sottolineano la palese menzogna: il Giappone ha un debito del 240 per cento e non ha perso sovranità. Altri fanno notare invece che il Venezuela ha un debito pubblico del 23%, quindi dovrebbe essere solidamente sovrano..

Altri replicano che il debito è fa perdere sovranità solo se si è nell’euro, ossia se non  si ha una propria banca centrale d’emissione e prestatore d’ultima istanza. . Che uno stato  perde sovranità quando ha  debito denominato in moneta straniera, come noi italiani con l’euro – che per noi è una moneta straniera, che non possiamo manovrare.

Uno stupore generale perché pare che Draghi non sappia quello che fa  alla BCE, ossia creare  denaro dal nulla in quantità illimitata, cosa che fanno anche stati sovranissimi come il Giappone e gli USA.

Stupore che Draghi  dica  cose come:

“un paese perde la sua sovranità (…) quando il debito è così alto che ogni azione politica deve essere scrutinata dai mercati, cioè da persone che non votano e sono fuori dal processo di responsabilità democratica”.

“Ci sono i mercati. I mercati dicono a un paese cosa ci si può permettere e cosa no, cosa è credibile o cosa no”.

Ancor più stupisce che Draghi, per  smentire coloro che credono che l’Italia avesse la sovranità monetaria prima di entrare nell’euro – o diciamo, prima dell’81, quando la Banca d’Italia  aveva l’obbligo di comprare i titoli di debito  del Tesoro  eventualmente invenduti, egli replica: “Anche quelli che svalutavano regolarmente non avevano sovranità, perché quando si guarda a come si misura la sovranità,  la  stabilità dei prezzi e controllo dell’inflazione e della disoccupazione, questi paesi facevano peggio di quelli che si agganciavano (al marco) se si guarda ai numeri in 15-20 anni” (…).

Dunque Draghi ignora che  svalutare è  appunto un atto della sovranità  politica? Come lo è, al contrario, decidere di agganciare la lira al marco?  Ci si deve chiedere  che cosa intenda alla fine questo banchiere centrale per “sovranità”: pare averne una idea estremamente equivoca. La  confonde  con concetti diversi, come”forza”, potenza,  ricchezza eccetera.  Gli sfugge completamente – possibile? – che “sovranità” è una condizione giuridica:  la condizione di  indipendenza  legale,  analoga nell’individuo privato  alla “personalità giuridica”:  uno che ha personalità giuridica   è uno che può stipulare contratti, sia il suo reddito modesto o ricchissimo, non è quello che fa differenza.

Draghi dice  altre cose strane: che prima, c’era “Il caro vita”, miseria e guerra.  Prima, c’era disoccupazione  maggiore di oggi: cosa  falsissima. Dice che oggi  “la  moneta unica ha rafforzato l’occupazione dal 59 al 67%  e diminuito la  disoccupazione”.   Dice che le banche greche oggi “sono ben capitalizzate”. Dice che “c’è unanimità nel consiglio direttivo che la probabilità di una recessione sia bassa”, proprio mentre  i dati dell’economia tedesca cadono.

Insomma dice, con quella faccia sempre uguale e la voce sempre calma, tante enunciazioni smentite dai fatti reali, che alla fine, l’impressione che incute è di sottile, gelido terrore. Il terrore che ti prende quando ti   trovi davanti ad un autistico psicopatico, cui è stato dato il potere supremo, quello monetario.

Il terrore poi cresce quando si  deve constatare che quella di Draghi non è una sua privata follia.  Lo  stesso rapporto falso con la realtà lo ha  rivelato  condivisa per esempio dal governatore di Bankitalia, il grandemente inadempiente e non-sorvegliante Visco, che in una conferenza alla Scuola di Sant’Anna ha esalato:

Se c’è una tassa iniqua è proprio l’#inflazione, perché è regressiva e impedisce di occupare le persone: prima che ci fossero gli strumenti di #politicamonetaria per contrastarla, i tassi di disoccupazione erano alti e le crisi industriali parecchie”. 

 

Visco: “In Italia abbiamo avuto periodi con inflazione al 20%, non c’erano strumenti di politicamonetaria per contrastarla: fu con il divorzio Bankitalia/Tesoro che venne riportata al 5-6% e la “tassa di inflazione” spa  Alla  presentazione di  “AnniDifficili” a Pisa

 

Una frase così falsa da lasciare senza fiato.

“Embé, da un governatore non se po’ sentì ’sta cosa”, commenta uno.

Zibordi: “Ma che razzo dite ? negli anni ’70 la distribuzione del reddito a favore del lavoro dipendente raggiunse il massimo. L’inflazione era alta, ma perché la quota del reddito che andava al lavoro era alta (e gli aumenti salariali spingevano l’inflazione)”. E lo dimostra con questa tabella:

Leonardo Sperduti: “Negli anni 70 la capacità di risparmio netto è stata massima. Ma a loro piace cambiare la storia e rinnegare i dati”.  …”Siamo ancora al livello che emettere moneta crea automaticamente e direttamente inflazione? Quanta moneta è stata emessa dalle banche centrali mondiali? A quanto è l’inflazione in Europa, USA, UK, Giappone ecc?”.   Infatti s’è instaurata la deflazione,  ela BCE non riesce a portare l’inflazione almeno al 2%, come sarebbe obbligata a fare.

Inflazione tassa regressiva? Che colpiva i poveri?

“Allora, gli operai compravano casa e facevano laureare i figli. Ovvio che i rentier si sentissero erodere il potere”, rimbecca uno. “Guarda caso in quei periodi di inflazione brutta brutta, anche gli operai delle acciaierie compravano case ed appartamenti”, rincara un altro.   E il tutto comprovato con tabelle e statistiche di quegli anni della lira e della sovranità monetaria.

Disoccupazione anni 70, media 6%. Inflazione anni 70, media 16%- Oggi: Inflazione 2018 1,1%; Disoccupazione 11%

E non è nemmeno vero che l’inflazione abbia raggiunto il 20%, come afferma mentendo Visco (e con lui Giannino  Oscar, il laureato di Chicago):

Ma chiunque abbia vissuto quegli anni  da adulto e lavoratore, lo sa e lo conferma: l’inflazione conviveva col pieno impiego, anzi i politici erano “ossessionati dal pieno impiego” (disse Andreatta), e il risparmio privato degli italiani aumentò fra i più alti del mondo.

Anche il PIL reale (ossia al netto dell’inflazione) cresceva negli anni “bui” della lira svalutata e inflazionata: del 4% annuo. Oggi, nella stabbilità dell’euro, cresce dello 0,2% annuo. (Dragoni su dati CGIA)

Con che faccia Visco e Draghi – ed evidentemente  gli altri membri della BCE – dicono il contrario? E’   perché condividono totalitariamente – e totalitariamente impongono alla realtà e ai popoli –   la loro ideologia.  In ciò somigliano terribilmente al PCUS degli anni ‘3, dello stalinismo sovietico,    quando le radio proclamavano “la vita diventa ogni giorno più facile e felice, grazie al compagno Stalin!”, e intano la gente faceva le file davanti alle botteghe perché mancavano il latte, le salsicce, il formaggio  e il pane,  perché il Partito stava  “eliminando i kulaki come classe”, provocando la carestia. Nessun riscontro con la realtà fletteva la visione ideologica dei capi, nessuna pietà li piegava. Quando Svetlana,  la figlia di Stalin, di ritorno dalla  vacanza in Crimea, disse a papà che attraversando l’Ucraina aveva visto cadaveri  sulle massicciate  e folle di scheletri che si affollavano attorno al treno chiedendo un tozzo di pane, Stalin  ordinò: quando i  treni attraversano l’Ucraina, abbassare le tendine!

Daghi , Visco ispirano lo stesso terrore e ci convincono che siamo entrati in un nuovo totalitarismo e ”regno della menzogna”, anti-umano e distruttore di popoli. Non sono lontani di aver fatto ai greci ciò che gli ideologici del PCUS fecero aikulaki, ma Draghi dice che adesso le banche greche sono ben capitalizzate…E i media,come allora, giurano su queste odiosità e falsità e le diffondono come fossero il Verbo, l’Autorità salvifica.

Anche Ashoka Mody,  l’economista di Princeton, ha notato lo stesso scollamento fra il reale e le espressioni di Draghi quando costui ha celebrato festosamente il ventennio dell’euro. “Il tributo di Draghi all’euro rivanga miti già da lungo tepo confutati”

E Mody ne esamina quattro. Il primo:

E’ il mercato unico a necessitare di una moneta unica. No, non è vero”.

Mody cita una serie di studi complessi che  smentiscono come il commercio  sia migliorato “eliminando i costi dei pagamenti in valuta estera e degli accordi e del rischio di cambio delle coperture”. Li lasciamo ai lettori  più eruditi, perché noi ci accontentiamo di una tabella:  dove si vede che la Germania ha aumentato il commercio  con paesi che non hanno l’euro (Polonia, Ungheria, Cechia) e  diminuito i rapporti commerciali con Francia e Italia, paesi   che hanno l’euro.

“La sovranità monetaria crea più problemi di quanti ne risolva, dice Draghi.  Ma è  così?”

Draghi lo afferma  mostrando come si comportarono i governi e i politici  negli anni 70-80,quando abusarono del potere  sovrano delle loro banche centrali di stampare moneta, creando  vasti deficit di bilancio.  Dice insomma che farebbero lo stesso oggi.  Mody risponde che gli anni ‘7’0 furono anni “eccezionali”, in parte l’inflazione aumentò per  i rincari petroliferi, che portarono anche un brusco rallentamento della crescita, facendo entrare l’Occidente intero nel periodo chiamato di “stagflazione” (inflazione con stagnazione).  Ma poi le nazioni occidentali hanno imparato a disciplinare se stesse anche non adottando una moneta unica. Mody ricorda che   la speculazione (di oros) che  forzò  il Regno Unito ad uscire dal serpente monetario nel’92,  “fu una benedizione  mascherata da maledizione”, perché allora l’economia inglese crebbe grazie alla svalutazione della sterlina. (e potrebbe dire lo stesso dell’Italia, che subì lo stresso attacco). Mody cita uno studio importante degli economisti “ Jesús Fernández-Villaverde, Luis Garicano e Tano Santos  che  hanno sostenuto il contrario : l’euro ha indebolito la disciplina macroeconomica. Una politica monetaria comune per la zona euro ha portato i tassi di interesse a scendere troppo rapidamente per i paesi con strutture istituzionali deboli. I governi di questi paesi hanno approfittato dei tassi di interesse più bassi per aumentare , in deficit, i benefici  ai gruppi  favoriti (i parassiti)  piuttosto che impegnarsi nella più dura attività di investimento per aumentare i loro potenziali tassi di crescita. Lungi dall’infliggere la disciplina, la moneta unica l’ha sovvertita.

Soprattutto, “è sconcertante che Draghi non prenda in considerazione  il beneficio più importante della sovranità monetaria, la capacità di assorbire forti shock economici attraverso  le svalutazioni del tasso di cambio.  […] Il  deprezzamento per assorbire gli shock è inequivocabilmente auspicabile. Inoltre, nella misura in cui   la svalutazione del cambio accorcia il periodo di sofferenza a seguito dello shock, aiuta anche ad evitare le recessioni estese, che  questa  recente ricerca sottolinea che minano  il potenziale di crescita a lungo termine .

Altra falsa asserzione di Draghi, gravissima:

L’eurozona promuove la convergenza economica. No non lo fa.

“I padri fondatori dell’euro avevano ragione, dice Draghi,  che la “cultura della stabilità”imposta  dalla moneta unica avrebbe promosso maggiore crescita e occupazione. E cita a prova  la “convergenza”, il restringimento delle differenze di reddito pro capite tra i paesi membri della zona euro. Draghi riconosce che il Portogallo e la Grecia hanno stagnato e divergono piuttosto che convergere. E stranamente, non cita l’Italia (che non converge affatto, ndr.) . Tuttavia, in difesa della tesi di convergenza, indica i paesi baltici e la Slovacchia come successi.

Dopo aver dimostrato i motivi del tutto speciali per cui “la Slovacchia , entrata nell’eurozona nel 2009, l’Estonia nel 2011, la Lettonia nel 2014 e la Lituania nel 2015”  erano già fortemente convergenti prima  grazie anche al loro solido capitale umano (di lavoratori qualificati) ereditati dagli anni sotto la pianificazione socialista” come documentato quiqui , Mody rimprovera apertamente Draghi: “un  simile  uso selettivo delle prove è altamente discutibile” sul piano scientifico. Il fatto che non citi l’Italia che sta divergendo, e  citi l’Estonia che  converge, è profondamente  disonesto.  E’ la disonestà “col paraocchi” e “ammantata di  superiorità”  di un  ideologo che non vuole riconoscere la realtà, quando smentisce le sue teorie, invece di riconoscerle sbagliate.

Le conseguenze di una tale falsa narrativa possono essere gravi”, avverte Mody.

“I premi Nobel George Akerlof e Robert Shiller sottolineano il ruolo cruciale che le “storie” giocano nel determinare politiche e risultati economici. Ripetute all’infinito, le storie che ci raccontiamo diventano la nostra forza motivante, che ci spinge a ignorare le prove contrarie.  Mentre si diffondono,  hanno un “impatto economico”. Spesso un impatto politico più terribile”, dice l’economista indo-inglese.

Noi,  nel nostro piccolo, non abbiamo bisogno  di attendere i suddetti premi Nobel: abbiamo visto i danni che la “narrativa” marxista e sovietica, applicata dal KGB,  ha inflitto alla  Russia e all’Est europeo in mancato sviluppo e perdite umane.

Ma soprattutto nella chiusa del suo discorso, Draghi proclama che “l’unione monetaria era necessaria per porre fine a secoli di “dittature, guerre e miseria” e invece l’euro è “il segno definitivo  del “ del “progetto politico europeo”, che unisce gli europei “in libertà, pace, democrazia e prosperità”. E qui  davvero, dice anche Mody,  il discorso di Draghi   diventa “scary”, ossia  “fa paura”: “perché le nazioni europee sono più divise che mai, dal tempo della seconda guerra mondiale, e l’euro ha contribuito notevolmente ad approfondire l’euroscetticismo”, e in Francia la “democrazia” di Macron spara sui cittadini non meno della dittatura di Maduro.

Austerity, Europa, Politica

La recessione tecnica in Italia, le cause, le soluzioni

Alla fine tanto tuonò che piovve. Chi masochisticamente mi legge sa che, personalmente, parlo della possibilità, anzi della probabilità, di recessione da giugno-luglio quindi sono tutto meno che stupito della cosa. Secondo  il mio modesto parere bisognerebbe allungare un po’ la vista e vedere le possibili uscite dalla situazione attuale, anche se le soluzioni possibili hanno il gusto della fantascienza nella situazione politica attuale.

Comunque anni, anzi ormai decenni, di taglio alla spesa pubblica ed austerità, anni di consentitemelo, di balle sull’austerità espansiva, anni di cattivi professori , di politici ignavi o autoreferenziali, non si cancellano in tre mesi:

Alcuni dati:

L’Italia non sta entrando in recessione tecnica. Semplicemente non ne è mai uscita. Interessante il paragone con quanto successo negli USA negli anni 30 della grande recessione:

Anche durante gli anni 30 del secolo scorso negli USA nella cosiddetta “Grande Depressione” ebbero momenti di leggera crescita, con altri in cui la crescita fu assente. Perfino gli USA si avviavano ad una piccola recessione nel 1938, poi questa venne risolta, anche se non in modo positivo. Dopo Monaco (1938) e lo smembramento della Cecoslovacchia iniziò un riarmo mondiale di cui gli USA riuscirono ad approfittare. Per fare un esempio la Curtiss iniziò a produrre questo per la Francia (ordinati nel primo lotto 100 con 173 motori, ed altri furono ordinati dal regno Unito).

Cosa sarebbe necessario per uscire dalla recessione? Non una guerra, speriamo, ma uno shock economico, cosa che non è possibile fare quando si deve discutere con un organo burocratico esterno del 2,4%, del 2% del 1,6% del PIL. Proprio la struttura di definizione del budget europeo, la mancanza d uno strumento monetario specifico di accompagnamento, non fa altro per paesi con una struttura economica come quella italiana, ma anche come quella francese, attenzione, che proseguire nella politica depressiva. Possiamo aspettarci che l’estero spinga, con le esportazioni, la nostra crescita? Non ci sono prospettive positive:

Questo 1,4% che vedete è su base annua perchè mese su mese siamo a -0,8% , una vera e propria caduta. Gli effetti della fine del QE sono molto più forti di quanto ci si aspettasse anche perchè accompagnati ad un rallentamento mondiale (vedremo il caso Cina a parte, ma non è positivo). Allo stato attuale bisognerebbe dare un forte shock a consumi ed agli investimenti interni, quindi si al RdC, ma anche a forti investimenti infrastrutturali, al salvataggio diretto di aziende industriali, interventi in manutenzione subito. Ad esempio subito rifacimento del tratto E45 chiuso, subito obbligare Autostrade ala ricostruzione dei ponti. Subito far costruire bus alla Italiana Autobus, appena salvata, ma , letteralmente, da domani per quello che c’è e domani con nuovi bus ibridi ed elettrici. Chi parla di crescita, i politici che affermano che il governo fa poco, in parte con ragione, inizino ad andare a Bruxelles a protestare contro le politiche restrittive comunitarie, oppure tacciano, perchè sappiamo bene chi, in questo momento, sta tirando il freno a mano.

Austerity, Europa, Politica

Recessione Europa: decisione politica, firmata Ue e Bce

Dal sito libreidee.org (qui) – I dati sulla produzione industriale che vengono man mano proposti sono sempre più inquietanti e lasciano intravvedere una situazione tutt’altro che positiva. L’area euro segna un -3,3% di produzione industriale, con un picco di -5,1% della Germania. E l’Italia, una volta tanto, fa un po’ meglio della media Ue, con 2,6% in meno. Si prevede un secondo trimestre 2018 con valori negativi per il Pil tedesco. Un disastro che non potrà non avere ripercussioni sull’andamento economico. In realtà tutto questo non è dovuto, per lo meno non ancora, ad una crisi finanziaria: mentre nel 2007-08 la crisi dei mutui subprime Usa portò a una crisi dell’economia reale per l’enorme distruzione di ricchezza finanziaria collegata, in questo caso la causa delle crisi economica sarà la volontà europea di crearla. Anche se l’innesco è stato un calo nei volumi del commercio internazionale, la risposta europea, che ripercorre quella post-crisi del debito interno ex 2011, non fa che accentuare, in modo pro-ciclico, questa variazione.

Dopo la crisi del 2009 l’Europa, terrorizzata dal proprio debito, ha perso il percorso della crescita strutturale in modo permanente. Stretta dalle paure del proprio debito, terrorizzata, guidata da una classe di economisti che, mi dispiace dirlo, inaltri momenti non avrebbero guidato neanche gli assessorati al bilancio di una grossa città italiana, l’Europa, ma soprattutto l’Eurozona, hanno abbandonato un percorso di crescita rischiando di intraprendere un cammino di involuzione e di riduzione della possibilità di crescita economica. La concentrazione unica su obiettivi di deficit invece che di crescita sta portando a un decadimento permanente e strutturale, non recuperabile nel medio periodo, della struttura economico-industriale dell’Euroarea, realizzando al contrario le fauste previsioni fatte dai firmatari del patto di Maastricht.

L’Eurozona si sta sempre di più rivelando come un’area di depressione economica e di conflitto sociale, non di crescita, giungendo al limite della repressione politica come in Francia. Siamo ancora in tempo per tornare indietro? No, senza una profonda revisione ideologica dei fondamenti europei; un cammino veramente difficile, perchè dovrebbe condurre al superamento di pregiudizi intellettuali (e, francamente, razziali) profondamente radicati. Significherebbe, in un certo senso, superare se stessa: e questa è la vera sfida del futuro. Per ora, purtroppo, governano sempre gli assessori provinciali…

Fonte: Guido da Landriano, “La recessione è una decisione politica di Bruxelles e Francoforte”, da “Scenari Economici” del 15 gennaio 2019.

Europa, Politica

Ashoka Mody: “L’euro: un’idea insensata”

Intervistato da Tim Black di “Spiked”, Ashoka Mody – professore di economia a Princeton e già dirigente presso il Fondo monetario internazionale – conferma quello che gli economisti sanno, ma la stampa spesso nega: l’euro è stata fin dall’inizio una pessima idea sia economica sia politica. La rigidità intrinseca dei tassi di cambio, le folli regole fiscali, il dominio delle nazioni forti che impongono regole riservate a quelle deboli, creano i presupposti per la divergenza economica e l’inimicizia politica tra le nazioni, anziché promuovere prosperità e pace come propagandano i sostenitori del progetto europeo. Non sono quindi i populisti a essere euroscettici: sono gli euristi che vivono in una bolla di irrealtà, ignorando i più elementari ragionamenti economici e politici.

“Si è trattato di uno sforzo un po’ solitario”, dice Ashoka Mody – professore di economia presso l’Università di Princeton, e già vicedirettore del dipartimento europeo del Fondo monetario internazionale (Fmi) –  parlando di ”Eurotragedia: un dramma in nove atti”, la sua brillante, magistrale storia della Ue e dello sviluppo dell’eurozona. “La gran parte dell’establishment europeo” continua Mody “o ha tentato di ignorare o ha contestato quelli che mi sembrano principi e dati economici assolutamente basilari”.

È facile capire perché l’establishment europeo potrebbe essere stato incoraggiato a farlo. Eurotragedia è un atto d’accusa all’intero progetto europeo postbellico, una dissezione meticolosa e abrasiva di tutto quello che è caro all’establishment europeo. Ed è anche un attacco allo stesso establishment, al pensiero di gruppo dei suoi membri, ai loro deliri, alla loro arroganza tecnocratica. Inoltre, tutto questo viene dal principale rappresentante del Fmi in Irlanda durante il suo salvataggio dopo le crisi bancaria post-2008 – una persona cioè che ha visto dall’interno  i meccanismi fiscali della Ue.

Spiked ha intervistato Mody per capire meglio la sua analisi critica del progetto europeo, i difetti fatali dell’eurozona e perché l’integrazione europea sta dividendo i popoli.

Spiked: Lei pensa che il suo lavoro su Eurotragedia sia stato solitario perché, dopo la Brexit e altri movimenti populisti, l’establishment Ue è al momento molto arroccato sulla difensiva?

Ashoka Mody: Sono sicuro che in parte la ragione è questa. Ma penso che la natura dell’intero progetto sia molto difensiva. Pensate alla dichiarazione di Robert Schuman del 9 maggio 1950, che mise le basi per la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio due anni dopo – disse che una fonte comune di sviluppo economico doveva diventare il fondamento della federazione europea. Questa idea di una federazione europea è stata screditata molto velocemente, ma i leader europei hanno continuato a corteggiarla in diverse maniere – “unione sempre più stretta”, “unità nella diversità”, nonché quella frase particolarmente priva di senso che usa il presidente francese Emmanuel Macron: “Sovranità europea”. L’intero linguaggio è problematico e mistificatorio.

Ma la questione più seria è il concetto di sviluppo economico comune come base per l’Europa. Questo è stato vero per un breve periodo dopo il trattato di Roma del 1957, che ha aperto le frontiere, ma lo slancio si è esaurito nel giro di due decenni. Puoi aprire le frontiere, ma una volta che le hai aperte, non c’è molto altro che tu possa fare. Perfino i vantaggi del cosiddetto mercato unico sono molto limitati al di là di un certo punto, ogni economista lo capisce.

Riguardo all’euro, non c’è mai stato alcun dubbio sul fatto che fosse una cattiva idea. Nicholas Kaldor, economista dell’Università di Cambridge, scrisse nel marzo 1971 che quella della moneta unica era un’idea terribile, sia economicamente che politicamente. E Kaldor ha avuto ragione molte volte.

Ma l’intero establishment europeo ignora semplicemente ogni ennesimo avvertimento proveniente da economisti di grande fama, e produce contro-narrazioni difensive. Per esempio, sento spesso dire che l’Europa ha bisogno di tassi di cambio fissi per avere un mercato unico. Perché mai? La Germania commercia con la Polonia, l’Ungheria e la Repubblica Ceca, che sono all’interno del mercato unico, ma hanno differenti monete. Queste fluttuano, ma il commercio prosegue. Non c’è bisogno di un’unica moneta per avere un mercato unico.

Spiked: Quando è emersa la sua critica al progetto europeo? È stato durante il suo coinvolgimento nel salvataggio dell’Irlanda?

Mody:  Quando il mio lavoro al Fmi è finito, progettavo di scrivere un libro sull’eurocrisi. E ho iniziato a scriverlo come farebbe un economista del Fmi – cosa è successo prima del crash, la bolla, l’esplosione della bolla, il panico, il fatto che non fu gestito bene, e così via. Ma mi sono presto reso conto che qualcosa non andava.

E così ho passato due anni a ricostruire la storia dell’euro, ponendomi una domanda: cosa ha portato all’esistenza dell’euro nella sua forma attuale? Capite, il problema non è solo che esiste l’euro. C’è l’euro, che è una moneta unica, in una unione monetaria incompleta, con un apparato di regole fiscali che sono evidentemente ridicole sotto il profilo economico – e nessuno mette in dubbio il fatto che siano economicamente ridicole, che manchino di un necessario paracadute fiscale e della necessaria unione fiscale. Perciò, perché l’euro esiste?

In quel momento ho iniziato a scrivere, in effetti, uno storia postbellica dell’Europa,  un compendio, se vogliamo, del libro di Tony Judt: ”Dopoguerra: storia dell’Europa dal 1945”. Ecco quando ho compreso che l’euro non era solo una cattiva idea economica, ma anche una cattiva idea politica. Non solo era chiaro che avrebbe causato divisioni politiche, ma non c’era nemmeno alcun piano su come rimediare a queste divisioni, come reagire ad esse. Quindi è nata questa mitologia dell’euro, che lo ha trasfigurato in uno strumento di pace, un mezzo per unire gli europei, una necessità per il mercato unico. Tutti questi aspetti della mitologia sono nati sopra e intorno al progetto europeo per sostenere quella che è, effettivamente, un’idea insensata.

Spiked: Lei ne parla quasi come del trionfo di un’illusione politica. Che cosa ha spinto i suoi architetti? Che cosa ha permesso loro di portare avanti un progetto che molti economisti consideravano una follia?

Mody: Scrivendo il libro, ho imparato due cose riguardo alla storia. La prima è che nella storia esistono momenti critici, in cui un individuo diventa eccezionalmente potente, e ottiene un potere esecutivo sproporzionato alle sue abilità. In secondo luogo, un simile individuo ha anche il potere di creare una narrazione, una favola, una mitologia. Ed è la combinazione delle due cose che ha creato l’euro. Ecco perché Helmut Kohl è così importante, non solo perché ha guidato questo progetto fino alla sua realizzazione, [ma anche perché] ci ha lasciato in eredità un linguaggio che ha giustificato l’euro fino a oggi. Penso che se Kohl non fosse esistito, o se non fosse rimasto cancelliere negli anni ’90, questo non sarebbe successo – non ci sarebbe stato l’euro.

Spiked: Quello che è sorprendente è che durante questo processo di integrazione lungo decenni solo raramente coloro che ne erano a capo interpellavano gli elettorati nazionali. Se li interpellavano, poi semplicemente ignoravano la risposta che veniva data, così come fecero fin dal 1992, con i referendum in Danimarca e in Francia sul trattato di Maastricht. Lei pensa che questo sia uno dei difetti fatali del progetto europeo – il fatto che esso prosegue, a dispetto delle opinioni dei cittadini?

Mody: Assolutamente, si tratta di un difetto fatale. Fino al 1992 e al trattato di Maastricht c’è stata l’idea del tacito assenso. Questa idea prevedeva che i leader europei dovessero prendere le buone decisioni in nome dei popoli dell’Europa, che non erano proprio in grado di capire la complessità del governare. Si fidavano dei leader, perché loro sapevano la maniera giusta di andare avanti. E alla fine sarebbero stati validati e legittimati dai frutti che avrebbero portato.

Ma questo tacito assenso stava già cadendo a pezzi mentre veniva firmato il trattato di Maastricht. Come hai detto, abbiamo avuto il referendum danese, e specialmente quello francese del 1992. Il referendum francese, in particolare, ha un’importanza storica, perché il popolo (49 per cento) che votò contro Maastricht è lo stesso che oggi protesta con il gilet giallo. Pensateci. Per un periodo di circa trenta anni, un gruppo consistente di persone continuavano a farsi sentire, dicendo che c’era un problema. Dicevano che il vero problema era in casa, che il popolo veniva lasciato indietro e che tu, governo, sembri non avere idea di ciò che vuole il popolo.

Il fatto che i cittadini europei volessero o meno più Europa non è stato mai veramente discusso in una qualsivoglia forma significativa. Non è mai stato chiaro a che cosa servisse l’euro. Di sicuro non ha portato maggiore prosperità. E la mancanza di consultazione del popolo ha creato un’ansia ribollente, di segno opposto nelle diverse nazioni. In Germania l’ansia è legata alla possibilità che i tedeschi potrebbero ritrovarsi a dover pagare i debiti di altre nazioni. In gran parte del Sud Europa la gente è ansiosa perché la Germania è diventata troppo dominante, e perché, nei periodi di crisi, il cancelliere tedesco potrebbe diventare di fatto il cancelliere europeo.

Non esiste alcun meccanismo elettorale che garantisca responsabilità e legittimazione. Pertanto l’intero processo è intrinsecamente antidemocratico – la gente che viene colpita dalle decisioni non può votare per rimuovere coloro che prendono queste decisioni.

Spiked: Alcuni sostengono che l’eurozona ha creato un certo grado di prosperità, certamente a partire dalla fine degli anni ’90 fino a metà degli anni 2000. Lei pensa che questa fosse un’illusione di prosperità, sostenuta nel caso dell’Europa dalla bolla bancaria?

Mody: Certo, assolutamente. È un vero peccato che quei dieci anni siano stati completamente travisati in due modi. Il primo è che, quando i tassi di interesse sui debiti pubblici sono scesi, questo fu celebrato come un’integrazione finanziaria, mentre era in effetti un problema, perché i paesi che beneficiavano di questi tassi così bassi stavano permettendo il formarsi di una bolla di debito.

In secondo luogo, l’altra cosa che è avvenuta, specialmente tra il 2004 e il 2007, è che il commercio mondiale era in una fase di boom. In primo luogo, perché l’America stava spendendo troppo, e quindi stava importando largamente merci dal resto del mondo, e in secondo luogo, perché la Cina stava entrando nel mercato del commercio globale in grande stile e, diventando un esportatore di grande rilievo, diventava anche un rilevante importatore. Pertanto negli anni tra il 2004 e il 2007 si è avuta una crescita del commercio globale più alta che in qualsiasi periodo nella memoria recente. E quando il commercio globale aumenta, il commercio europeo cresce rapidamente.

Quindi la combinazione della convergenza dei tassi di interesse, che diede l’impressione dell’integrazione finanziaria, e la crescita del commercio globale, che diede alla gente un’impressione di prosperità, ha portato alcuni a concludere che sì, la cosa aveva funzionato. Quindi nel giugno 2008 abbiamo Jean-Claude Trichet, l’allora presidente della Banca Centrale Europea, che dichiarava che l’eurozona era un grande successo. Quello era in realtà il momento in cui la crisi dell’eurozona stava per colpire forte. Solo che la Bce non se ne rendeva conto.

Come disse George Orwell su quello che veniva riportato della Guerra Civile Spagnola, che la storia veniva scritta come si pensava che dovesse andare, e non come andava realmente: questa è la maniera in cui il primo decennio dell’eurozona è stato raccontato.

Spiked: La crisi inizia a farsi sentire nell’eurozona dal 2009. Perché lei era così contrario alle politiche di austerità che la Troika impose a Grecia e Irlanda?

Mody: Io comprendo che se un paese ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità debba stringere la cinghia. Non voglio contestarlo. Quello che contestavamo io e altri, e continuiamo a contestarlo nel caso dell’Italia, è il momento di inizio e la velocità del consolidamento fiscale. Quando un’economia sta sprofondando in una recessione, l’austerità fiscale rende peggiori le cose. Le tasse imposte dal governo aumentano mentre i consumi diminuiscono, e quindi la recessione si approfondisce. Non è certo un mistero.

Quindi la mia posizione è che, sì, la Grecia aveva chiaramente bisogno di un certo grado di austerità, ma bisognava applicarla a un ritmo inferiore. Se un paziente con un trauma entra in un reparto di chirurgia, non gli viene chiesto di correre intorno all’isolato un paio di volte come gesto di buona volontà prima dell’intervento. È un discorso semplicissimo. L’austerità perciò ha reso il problema greco infinitamente peggiore.

Spiked: È sorprendente che la Ue sembri così attaccata a regole fiscali e di budget stringenti, sicuramente lo è stata nel caso della Grecia. Perché lei pensa che ciò accada?

Mody: Vorrei essere in grado di dare una risposta semplice. La mia risposta storica è che la Ue non è poi così attaccata alle regole. Quando le regole non fanno comodo a quelli che comandano, le regole vengono violate, e per buone ragioni. L’abbiamo visto nel 2002 e nel 2003 quando la Germania, nel mezzo di una recessione, ha fatto “marameo” alle regole fiscali per evitare di peggiorarla. Il ministro delle finanze tedesco Hans Eichel, per giustificare la decisione, scrisse sul Financial Times un editoriale che Yanis Varoufakis avrebbe dovuto avere il buon senso di recitare quando sosteneva la necessità di un allentamento delle regole di bilancio per la Grecia.

Le regole vengono tirate fuori solo quando la bilancia del potere si sposta in direzione opposta, e allora  vengono usate come strumento per rimettere in riga le nazioni cosiddette ribelli, che sia la Grecia o l’Italia.

Spiked: Lei definisce l’Italia la “linea di faglia” del progetto europeo. Perché crede che sia così importante?

Mody: Non c’è dubbio che l’Italia sia e rimanga la linea di faglia dell’Europa, per molte ragioni. In primo luogo, è una nazione grande – il suo Pil è otto o nove volte quello della Grecia; e i suoi asset finanziari sono dello stesso ordine di grandezza di quelli della Germania o della Francia. Inoltre, l’Italia ha una crescita della produttività cronicamente bassa – da quando è entrata nell’eurozona, la produttività e scesa di qualcosa tra il 10 e il 15%. Ora, non tutto è colpa dell’eurozona. La bassa produttività in Italia è, in larga parte, un problema italiano, dovuto a una grande mancanza di slancio all’interno dell’economia italiana, e a una serie di governi incapaci di affrontare il problema.

Ma un paese con bassa crescita della produttività ha bisogno dell’aiuto di occasionali svalutazioni della moneta. Questo nessuno lo mette in dubbio. E nessuno contesta il fatto che, se non sei produttivo, diventi meno competitivo, e, se sei meno competitivo, hai bisogno di deprezzare il tuo tasso di cambio. Ma l’Italia è in trappola. Non può svalutare il tasso di cambio contro il marco tedesco perché le due valute sono rigidamente fissate all’interno dell’eurozona, e, poiché la politica monetaria della Bce rimane relativamente stretta, l’euro non si è deprezzato contro il dollaro Usa rispetto a venti anni fa. Pertanto la lira, essendo incorporata nell’euro, non si è svalutata contro il marco tedesco o contro il dollaro Usa negli ultimi venti anni, durante i quali la produttività ha continuato a scendere. Pertanto, come farà questo Paese a ripagare il grande ammontare del suo debito, senza crescere?

Ecco il cuore del problema italiano. La produttività italiana ha bisogno di un investimento generazionale in scuola, in ricerca, nel riportare a casa le persone che sono emigrate, per costruire un nuovo senso di autostima, che in questo momento manca enormemente.

Spiked: Quando sono stato in Italia, recentemente, sono stato colpito dal numero di graffiti anti-tedeschi. Pensa che una delle più grandi ironie di questo progetto, che avrebbe dovuto portare integrazione economica e politica, sia che esso ha in realtà favorito l’inimicizia tra le nazioni europee, piuttosto che l’unità?

Mody: Come ho detto, Nicholas Kaldor predisse esattamente questo nel 1971. Disse che una moneta unica avrebbe amplificato le divergenze economiche e, se lo avesse fatto, avrebbe aggravato le divisioni politiche. Citò persino Abraham Lincoln: “Una casa divisa al suo stesso interno non può stare in piedi”. Il fantasma di Kaldor perseguita oggi l’eurozona.

Spiked: Lei pensa che ripristinare un certo grado di sovranità nazionale per le nazioni europee potrebbe effettivamente riunire insieme i popoli europei?

Mody: Sì, lo penso. Mi chiedo: cos’è che unisce i popoli europei? Qual è la ragione fondante per gli europei di pensarsi come europei? Quasi settant’anni fa, Schuman chiese che il fondamento comune per creare una federazione fosse lo sviluppo economico. L’idea di uno stato federale è morta, così come il concetto di un fondamento sullo sviluppo economico. Pertanto, dobbiamo ritornare all’altra affermazione di Schuman: gli europei hanno bisogno di stare uniti nell’interesse della pace. In senso moderno, questo può essere esteso alla protezione e conservazione della democrazia, e alla promozione dei diritti umani. Gli europei devono chiedersi se credono ancora in questi valori – i valori di una società aperta – e sono disposti a lavorare per la creazione di una società aperta in cui la pace, la democrazia e i diritti umani vengono promossi. Se non è questo lo scopo dell’Europa oggi, allora non mi è chiaro quale sia lo scopo dell’Europa.

Fonte: vocidallestero.com (qui) Articolo di Ashoka Mody, 2 gennaio 2019

Banche, Europa, Europa vs Stati, Politica

Banca Carige. Commissariata. Dallo Stato? No, dalla Banca centrale europea. Se lo Stato è subalterno alla BCE, siamo una colonia.

Si scrive commissariamento, ma si legge esproprio.

La Banca Centrale Europea ha deciso il commissariamento di Banca Carige, disponendone l’amministrazione straordinaria. La decisione segue le dimissioni“irrevocabili e incondizionate” di cinque consiglieri di amministrazione della banca genovese, che hanno fatto decadere l’intero cda.

La Banca centrale europea impone un commissario e l’amministrazione straordinaria, previa dimissione “irrevocabili e incondizionate” di consiglieri cinque di amministrazione della banca genovese che ha portato alla decadenza dell’intero CDA. In questi casi l’assemblea dei soci avrebbero dovuto nominare un nuovo consiglio di amministrazione. Invece, la BCE con la mossa del commissariamento a tempo (tre mesi, prorogabili), di fatto procede con un esproprio, e con la nomina dei commissari (di cui uno l’uscente Presidente del Consiglio di Amministrazione decaduto), inibisce ai soci, grandi e piccoli, in qualità di proprietari della banca di esprimere legittimamente secondo le regole del codice civile, un nuovo Consiglio di amministrazione legittimo. Di fatto anche i soci sono commissariati in quanto non hanno più iniziativa, nel senso che possono approvare o respingere gli ordini del giorno inseriti all’attenzione dell’Assemblea dei soci dei commissari, ma non ne possono modificare i contenuti. Una sorta di prendere o lasciare. Le condizioni per imporre linee strategiche di sviluppo, ma soprattutto di fusione o di cessione delle attività ad altri istituti di credito alle condizioni decise e contrattate dai commissari della BCE.

La Bce ha quindi disposto l’amministrazione straordinaria della banca. Innocenzi, Modiano e Raffaele Lener sono stati nominati commissari straordinari dell’istituto e “adotteranno tutte le decisioni necessarie per la gestione operativa della banca”, riferendone periodicamente alla vigilanza, si spiega da Carige. La Bce ha inoltre nominato un comitato di sorveglianza composto da tre membri: Gian Luca Brancadoro, Andrea Guaccero e Alessandro Zanotti. La decisione di porre la banca in amministrazione straordinaria “darà maggiore stabilità e coerenza al governo della società che, quindi, sarà ancora più efficace nel servire, grazie ai propri dipendenti, i depositanti, i clienti ed il territorio”, si sottolinea ancora.

Perchè il commissariamento? Per motivi di controllo e vigilanza dicono. Infatti la BCE si è mossa con in poteri attribuiti dai trattati europei che gli attribuiscono i compiti di vigilanza. Ma un commissario nominato dal controllore a svolgere di fatto l’attività di governo della Banca, chi lo controlla? Voi direste, lo Stato italiano. Invece no. E’ ancora la BCE che in questo caso si trova ad assumere poteri di vigilanza e di governo dell’istituto bancario. Un classico caso da: controllore e controllato nella stessa istituzione. Risultato: la BCE può fare quello che vuole. Ma cosa farà? Semplice quello che è abituata a fare: trovare l’istitututo bancario che “acquisterà” al banca genovese.

Per Modiano il commissariamento “semplificherà e rafforzerà la governance di Carige e di conseguenza l’esecuzione della strategia in un quadro di sana e prudente gestione”. Innocenzi, infine, sottolinea che “i vantaggi in termini di stabilità della banca si tradurranno in benefici per i clienti, i dipendenti e il territorio”.

L’obiettivo? Con la scusa di raggiungere “stabilità” e “benefici per i clienti, i dipendenti e il territorio”, ma non per i soci azionisti, l’operazione in realtà aiuterà a stabilizzare un’altra banca ben più consistente e con evidenti problemi di stabilità. Quale? Chiedetelo a Draghi. Ma è chiaro che sarà l’istituto di credito che “acquisirà” la Banca Carige.

Anche il presidente del Consiglio Giuseppe Conte sta seguendo personalmente, con il ministro dell’Economia Giovanni Tria, le vicende riguardanti la governance della banca. Come si legge in una nota di Palazzo Chigi, questa vigile attenzione del governo, ai suoi massimi livelli, è il segno tangibile e la migliore garanzia per proseguire e completare il consolidamento patrimoniale e il rafforzamento imprenditoriale di un’azienda bancaria valutata, dal medesimo governo, quale essenziale strumento per realizzare il rilancio dell’intero sistema economico-sociale ligure.

E qui arriva la chicca. Il Governo del cambiamento subisce l’operazione e non si oppone. Il primo commissariamento di una banca italiana finalizzata ad espropriarne gli asset per consentirne l’acquisizione da parte di un’altra banca. Il tutto attraverso un piano già definito a Francoforte. Il Parlamento italiano per approvare una legge di bilancio deve prima acquisire il parere vincolante della Commissione europea, e per evitare azioni ritorsive come la famigerata procedura di infrazione e sanzione connessa. Mentre la BCE può procedere al commissariamento di un istituto di credito italiano, senza una deliberazione del Consiglio dei Ministri, in totale scavalgo delle leggi italiane, sulla base di una legislazione sovraordinata, dove nemmeno eventuali ricorsi sono di competenza del sistema giudiziario italiano. Se questa non è dittatura, è sicuramente l’atto plastico della subalternità dello Stato italiano e della sua Costituzione alla Banca centrale europea che dipende da se stessa e non risponde a nessuno. Certamente non risponde al popolo italiano. Oggi, forse, capiamo meglio che in realtà il nostro Paese è una colonia.

Un suggerimento. Non sarebbe il caso di approvare, finalmente, la legge per la separazione bancaria? Netta distinzione tra le banche d’affari e quelle commerciali? In questo caso i manager milionari delle banche non gestiranno i risparmi di famiglie e imprese per la roulette della speculazione, ma li utilizzeranno per sostenere gli investimenti delle famiglie e del sistema produttivo. Per saperne di più: qui.

Fonte: adnkronos.com

 

Europa, Politica

Deficit, l’Europa grazia Macron. Sfora il 3% ma niente procedura

Ue, sfuma l’assist delle misure francesi pro-Gilet gialli per l’Italia. Il rapporto deficit/Pil di Parigi salirà al 3,4%, ma Bruxelles…

Chi sperava nelle fila del governo giallo-verde nell’involontario assist delle nuove misure fiscali espansive strappate a Macron dai Gilet gialli da far valere nelle trattative di Giuseppe Conte con l’Europa rimarrà deluso.

Già, perché dopo il messaggio di ieri sera del numero uno dell’Eliseo alla nazione in cui il leader di En Marche ha promesso l’aumento del salario minimo intercategoriale di 100 euro al mese dal 2019, la detassazione delle ore di straordinario e lo stop all’aumento della contribuzione per i pensionati che guadagnano meno di 2.000 euro al mese, il portavoce della Commissione europea Margaritis Schinas ha fatto sapere che Bruxelles valuterà l’impatto del pacchetto pro-classi deboli sul bilancio pubblico della Francia solo a primavera. Quando, cioè, l’Ue si sarà già pronunciata sull’eventuale procedura d’infrazione da aprire nei confronti dell’Italia.

“Abbiamo un meccanismo ben stabilito per valutare le politiche di bilancio” dei Paesi della zona euro e “la nostra posizione sulla Francia è nota: il parere sul piano di bilancio francese è stato pubblicato poco tempo fa. L’impatto di cosa verrà fuori dal processo parlamentare emergerà in primavera quando pubblicheremo le nostre previsioni economiche”, ha spiegato infatti la portavoce dell’esecutivo comunitario su un eventuale sforamento del deficit da parte di Parigi e sulle eventuali conseguenze sulle trattative in corso tra Roma e Bruxelles sulla manovra.

Sta anche in questo fatto la diversità del caso francese rispetto al caso dell’Italia. L’Italia oggi è sotto tiro per il mancato rispetto della regola del debito nel 2017, dato che le regole Ue impongono che anche nel 2018 l’Italia assicuri un adeguato aggiustamento in termini strutturali. Le procedure relative al deficit, invece, possono scattare solo sulla base dei dati ex post(per la Francia, dunque, eventualmente solo a Pasqua).

Nel documento programmatico di bilancio inviato ad ottobre dalla Francia all’Ue, il premier Édouard Philippe ha fissato un livello di deficit/Pil per il 2019 del 2,8% un livello a cui ora dovranno aggiungersi i circa 6 miliardi in più del costo dei provvedimenti shock messi in campo dall’Eliseo per calmare la protesta che sta infiammando la Francia da circa quattro settimane (più i 4 per l’abolizione dalla tassa sui carburanti). Un costo che, secondo quanto appena annunciato dal ministro per i Conti pubblici transalpini, Ge’rald Darmanin, porterà il rapporto deficit/Pil a sforare (al 3,4%) il parametro del 3% fissato dai parametri di Maastricht.

Bruxelles aveva già acceso il disco verde sulla manovra di Parigi ad ottobre, anche perché il rapporto deficit/Pil previsto da Philippe per il 2019 sarebbe dovuto salire al 2,8% solo per motivi puramente tecnici, escludendo i quali il disavanzo sarebbe in realtà pari all’1,9%, dopo il 2,6% previsto per quest’anno e il 2,7% del 2017.

Parigi, che può contare su un rapporto debito pubblico/Pil di circa il 97% del Pil (contro il 130% circa dell’Italia), dunque, per il momento non finirà sotto osservazione dell’Ue come, al contrario, è finita Roma. Riflettori che, se accesi, avrebbero potuto rappresentare delle favorevoli sponde per il duo Conte-Tria che si sta battendo sui decimali per portare a casa le due misure simbolo del governo giallo-verde ovvero reddito di cittadinanza e quota 100 sulle pensioni.

Se Macron, per il momento, scamperà i rilievi di Bruxelles, di certo non ha sminato il pericolo della protesta di Gillet gialli: dopo gli annunci di ieri sera, i manifestanti transalpini hanno promesso infatti che la rivolta andrà avanti.

A Roma, intanto, il vicepremier Luigi Di Maio è pronto a puntare i piedi in caso di una terza bocciatura da parte di Bruxelles alla manovra. Se il Governo francese rispetterà tutti gli annunci fatti negli ultimi giorni sulla politica di bilancio, ha ricordato, “non dovrebbe rispettare i parametri e, facendo questo, si dovra’ aprire un caso Francia, se le regole valgono per tutti, ma non è quello che ci auguriamo”.

Il ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico ha messo le mani avanti in vista del confronto risolutivo di domani e giovedì. “Le prossime 24-48 ore sono cruciali”, ha detto il capo dei Cinque Stelle ribadendo che l’obiettivo è “mantenere le promesse ed evitare la procedura di infrazione”. Di Maio ha tenuto comunque il punto sul reddito di cittadinanza, che, assicura, entrerà in vigore “al massimo a fine marzo, mentre quota 100 entrera’ in vigore entro fine febbraio”. “Tra giovedì e venerdì sarà convocato il primo tavolo tecnico sulla manovra” con le imprese, ha annunciato il ministro. “Nelle prossime settimane – ha aggiunto – ci sara’ un tavolo permanente sulle semplificazioni, uno sul fisco, uno sull’innovazione, uno sulle infrastrutture e uno sull’export e un tavolo sul welfare”.

Fonte: affaritaliani.it (qui)

Europa, Politica

Moscovici perdona Macron (per salvare se stesso)

Rumors su una possibile candidatura del commissario agli Affari Economici con un movimento Lib-dem, vicino anche a Renzi.

“Non risponderò a nulla su questo argomento”. Forse per la prima volta in questi mesi di trattative con l’Italia, Pierre Moscovici si sottrae alle domande dei giornalisti. Il quesito riguarda il suo paese, la Francia, messa a ferro e fuoco dai ‘gilet gialli’ al punto da spingere Emmanuel Macron ad annunciare misure che potrebbero portare il deficit francese al 3,5 per cento del pil, dunque ben oltre il tetto del 3 per cento previsto dalle regole europee. E’ un quadro che potrà spingere la Commissione a fare sconti anche all’Italia? Moscovici, qui a Strasburgo per la riunione con i colleghi commissari come avviene ad ogni plenaria dell’Europarlamento nella cittadina francese, non risponde. In questa storia, che alla vigilia di un altro incontro tra Giuseppe Conte e Jean Claude Juncker domani a Bruxelles si sta assestando sulla linea ‘due pesi e due misure’ tra Parigi e Roma, ci sono fattori oggettivi, ma anche molto politici.

L’Ue non può sanzionare Macron, già messo alle strette dalle proteste. Il presidente francese è ancora la promessa dell’establishment europeo, visto che Angela Merkel è ormai alla fine del suo ciclo politico. Un establishment determinato invece a punire il governo populista dell’Italia, a torto o a ragione, comunque a prescindere. Basti questo per spiegare i guanti di velluto con cui l’Europa sta affrontando la crisi di Macron, compreso anche il fatto che nessuno tra i leader europei si è azzardato a contestargli nulla, nemmeno il comportamento della polizia con gli studenti, inginocchiati con le mani sulla testa: la foto ha menato scandalo sul web, non nei palazzi europei. Ma c’è dell’altro.

Ci sono proprio i destini politici dei personaggi in campo. Si prenda Moscovici, che l’anno scorso salutò la vittoria di Macron alle presidenziali francesi come “una buona notizia per la Francia e per l’Europa”. Non fu l’unico, la sfidante al ballottaggio era Marine Le Pen, tutti i leader moderati dell’Ue tirarono un respiro di sollievo. Ma, venendo al presente, Moscovici già aveva difficoltà a sostenere la linea del rigore con Roma, alla luce del suo passato da ministro dell’Economia francese alfiere della flessibilità. Adesso c’è anche il fatto che, pur da socialista, il commissario agli Affari Economici si è molto avvicinato a Macron, lui che ha lasciato il Partito socialista francese per fondare ‘En marche’.

Nei palazzi dell’Ue gira addirittura voce che Moscovici possa candidarsi con il movimento di Macron alle prossime europee: con ‘En marche’ o comunque nell’alveo di un movimento ‘libdem’ che poi all’Europarlamento fonderebbe un nuovo gruppo insieme ad altre formazioni simili in Europa, gli spagnoli di Ciudadanos o anche la nuova creatura politica che potrebbe lanciare in Italia Matteo Renzi.

E’ naturale che tutto questo annulli ogni ipotesi europea di sanzionare Macron per le maggiori spese in deficit, proprio ora che la Francia era uscita dalla procedura europea per deficit eccessivo dopo 9 anni di sanzioni. Non può farlo Moscovici e non ama parlarne. Non può farlo Juncker, del quale ancora si ricorda una frase celebre di qualche tempo fa. “La Francia è la Francia”, disse il presidente della Commissione ad un incontro con i sindaci francesi. E ‘la Francia è la Francia’ sembra essere il motto che ancora oggi guida la Commissione Europea.

Del resto, sottolineano dalla Commissione qui a Strasburgo, “bisogna tenere a mente che nel caso dell’Italia abbiamo un documento programmatico di bilancio”, bocciato dall’Ue e ripresentato da Roma senza cambiamenti di rilievo. “Mentre in quello della Francia abbiamo un discorso”, quello pronunciato ieri sera da Macron. “E che cosa possiamo fare davanti ad un discorso?”.

Con questa spiegazione quindi la Commissione punta ad andare avanti con la procedura di infrazione contro l’Italia per deficit eccessivo legato al debito, a meno che domani Conte non si presenti all’incontro con Juncker con una nuova proposta di bilancio rispettosa dei vincoli europei, con un deficit magari sotto il 2 per cento in modo da non aumentare né quello strutturale, né il debito italiano, che staziona al 131 per cento del pil.

Allo stesso tempo, la Commissione si prepara quanto meno a concedere tempo alla Francia. “C’è una procedura ben stabilita per valutare le politiche bilancio degli stati membri, la nostra posizione sulla Francia è nota e il parere sul progetto di bilancio della Francia è stato pubblicato poco tempo fa. L’impatto verrà valutato in primavera, quando pubblicheremo le nostre previsioni economiche”, dice il portavoce della Commissione Ue, Margaritis Schinas.

Nel volgere di poche ore, qui tra Strasburgo e Bruxelles, sembrano sfumare le speranze italiane di ottenere concessioni per effetto della protesta francese. I ‘gilet gialli’ non stanno modificando il braccio di ferro tra Roma e Bruxelles a favore della prima. E non sembra si apra uno spazio per quell’asse tra “Roma e Berlino” auspicato ieri da Matteo Salvini.

Certo, ci sono anche dei fattori oggettivi. Cioè il fatto che il debito francese è al 97 per cento del pil, dunque inferiore a quello italiano. E che lo spread della Francia, pur avendo guadagnato quasi 6 punti percentuali a un mese dall’inizio delle proteste di piazza, resta sulla soglia accettabile del 47,5 per cento, ben al di sotto di quello italiano oggi a 288 punti percentuali.

Ma, se non altro, il caos scoppiato in Francia mette a nudo anche le convenienze politiche delle elite europee: unite nel punire il primo governo populista tra i paesi fondatori dell’Ue, unite anche nel ‘graziare’ uno dei loro, Macron.

Fonte: huffingtonpost.it (qui)

Economia, Europa

Quantitative easing, Corte Ue: “Il programma di acquisti non è illegittimo e non eccede il mandato della Bce”

Il quantitative easing, cioè il programma di acquisto di titoli di Stato avviato nel 2015, è “conforme al mandato” della Bce. Lo ha stabilito la Corte di Giustizia Europea, esprimendosi sul quesito presentato dalla Corte costituzionale tedesca a cui erano arrivati diversi ricorsi che contestavano la legittimità dell’intervento sostenendo che equivalesse a un finanziamento monetario del debito pubblico. Secondo la Corte il programma non viola il diritto dell’Unione, non eccede il mandato della Bce e non viola il divieto di finanziamento monetario.

La Banca centrale europea ha avviato il programma di acquisti il 4 marzo 2015 alla luce di vari fattori che aumentavano il rischio di calo dell’inflazione sotto il valore obiettivo della Bce, pari al 2%. L’obiettivo era facilitare l’accesso ai finanziamenti utili all’espansione dell’attività economica favorendo il ribasso dei tassi d’interesse reali e inducendo le banche commerciali a concedere maggior credito. Questo al fine di sostenere i consumi globali e le spese per investimenti nella zona euro. Il programma prevede che ciascuna banca centrale nazionale acquisti titoli idonei provenienti da emittenti pubblici statali, regionali o locali del proprio Paese. La durata di applicazione si estendeva inizialmente fino alla fine del mese di settembre 2016 ma è stata poi prorogata a più riprese.

Con la sua sentenza, la Corte di Giustizia constata che l’esame delle questioni sottoposte dal Bundesverfassungsgericht non ha rivelato alcun elemento idoneo ad inficiare la validità del programma, che rientra nel settore della politica monetaria per la quale l’Unione dispone di una competenza esclusiva, per gli Stati membri la cui moneta è l’euro, e rispetta il principio di proporzionalità. La Corte ricorda che una misura di politica monetaria non può essere equiparata a una misura di politica economica per il solo fatto che essa sia idonea a produrre effetti indiretti che possono essere ricercati anche nel quadro della politica economica. Inoltre, la Corte ricorda come risulti chiaramente dal diritto primario che la Bce e le banche centrali degli Stati membri possono, in linea di principio, intervenire sui mercati dei capitali acquistando e vendendo in via definitiva titoli di debito negoziabili denominati in euro.

Per quanto riguarda le modalità di applicazione del programma, la Corte sottolinea che non è selettivo e non soddisfa i bisogni specifici di finanziamento di singoli Stati membri della zona euro. Esso non permette l’acquisto di titoli con un livello di rischio elevato e prevede dei rigorosi limiti massimi di acquisto per emissione e per emittente. Oltre a questo, attribuisce la priorità all’acquisto dei titoli emessi da operatori privati. Secondo la Corte, non risulta in maniera manifesta che un programma di acquisto di titoli del debito pubblico più limitato nel volume o nella durata avrebbe potuto in modo altrettanto efficace e rapido assicurare un’evoluzione dell’inflazione simile a quella ottenuta dalla Bce.

La Corte sottolinea poi che il qe non viola il divieto di finanziamento monetario, perché non equivale all’acquisto di titoli sui mercati primari e non produce l’effetto di indurre gli Stati membri a non condurre una sana politica di bilancio. Oltre a ciò, non consente agli Stati membri di determinare la loro politica di bilancio senza tener conto del fatto che, a medio termine, la continuità dell’attuazione del programma non è in alcun modo garantita e che quindi potrebbero dover cercare finanziamenti sui mercati senza poter beneficiare dell’alleggerimento delle condizioni di finanziamento che l’attuazione del programma comporta.

Inoltre, gli effetti sulla convenienza a condurre una sana politica di bilancio sono limitati in virtù dell’imposizione di limiti al volume mensile complessivo degli acquisti di titoli del settore pubblico, del carattere sussidiario del programma, della ripartizione degli acquisti tra le banche centrali nazionali secondo lo schema di sottoscrizione del capitale della Bce, dei limiti di detenzione per emissione e per emittente e degli elevati criteri di idoneità fondati su una valutazione della qualità creditizia. La Corte precisa, poi, che il divieto di finanziamento monetario non osta alla detenzione di titoli fino alla loro scadenza e neppure all’acquisto di titoli con un rendimento a scadenza negativo.

Fonte: ilfattoquotidiano.it (qui)

Austerity, Europa

H. Flassbeck: “la colpa è della Germania”

Intervista molto interessante di Kontext Wochenzeitung al grande Heiner Flassbeck e a Paul Steinhardt, economista e condirettore di Makroskop insieme a Flassbeck. I due hanno una spiegazione molto chiara per la crisi italiana e non le mandano a dire: la colpa è dei tedeschi che grazie alla moderazione salariale hanno portato via quote di mercato agli italiani e ai francesi, l’unione monetaria è stata la grande fortuna della Germania, mentre senza l’euro Schröder sarebbe passato alla storia come il peggior Cancelliere di tutti i tempi. Da Kontext Wochenzeitung l’intervista a Heiner Flassbeck e a Paul Steinhardt

Herr Flassbeck

Herr Flassbeck, due anni fa lei aveva già previsto che nel 2018 in Italia ci sarebbe stata una coalizione anti-euro. Come poteva saperlo?

Flassbeck: perché in quel momento già si capiva che l’Italia non avrebbe potuto riprendersi economicamente. Pertanto era lecito aspettarsi che gli italiani alla fine si sarebbero stufati e avrebbero scelto un governo che promette di fare qualcosa di diverso. È successo con Trump, ed è andata così anche in Brasile: ogni volta che la sofferenza di un  popolo diventa così grande, indipendentemente da chi c’è, la gente pensa: ci proviamo comunque.
I precedenti governi guidati dall’ex commissario UE Mario Monti e dei suoi successori hanno cercato di attuare le direttive dell’UE una dopo l’altra.
Flassbeck: era una politica sbagliata. Questo è il punto chiave. Agli italiani è stato detto: fate le riforme strutturali, risparmiate – lo fanno dal 1992. Ed infatti non è servito a nulla.
Herr Steinhardt, lei ha ottenuto un dottorato di ricerca sul tema “Cos’è un’economia di mercato?”. Se ora la Commissione europea dà al governo italiano un ultimatum: questo è ancora un gioco libero delle forze?
Steinhardt: è sempre stata un’idea sbagliata quella di distinguere tra mercato e stato. Quella che viene chiamata economia di mercato ha sempre bisogno di uno stato. Le lettere blu da Bruxelles sono il male minore. E’ molto peggio se la Banca centrale europea (BCE) non interviene. Ecco perché il famigerato spread sta aumentando.
Paul Steinhardt
Questo deve spiegarcelo in maniera più dettagliata.
Steinhardt: lo spread, che è il differenziale di tasso di interesse fra Italia e Germania, ci viene spiegato così: i mercati valutano la politica di bilancio degli italiani e dei tedeschi e giungono alla conclusione che la politica di bilancio italiana è sbagliata per via del deficit al 2,4 per cento! Se si guarda piu’ da vicino, si puo’ però notare: gli italiani dal 1992 al lordo degli interessi hanno sempre prodotto degli avanzi di bilancio. Quando si dice che avrebbero buttato i soldi per i benefici sociali o altro: non è vero. La banca centrale acquistando titoli di stato può spingere gli spread a qualsiasi livello desiderato. L’esempio del Giappone è chiaro: qual’è lì il livello dei tassi di interesse? Zero! Perché la banca centrale giapponese ha praticamente tutti i titoli di stato sul suo bilancio. Se ora il mercato  vende i titoli di Stato italiani, la ragione è semplice: la preoccupazione che questi titoli di Stato siano convertiti in Lire e che la Lira poi si svaluti. Questo pericolo viene espresso dagli spread. La BCE potrebbe affrontare questo problema acquistando i titoli di stato.
Perché la BCE non lo fa?
Flassbeck: perché secondo il trattato di Maastricht è vietato finanziare gli stati. L’Italia dovrebbe avere la possibilità di agire in termini di politica economica, ma ciò è vietato, e il divieto è stato ulteriormente aggravato nel Patto di stabilità del 2012. Pertanto, lo stato italiano si troverebbe a  peggiorare ulteriormente la situazione economica. Ma la situazione è già cattiva. La disoccupazione è all’11%, l’Italia è da sei anni in recessione. La politica dei bassi tassi d’interesse finora non ha funzionato, e ci sarebbe una terza possibilità, cioé quella di liberarsi tramite le esportazioni: questa strada viene però bloccata dalla Germania con la sua folle politica delle eccedenze commerciali, vantaggio procurato grazie al dumping salariale.
Chi avrebbe dovuto agire diversamente e come?
Flassbeck: i trattati sono una costruzione piena di difetti. Abbiamo creato un’unione monetaria in cui nessun paese ha piu’ una banca centrale. Cio’ è totalmente assurdo:come paese dell’UE hai meno possibilità rispetto a quelle di un paese in via di sviluppo.
La crisi del debito sovrano italiano è causata solo dai tassi di interesse?
Steinhardt: non c’è nessuna crisi del debito sovrano! Il debito pubblico italiano è da tempo al 130% del prodotto interno lordo. Quello a cui assistiamo è una recessione, da sei, sette anni.
Flassbeck: e sul nostro lato c’è la corsa a creare il panico. I giornali e gli economisti tedeschi sembrano essere molto bravi nel prevedere la bancarotta dello stato italiano. Questa è una totale assurdità. Ci siamo murati in quei trattati che in pratica chiedono all’Italia di ridurre ulteriormente il debito sovrano. È praticamente impossibile.
Steinhardt: il governo italiano può anche decidere di spendere meno per le pensioni, ad esempio. Ma poi ci sarà meno domanda, che porta a un aumento della disoccupazione, che a sua volta aumenta i costi sociali e, automaticamente, anche il rapporto debito-PIL. Questo è quello che abbiamo vissuto in Grecia.
Esistono speculazioni sui differenziali dei tassi di interesse oppure la crisi è appositamente causata per generare dei guadagni speculativi aggiuntivi?
Flassbeck: certo. Si specula sempre. Proprio in una situazione come questa bisognerebbe avere una banca centrale sovrana. Non per finanziare il paese su base permanente, ma solo per porre fine alla speculazione sui titoli di stato.
Steinhardt: se devo gestire un patrimonio e vedo che è aumentata la possibilità di un’uscita dall’euro, sicuramente cercherò di ridurre il rischio. Devo difendere i miei ex colleghi. L’unico problema è che quando in un’unione monetaria ci sono diversi livelli di tassi di interesse, in pratica si tratta di una discriminazione nei confronti delle aziende che risiedono in un altro paese. Una banca centrale che non riesce a mantenere il livello dei tassi di interesse è incapace.
Flassbeck: i trattati indicano chiaramente che la BCE non può finanziare gli stati.
Steinhardt: i trattati non sono stati modificati quando nel 2008/2009 i tassi di interesse erano estremamente divergenti. Draghi all’epoca lo aveva giustificato con la stabilità finanziaria, che ora è in pericolo.
Perché l’Italia allora non esce dall’euro?
Flassbeck: un’uscita ha senso solo se c’è una svalutazione. Questa colpirebbe i risparmiatori italiani, che all’improvviso si troverebbero delle lire sul conto anziché degli euro, con un valore del 30 % inferiore. Devi prima riuscire a venderlo al tuo popolo. Esiste già una banca centrale italiana, ma il governo non è più autorizzato a dare ordini. Perché la banca centrale italiana è una filiale della BCE. Servirebbe una legge per rinazionalizzare la banca centrale.
Steinhardt: il primo ministro italiano Giuseppe Conte ora dice che sarebbe possibile ridurre alcune spese essenziali. Come andrà a finire non lo sappiamo, forse alla fine ci sarà un compromesso modesto.
Allora non importa chi ora cede o chi si impone…
Flassbeck: …la situazione non cambierà in meglio. Ma l’Italia ha bisogno di miglioramenti, compresa la Francia: probabilmente alle elezioni europee assisteremo al disastro del signor Macron.
Lì le barricate sono in fiamme e i giubbotti gialli stanno protestando contro l’aumento del costo della vita. Secondo il Tagesschau, tre quarti della popolazione francese sta con loro.
Flassbeck: ed è giusto che sia così. Macron aumenta le tasse e non gli interessa di chi viene colpito. Le tasse sono state abbassate per i ricchi, è una politica brutale di ridistribuzione dal basso verso l’alto. È chiaro che le persone a un certo punto non potranno piu’ tollerarlo. Se Macron alle elezioni europee prende il 10% o anche il 15%, è malconcio, forse non sarà realmente piu’ in grado di agire. Ovunque la situazione ribolle e non migliora. Solo i tedeschi restano seduti nella loro serra, pregando che le cose continuino ad andare bene e che non gli arrivi nulla della miseria là fuori.
Da noi si pensa invece che la Germania abbia fatto tutto bene.
Flassbeck: questo è il vero problema. Ieri ero alla Schaubühne di Berlino (teatro) e l’ho anche detto: la colpa è della Germania. Il pubblico si è agitato. Ma che sta dicendo quest’uomo?
In che modo la politica tedesca dei bassi salari è collegata con la situazione in Italia?
Flassbeck: in un’unione monetaria tutti i paesi devono avere lo stesso tasso di inflazione. La Germania ha violato il proprio obiettivo di inflazione del 2% – che gli altri paesi europei hanno adottato – e ne è rimasta al di sotto. I tedeschi grazie ad una politica di dumping salariale hanno potuto vendere i loro prodotti a buon mercato. Di conseguenza, la Germania ha sottratto all’Italia posti di lavoro e quote di produzione sui mercati mondiali.
Steinhardt: Quando fu introdotto il sistema monetario europeo dell’ECU nel 1996, la disoccupazione in Italia era inferiore a quella della Germania. E continuava a scendere mentre in Germania stava salendo. Fino a circa il 2006/07, quando le curve improvvisamente iniziano a muoversi nella direzione opposta. Questo lo capiscono poche persone: la moderazione salariale inizialmente è costata dei posti di lavoro. La fortuna dei tedeschi è stata l’unione monetaria, perché sono stati in grado di compensare la perdita di posti di lavoro sul mercato interno con le esportazioni. Agli italiani è successo il contrario. Poiché la Germania li ha praticamente rimpiazzati, la produzione industriale è diminuita significativamente. Non si può mai guardare ad un paese in maniera isolata: tutti i paesi non possono essere campioni del mondo dell’export allo stesso modo e allo stesso tempo.
Le esportazioni tedesche vanno principalmente verso gli altri paesi europei?
Flassbeck: No. abbiamo portato via quote di mercato agli italiani in tutto il mondo, anche ai francesi. In Cina, ad esempio, la Germania è di gran lunga il paese europeo di maggior successo. Anche negli Stati Uniti, non solo in Europa.
E la risposta degli USA è il protezionismo?
Flassbeck: questo protezionismo in realtà sarebbe giustificato anche sulla base delle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC). La Germania non vuole accettare certe cose, che preferisce oscurare. Certe cose non vengono dette, nemmeno sui media.
Steinhardt: la Germania conduce una strategia di svalutazione. In questo modo puo’ ottenere un vantaggio competitivo, anche all’interno di un’unione monetaria. Poiché i cosiddetti tassi di cambio reali effettivi, che sono fissati al livello dei prezzi, dipendono in ultima analisi dai tassi di inflazione. La Germania è sempre stata sotto, la Francia esattamente sull’obiettivo dell’inflazione, l’Italia al di sopra. La differenza riguarda la competitività dei prezzi nell’intero settore dell’export. La Germania ha giocato questa carta con successo. Gli americani hanno sempre criticato tutto ciò..
Flassbeck: senza l’unione monetaria, il D-Mark si sarebbe già apprezzato e la storia dopo due o tre anni al massimo sarebbe finita. Schroeder sarebbe passato alla storia come il peggior Cancelliere di tutti i tempi e non come il grande eroe che ha salvato la Germania. Su questo argomento c’è una grande incomprensione, specialmente dal lato della SPD e della sinistra in generale, che non si rendono conto di aver distrutto con questa politica ogni loro possibilità di sopravvivenza, una politica che solo per la Germania ha avuto un apparente successo e che invece ha distrutto l’Europa e ogni sua possibilità di sopravvivenza. Perché i pochi ricchi che ne hanno beneficiato, non sono sufficienti come base elettorale.
Fonte: vocidallagermania.blogspot.com (qui)
Europa, Italexit

L’Italia tornerà a crescere se uscirà dall’euro (e dall’Unione).

Non ci sono alternative. L’Unione Europea è un sistema cucito su misura per la Germania. Attraverso il sistema eurocratico, in cui non esiste svalutazione monetaria ma produttiva (del lavoro soprattutto), la Germania, in questi ultimi venti anni, è cresciuta parecchio, incrementando esponenzialmente l’export (intra ed extra europeo), la ricchezza individuale e collettiva, e persino il risparmio interno; mentre il nostro paese (il suo diretto concorrente), specularmente, è calato in produzione, in occupazione e persino in propensione al risparmio. Il nostro PIL oggi cresce poco o nulla. Le ultime stime lo danno intorno al 0,4%. Praticamente siamo sull’orlo della recessione e in stagnazione, mentre il rapporto debito/PIL aumenta.

Chi davvero pensa che la responsabilità sia del governo gialloverde, che governa da appena quattro mesi, o non ha sufficienti informazioni in proposito, oppure le ha, ma le ignora volutamente. La verità è che il rallentamento dell’economia è dell’intera eurozona; per l’Italia pesa di più, proprio perché in questi ultimi anni poco o nulla è stato fatto per espanderla, essendoci attenuti con fin troppo zelo ai limiti di deficit imposti dalle assurde regole eurocratiche (ma solo noi, eh!, gli altri hanno fatto un po’ come hanno voluto). E ora i risultati nefasti iniziano a farsi sentire, anche perché – ciliegiona sulla torta – Mario Draghi ha decretato la fine del QE, che comporterà, verosimilmente, nei prossimi mesi, un innalzamento dello spread dei titoli pubblici italici, che andrà ad aggravare ulteriormente la crisi sistemica dell’eurozona e del nostro paese.

Non sto qui a spendere parole (inutili) sul fatto se sia stato opportuno o no che la BCE terminasse il QE proprio in un contesto di crisi imminente; vero è però che se da una parte non ci si poteva aspettare granché dalla banca centrale europea, la quale – e lo si dica una volta per tutte! – non è una vera banca centrale (il suo scopo non è sostenere il debito pubblico degli Stati membri, bensì quello di garantire la stabilità dei prezzi), dall’altra, la fine del QE pone il nostro paese davanti a un bivio: piegarsi e continuare a seguire le folli ricette euriste, quand’anche evidentemente dannose per la nostra economia in sofferenza (è un po’ come mettere il sale su una dolorante piaga), oppure fare ciò che è necessario per evitarlo. E quel necessario implica seriamente l’opzione italexit. Solo con la nostra moneta e la piena sovranità economica e monetaria potremmo infatti affrontare meglio la crisi economica, rilanciando la domanda interna, quella che, per inciso, manca all’appello nel nostro PIL, costruito in prevalenza sull’export, che, per quanto utile e fondamentale, non può rappresentare la componente più importante della nostra economia, proprio perché è legato alle alternanti vicende economiche dei paesi stranieri nei quali si esporta. Diversamente prepariamoci a cadere nuovamente, consapevoli che da ogni nuova caduta sarà sempre più difficile rialzarsi, salvo costosi e sempre meno evitabili aiuti esterni (v. alla voce Troika).

Fonte: qelsi.it (qui)

Debito pubblico, Europa, Germania

La Germania bara, il suo debito vero è il 287% del Pil.

Stando ai conti pubblici, il grande malato dell’Eurozona non è l’Italia o un altro dei paesi oggi considerati periferici, addirittura ribattezzati “Pigs”, maiali, nel pieno della crisi del debito sovrano. La pietra dello scandalo è proprio la Germania di Angela Merkel, che continua a fare la voce grossa con la Bce e gli altri condòmini del Vecchio Continente. A raccontare al “Giornale” il lato oscuro di Berlino è Fabio Zoffi, veneziano, che da vent’anni vive con la famiglia a Monaco di Baviera. Zoffi conduce attività che spaziano dall’alimentare al Big Data: tra i suoi clienti Luxottica, Pirelli, Bnl, Banco Popolare e Benetton. «ll debito pubblico complessivo tedesco non è pari all’80% del Pil, come certificano i documenti ufficiali, ma al 287%», assicura il “venture capitalist” italiano, dopo essersi preso la briga di rielaborare tabelle e proiezioni statistiche. La colpa è del debito «implicito», che con approssimazione possiamo definire «nascosto», prodotto dalle costose riforme concesse dai governi che si sono succeduti negli ultimi decenni. Tutto questo, nel 2020 comporterà pesanti aggravi alla spesa per le pensioni, le assicurazioni sanitarie e l’assistenza ai malati cronici.

«Berlino è finora stata molto brava a nascondere la polvere sotto il tappeto, ma ormai è impossibile non vedere le gobbe. E anche in Germania gli economisti più capaci hanno iniziato a lanciare l’allarme», spiega Zoffi, citando tra i primi profeti di Fabio Zoffisventura proprio i presidenti dei due maggiori think-tanks economici del paese: Hans-Werner Sinn, temutissima voce dell’Ifo (per la verità più noto a sud della catena alpina per i giudizi tranchant che ci ha riservato) e Marcel Fratzscher, capo del Diw e autore del libro “Die Deutschland-Illusion” (l’illusione tedesca). A titolo di raffronto, scrive Massimo Restelli sul “Giornale”, il debito complessivo (implicito ed esplicito) italiano si attesterebbe invece al 160% del prodotto interno lordo. In sostanza, negli ultimi anni Palazzo Chigi e Parlamento italiano fatto “i compiti a casa”, mentre Frau Merkel e il Bundestag no. A contribuire al disastro annunciato della Germania, insiste Zoffi, è poi il suo quadro demografico squilibrato: è lo Stato con meno nascite al mondo.

L’altra falla aperta è rappresentata da un mercato del lavoro ormai composto per un quarto da precari (tra part-time, stagisti e mini-job). Ne consegue una distribuzione dei redditi sempre più squilibrata: nel 2011 il 10% della popolazione deteneva il 66% della ricchezza contro il 44% del 1970. Per non parlare delle grane del sistema del credito: le banche tedesche, sebbene tutte promosse ai recenti esami patrimoniali della Bce (ma Berlino ha ottenuto di esentare le problematiche casse di risparmio e le “landesbank”) da un lato «contano debiti complessivi per 8.000 miliardi di euro» (raccolta alla clientela, prestiti di varia natura e obbligazioni), e dall’altro – e questo sembra il problema principe – ci sono «impieghi in asset di qualità sovente discutibile: Abs, derivati, prestiti alle banche greche e spagnole». In pratica, avrebbero investito male (e con una certa dose di pericolo) il denaro raccolto: «Deutsche Bank assomiglia a un grande hedge fund», dice Zoffi.

L’imprenditore italiano sottolinea di essere tornato a investire sulle imprese dello Stivale all’apice della crisi, sfruttando i saldi provocati dallo sferzare dello spread. «Insomma – scrive Restelli – da uomo d’affari è convinto di aver fatto bene a credere nell’Italia: stima che le sue attività (il gruppo Ors, specializzato nel Big Data, la tenuta vitivinicola in Monferrato Noceto Marcel FratzscherMichelotti e l’azienda friulana di insaccati di selvaggina Bertolini Wild, insieme alle potenzialità di sviluppo del portale Gourmitaly) abbiano oggi un valore potenziale di 50 milioni. «La Germania – chiosa Zoffi – resta però un esempio per la penisola sotto molti altri aspetti fondamentali, sia per la qualità di vita dei cittadini, sia per la buona riuscita di un’impresa: a partire da un apparato pubblico-burocratico e da un sistema della giustizia che funzionano a dovere».

Lo stesso Zoffi è anche esponente del Movimento Roosevelt, fondato da Gioele Magaldi. Dalla sua analisi, scrive il vicepresidente Marco Moiso sul blog del movimento, emerge come, dal punto di vista del debito, la Germania sia “messa peggio” del Bel Paese. «Eppure – scrive Moiso – questa non deve assolutamente essere l’occasione per puntarle il dito contro», chiedendo anche ai tedeschi di «sottomettersi alla cura venefica dell’austerità, in nome di un miope e mal riposto senso di riscatto». Al contrario: meglio se anche in Germania si aprissero gli occhi, scoprendo cosa significano le ricette del neoliberismo. «La sconfitta della democrazia tedesca – in un contesto internazionale in cui la sovranità delle democrazie stesse viene progressivamente rimpiazzata dall’econocrazia neoliberista – significherebbe la vittoria di quei poteri apolidi che supportano il neoliberismo e hanno interesse nello svuotare le istituzioni pubbliche di democrazia sostanziale, in nome del mantenimento del valore assoluto del denaro da loro accumulato». Lo choc dei conti truccati? Ottima cura, se serve a tornare alla sovranità popolare, in ogni paese Ue. Missione impossibile? Si domanda Moiso: «È pronto, il popolo tedesco, a lottare insieme agli altri popoli europei contro l’econocrazia neoliberista e a favore di democrazia e politiche monetarie ed economiche sviluppate nell’interesse del popolo europeo sovrano?».

Fonte: libreidee.org (qui)

Elezioni, Esteri, Europa, Germania

Assia tragica per la Merkel

Le elezioni in Assia confermano la parcellizzazione del consenso politico, una tendenza che in Germania si è consolidata da oltre un anno. Anche nella regione di Francoforte continua l’emorragia di voti per i cristiano democratici (27,8 per cento) e per i socialdemocratici (19,5); i due principali partiti tedeschi perdono rispettivamente oltre dieci punti percentuali. Continuano la loro ascesa i Verdi (19,5) che anche qui hanno raggiunto un altro record. Sebbene in Assia fossero tradizionalmente forti (in questa regione giurò come primo Ministro verde nella storia della Repubblica Federale Joschka Fischer) mai avevano raggiunto queste percentuali. I Verdi sono indiscutibilmente i vincitori di queste elezioni perché senza di loro non è possibile, realisticamente, alcuna coalizione. Triplica i voti anche la destra nazionalista di AfD (12,5) che proprio in Assia si presentò per la priva volta in un’elezione regionale e conferma sostanzialmente il consenso ottenuto in questa regione alle elezioni nazionali di poco più di un anno fa. Dopo queste elezioni AfD è presente in tutti i Parlamenti regionali della Repubblica Federale. Aumentano i propri consensi anche i liberali che con il 7,9 diventano ora decisivi per la formazione del governo regionale. Discreto anche il risultato (6 per cento) della sinistra tedesca (Die Linke) che migliora il risultato di un punto percentuale ma non beneficia delle gravi perdite della SPD, a conferma che oramai i due elettorati sono molto distanti.

La distribuzione dei seggi permetterebbe forse al governo uscente nero-verde (CDU-Verdi) di continuare a governare ma con maggioranza limitata a un solo seggio. Probabilmente troppo poco per garantire un governo di cinque anni. Esclusa l’opzione della Grande Coalizione (CDU-SPD), in considerazione della scarsissima popolarità di cui gode attualmente in Germania, l’unica reale possibilità resta una coalizione Giamaica (CDU, Verdi e liberali) che improvvisamente torna centrale nella politica tedesca dopo il fallimento delle trattative per il governo nazionale di un anno fa. Il leader dei liberali Christian Lindner ha manifestato la disponibilità dei liberali ad una trattativa con conservatori e Verdi in Assia, ma ha, al contempo, attaccato ancora una volta la cancelliera Merkel. Qualunque trattativa deve essere in discontinuità con la politica di Angela Merkel (ha invece elogiato l’altra coalizione Giamaica nel Land dello Schleswig-Holstein). Proprio Lindner ha letto il risultato in Assia come un chiaro messaggio di sfiducia alla cancelliera (e alla Grande Coalizione). Una dichiarazione che non deve essere piaciuta al Presidente uscente del Land e leader della CDU in Assia, Volker Bouffier, un fedelissimo della Cancelliera.

Il risultato delle elezioni in Assia, nell’immediato, non metterà in discussione il governo di Berlino ma la posizione di Merkel e della SPD è sempre più debole. Per il destino della Cancelliera bisognerà aspettare il 7-8 dicembre quando si svolgerà il congresso della CDU ad Amburgo. Diversa la posizione della SPD che si trova in una delle più difficili crisi della sua storia e ha ormai perso la dimensione di partito di massa che nella storia della repubblica tedesca le ha garantito un ruolo e una funzione centrale. La leader Andrea Nahles non ha lasciato intendere che la Spd intende concludere l’esperienza della Große Koalition a Berlino ma ha annunciato che domani presenterà un piano per rilanciare l’attività di governo. La Grande Coalizione tedesca continua a non trovare pace.

Fonte: huffingtonpost.it (qui) Articolo di U. Villani-Lubelli

Europa, Legge di Bilancio

Manovra, non solo Italia: le lettere negative della Ue sulle leggi di bilancio. I casi di Parigi, Madrid, Atene e Helsinki

Fa parte delle modalità con cui la Commissione europea comunica i suoi rilievi sulle bozze di piani di bilancio che tutti gli Stati inviano inviano prima del passaggio nei rispettivi Parlamenti. La più indigesta, per l’Italia, fu quella recapitata il 5 agosto del 2011

Annunciata o meno, ricevere una lettera è sempre una piccola o grande emozione. In Europa devono esserne ben consapevoli, visto che da anni tra Bruxelles, Francoforte e capitali dei paesi euro è in atto uno scambio di missive vorticoso e di lettere è punteggiata la storia dell’unione monetaria. Le parole uscite dalla busta indirizzata al ministro Giovanni Tria, perentorie e insolitamente dure nei toni, hanno il sapore di uno schiaffo verbale anche se, ma da un punto di vista procedurale, l’uso di una lettera è la norma. Fa parte delle modalità con cui Bruxelles comunica i suoi rilievi sulle bozze di piani di bilancio che tutti gli Stati inviano alla Commissioneprima del passaggio nei rispettivi Parlamenti. È quindi anche un modo usato dalla Commissione per esercitare una sorta di “moral suasion” sulle varie assemblee legislative. Sempre via lettera, i Governi possono naturalmente replicare. Se non si raggiunge un’ intesa e lo Stato “inadempiente” insiste sulla sua linea, la Commissione può avviare l’iter sanzionatorio previsto dal patto si stabilità e crescita. Nulla di terribile. Nella peggiore delle ipotesi multe e richieste di depositi vincolanti per un valore pari a circa lo 0,5% del Pil oltre al blocco dei finanziamenti della Banca europea per i finanziamenti.

Nella determinazione con cui Bruxelles porta avanti questa opzione rimane comunque sempre una buona dose di discrezionalità politica come insegnano alcuni precedenti. Nel 2003 sia la Francia che la Germania sforarono i limiti di deficit per il terzo anno consecutivo. L’allora commissario all’Economia Pedro Solbes minacciò sanzioni e inviò raccomandate a Parigi e Berlino. Ma poi tutto si fermò quando l’Eurogruppo (consesso dei ministri economico finanziari dell’area euro) decise di graziare i due pesi massimi del Vecchio Continente con il voto favorevole anche dell’Italia. Un precedente disastroso per il messaggio che portava con se: le istituzioni centrali europee non avevano il coraggio politico di imporsi ai membri più importanti.

I carteggi tra Commissione e cancellerie sono insomma all’ordine del giorno. Per l’Italia, e qualche altro paese, in particolare. Limitandosi agli anni più recenti, rilievi sui piani di bilancio sono stati messi neri su bianco nella lettera inviata al ministro Pier Carlo Padoan nel 2017. Nel 2016 le buste di Bruxelles presero il volo per Roma, Parigi, Madrid, Helsinki oltre che per il Belgio, la Croazia e la Romania. Anche nel 2014 i commissari europeo presero carta e penna per scrivere a Roma, a Parigi e ad altre due capitali. Busta e francobollo sono il primo atto di procedure che possono portare a provvedimenti di varia natura e per motivi diversi. Un fitto carteggio con Budapest ha ad esempio preceduto l’inizio delle procedure sanzionatorie contro l’Ungheria per le sue politiche migratorie.

I toni particolarmente duri della lettera arrivata al ministero dell’Economia giovedì costituiscono un segnale preoccupante soprattutto in chiave politica. Se la Commissione usa certe formule “deviazione senza precedenti, mai nessuno così lontano dagli obiettivi è anche perché sa di avere le spalle coperte. L’Italia risulta sempre più isolata in Europa e in questi giorni le varie cancellerie, a cominciate da quelle che alcune parti del Governo ritengono più “amiche”, hanno fatto a gara a chiedere un trattamento severo nei confronti di Roma. Non è certo la prima volta che in Italia arrivano missive difficili da digerire. La più indigesta fu quella recapitata il 5 agosto del 2011, inizialmente segreta, in cui il presidente della Banca centrale europea Jean Claude Trichet e il successore designato Mario Draghiintimavano all’Italia di avviare politiche di rigore come condizione per ottenere il sostegno di Francoforte contro l’attacco dei mercati che infuriava. Le indicazioni abbastanza puntuali della lettera come riforme di pensioni e pubblica amministrazione e liberalizzazione del mercato del lavoro, furono (e)seguite solo in parte. I diktat di Francoforte contribuirono a scavare una distanza tra il presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia di allora, Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti che fu una delle cause della fine anticipata dell’Escutivo da lì a pochi mesi. Negli stessi giorni una lettera quasi identica nei contenuti, ma a firma di Trichet e del governatore della banca centrale spagnola Miguel Ángel Fernández Ordóñez , fu inviata anche al governo di Mariano Rajoy che ne accolse abbastanza pedissequamente le indicazioni.

Di lettere spedite è ricca anche la recente crisi greca. Per anni molte delle richieste della “Troika” (Commissione Ue, Bce ed Fmi) sono arrivate per posta. Nel marzo 2015 il premier Alexis Tsipras scrisse alla cancelliera tedesca Angela Merkel per chiedere condizioni meno punitive per gli aiuti al paese, nel 2015 ai creditori del paese. Alla fine del luglio 2015, sempre via lettera, la sostanziale capitolazione di Atene con l’ok indirizzato a Mario Draghi, Jean Claude Juncker e Chistine Lagrde alle misure di austerity richieste al Paese.

Fonte: ilfattoquotidiano.it (qui) Articolo di A. Del Corno

Economia, Europa, Politica

Bilancio italiano: il braccio di ferro in atto con l’Unione Europea di Jacques Sapir | Scenarieconomici.it

La presentazione del DEF italiano sta sollevando un problema di compatibilità con le istituzioni europee (sull’ampiezza del deficit) così come una polemica vivace in Italia. È ormai chiaro che si va’ verso una grande crisi tra l’Unione Europea e l’italia.

Il Ministro dell’Interno italiano e Vice-primo ministro Matteo Salvini aveva dichiarato alla fine del mese di settembre che avrebbe sostenuto una proposta di “limitazione del deficit” intorno al 2%. Questa dichiarazione era importante, perché pronunciata da un dirigente che aveva fatto propaganda su una rottura sincera con le regole dell’Unione Europea. In più, i sondaggi realizzati in Italia mostravano (e continuano a mostrare) che Salvini gode di un’incontestabile popolarità (tra il 60% e 75% di opinioni favorevoli) e che il suo partito, la Lega, sembra avere il vento in poppa. Ha ottenuto il 17% dei suffragi alle ultime elezioni, ma attualmente è accreditato a più del 32% nei sondaggi.

Questa dichiarazione aveva suscitato naturalmente numerosi commenti. Infatti, certuni si sono rallegrati e altri si sono preoccupati che Matteo Salvini abbia fatto ciò che appare come dichiarazioni rassicuranti su un eventuale deficit per il 2019 prima dell’incontro previsto da lunga data tra Giovanni Tria ed i membri dell’ECOFIN e dell’EUROGRUPPO. Ciò poteva sembrare accomodante per gli altri dirigenti europei ed i dirigenti dell’UE.

In realtà non era così. Innanzitutto, conviene notare che queste dichiarazioni erano solamente l’inizio di un negoziato sulle cifre che l’Italia doveva mettere nel documento di pianificazione di bilancio. Inoltre, questa dichiarazione è stata determinata da un gioco delicato condotto dalle parti in seno all’élite politica italiana. Le cifre ora sono state pubblicate e indicano che il governo italiano si orienta molto verso una prova di forza con l’Unione Europea.

L’ampiezza e le cause del deficit

Di fatto, il governo italiano ha finito per optare per una soglia di deficit del 3,0% del PIL, fermandosi solamente al 2,4% per il 2019. Questo obiettivo è in completa contraddizione con il quadro di bilancio delle finanze pubbliche fissate dall’Unione europea per l’Italia, che fissa il deficit massimale intorno al 0,7%. Ancora più importante è che nelle dichiarazioni del governo italiano non si fa menzione alcuna di raggiungere un equilibrio di bilancio per i tre anni successivi. Nei fatti ciò significa che ca. 24 miliardi di euro dovrebbero essere finanziati se ci si atteneva alle regole di bilancio dell’UE e non lo sono nella realtà. Di questa somma, 12,4 Mld saranno utilizzati per ridurre molto l’IVA, ciò che corrisponde ad una promessa della campagna elettorale; 1,5 Mld dovrebbero essere destinati alla ristrutturazione bancaria al fine di compensare le perdite dei risparmiatori; per finanziare l’abolizione della legge sulle pensioni e i pensionamenti anticipati per ca.400 000 lavoratori sono previsti 8 Mld. Peraltro, 10 Mld saranno destinati al reddito (di cittadinanza) di 6,5 milioni di persone su 10 anni; infine bisogna tenere conto della riduzione delle tasse ciò che equivarrà ad una diminuzione del gettito fiscale da 3,5 a 4,5 Mld.

La decisione del governo è importante. Questa decisione è stata convalidata interamente dal Ministro dell’economia Giovanni Tria, il quale veniva presentato come un sostenitore delle regole dell’UE. O ci si è sbagliati sulle idee di Tria oppure lui sembra aver ceduto alla volontà di Di Maio e Salvini. Questa previsione di spesa è chiaramente un bilancio di rilancio che combina un sostegno alla domanda con una riduzione delle tasse. Il fatto che l’essenziale di queste diminuzioni porta sull’IVA mostra bene la dinamica sociale di questo budget. Su 24 Mld di deficit supplementare previsto nel progetto di bilancio, quasi 20 miliardi dovrebbero andare verso le famiglie più povere così come verso le classi medie.

Un’agenda molto densa

La presentazione degli obiettivi di bilancio è tuttavia solamente il primo passo in un processo più complesso. L’ufficio parlamentare del bilancio, l’UPB che è un’agenzia indipendente del governo, deve esprimere il suo parere. Sarà probabilmente negativo. Ma il governo può non tenerne conto. Ben più importante sarà la reazione dell’Unione Europea. In quest’ottica conviene avere bene in vista le scadenze delle relazioni tra il governo italiano e l’UE. Il 15 ottobre il governo dovrà mandare il progetto di legge di bilancio a Bruxelles. Il 20 ottobre, il bilancio sarà reso pubblico nella sua interezza e non solo negli obiettivi di deficit. Il 22 ottobre, la Commissione manderà una prima lettera al governo italiano in cui si dichiarerà probabilmente preoccupata per l’evoluzione della situazione e proporrà una settimana di proroga per procedere agli aggiustamenti necessari e sottomettere di nuovo il progetto. Se il governo modificherà il DEF (come è accaduto nel 2014) la situazione ridiverrebbe normale e conforme. Se tuttavia il governo mantiene il suo progetto di bilancio, e le ultime dichiarazioni vanno in questo direzione, il conflitto sarà inevitabile. Se dunque il governo italiano non dà seguito alle riserve della commissione europea e mantiene gli obiettivi e il bilancio iniziale, il 29 ottobre ci sarà un rigetto ufficiale da parte della Commissione. Durante le tre settimane successive il governo avrà tuttavia sempre la possibilità di modificare il bilancio ma sembra ferma la volontà del governo di mettere in esecuzione i suoi piani qualunque sia il parere della Commissione europea. Conseguentemente il 21 novembre saranno presentati i pareri ufficiali sui progetti di bilancio dei paesi membri al Comitato economico e finanziario, il comitato junior dell’Ecofin. Il Comitato potrebbe formulare allora una raccomandazione formale come è richiamato dall’articolo 126, paragrafo 3 che costituisce la prima tappa per mettere l’Italia in procedura di deficit eccessivo. Altri passi ufficiali dovrebbero seguire. In caso di dibattito politico, e ci sarà certamente un dibattito importante dato che l’Italia ha degli alleati in seno al Comitato economico e finanziario, il tempo dovrebbe essere sufficiente tale da permettere ai ministri di prendere le loro decisioni all’inizio di dicembre e poi al Consiglio europeo alla fine dell’anno. Ma la decisione dovrebbe essere la stessa all’inizio del 2019: una dichiarazione di mancanza di conformità e il probabile avvio della procedura di deficit eccessivo. Allo stesso tempo, il parlamento italiano approverà probabilmente il bilancio, visto che il governo beneficia di una maggioranza sufficiente. Il presidente Mattarella che ha lanciato già un avvertimento dovrebbe allora dire che il bilancio non è compatibile con il quadro di bilancio nazionale (che in realtà non è che una fotocopia del bilancio europeo) e dovrebbe rigettarlo. La procedura prevede tuttavia che il governo può chiedere un nuovo voto al Parlamento. Quest’ultimo dovrebbe allora riaffermare il suo sostegno al DEF. A questo punto il presidente non avrebbe altra scelta che firmarlo. È solamente in un momento successivo che la Corte costituzionale potrebbe rigettare il DEF dichiarandolo incostituzionale. Tuttavia, ciò richiederebbe parecchi mesi per ragioni pratiche ma soprattutto provocherebbe una grave crisi politica in Italia che potrebbe portare probabilmente a nuove elezioni. Queste ultime potrebbero, se si crede ai sondaggi fatti di recente, vedere una vittoria massiccia del M5S e della Lega (accreditati rispettivamente al 27% e al 33% delle intenzioni di voto). Questo potrebbe tradursi in una maggioranza dei due-terzi alla Camera e al Senato, cosa che permetterebbe al governo di procedere a modifiche della Costituzione.

Il futuro in forse

Occorre, beninteso, aggiungere a ciò il comportamento delle agenzie di rating e i probabili aumenti dei tassi di interessi sul debito italiano che rappresenta il 133% del PIL. Questo aumento del debito potrebbe condurre del resto ad un aggravamento della crisi tra l’Unione Europea e l’Italia. Il governo di quest’ultimo potrebbe decidere di utilizzare dei buoni del Tesoro di piccolo taglio (Minibot) come moneta parallela, avviando così il processo di uscita dall’Euro.

L’Italia sarà sottoposta dunque ad una forte pressione, tanto dalle autorità dell’UE che al suo interno (la stampa attualmete è scatenata contro il governo) e pressione proveniente dai mercati finanziari. Ma il governo italiano sembra essere preparato a resistere. Può contare sui presidenti delle due commissioni economiche della Camera e del Senato (Claudio Borghi e Alberto Bagnai) le cui convinzioni euroscettiche sono ben note, su membri del governo (da Salvini a Savona) ma anche su sostegni esterni e, più importante ancora, sulla maggioranza degli italiani.

Il fatto che la riunione annuale del Centro di ricerca dell’Università di Pescara (che Alberto Bagnai ha diretto fino alla sua entrata in politica) che avrà luogo il 10 e 11 novembre si annuncia molto seguita (più di 600 partecipanti paganti si sono iscritti in appena 5 giorni) è anche una buona indicazione del sostegno che incontra il governo italiano nel suo braccio di ferro con l’Unione Europea. Il fatto che Stefano Fassina, un dirigente storico del sinistra italiana che si era dimesso dal governo (Letta) e rotto col PD di Matteo Renzi e che eletto all’assemblea di Liberi ed Uguali, abbia annunciato la sua partecipazione a questa riunione è anche un segno che questo sostegno potrebbe ben trascendere dalle divergenze politiche.

Traduzione di Viola Ferrante

https://www.les-crises.fr/russeurope-en-exil-budget-italien-le-bras-de-fer-avec-lunion-europeenne-est-engage-par-jacques-sapir/

Fonte: scenarieconomici.it (qui)

Economia, Europa, Politica

Savona ovvero il volto presentabile dei gialloverdi. Alla stampa estera difende il Def (più di Tria) e provoca Draghi

Il ministro a tratti sembra quasi un intruso al governo: “Se Bruxelles boccia il mio progetto di riforma, dà fiato ai sovranisti”.

Di sé dice di avere “la pelle dura, da buon sardo abituato agli ovili”. La verità è che sempre più Paolo Savona si afferma come il volto presentabile del sovranismo italiano che arriva finanche a contestare il sovranismo pur di presentarsi. E’ l’ambasciatore scelto per trattare con l’Europa alle condizioni del governo gialloverde. Dopo un tour a Strasburgo la scorsa settimana, il ministro degli Affari Europei viene a presentare il suo progetto di riforma dell’Ue (‘Una politeia per un’Europa diversa, più forte e più equa’) alla sede della stampa estera a Roma. “Se l’Ue risponde al mio progetto, allora recuperiamo i sovranisti”, dice. E qui già strabuzzi gli occhi. Ma lui continua: “Non accogliere il mio progetto vorrebbe dire dar fiato ai sovranisti”.

Ma come? I sovranisti non sono i suoi alleati di governo? Sì. Proprio questa mattina Matteo Salvini ha rilanciato la sua internazionale sovranista al fianco di Marine Le Pen in un incontro a Roma. Appunto. E allora per chi gioca Savona, l’uomo sul quale si stava impiccando l’alleanza gialloverde ai suoi albori, a maggio, di fronte al no secco di Sergio Mattarella che non lo voleva ministro dell’Economia?

“Non si può capire il def senza conoscere i contenuti del mio documento sull’Europa”, dice il ministro agli Affari Europei, mettendo in chiaro che la sua partita è la stessa del governo. Piuttosto: il suo attivismo intorno all’Europa rivela che anche i sovranisti italiani dei toni alti hanno bisogno di un volto diplomatico per tentare di portare i partner europei sulle loro posizioni. “E’ giusto quanto diceva Roth: bisogna parlare con l’altro, non contro”, dice Savona, lo stesso che governa con Di Maio e Salvini, che hanno costruito un credo intorno a toni duri e agli insulti. Possibile? Kafkiano, ma questo è. Più parti nella stessa commedia con l’Ue: riuscirà?

Lo stesso Savona non ne è sicuro. Basti ascoltare cosa dice a proposito della fine del Quantitative easing (a fine anno), a proposito della Bce e di Mario Draghi. “Non ho perso la fiducia: nessuno ha interesse a mandare un paese in crisi. Siccome Draghi sta lì per quasi tutto il 2019, penso che a un certo punto lui ci penserà per evitare una grande crisi in Europa”. Insomma, ‘Draghi aiutaci tu’, proprio lui: l’uomo nero per cinquestelle e Lega, il banchiere che la settimana scorsa è salito al Quirinale a esprimere le sue forti preoccupazioni sulla manovra economica italiana.

Ma Savona non è sicuro di vincere la sfida anche perché di alleati in Europa ancora non ne ha. “Dissensi per ora non ne ho avuti”, dice. “Quanto agli scetticismi li ho sempre superati”, aggiunge, citando il Machiavelli con cui – tra l’altro – apre il suo documento per l’Ue, 17 pagine di proposte sulla politica monetaria, quella fiscale, crescita e investimenti.

Ma certo le europee di maggio, ragiona il ministro, sono più un intralcio che un’opportunità: “Con le elezioni alle porte, non riesci a parlare serenamente con nessuno…”, ammette. Pazzesco, visto che i suoi partner di governo, sia Salvini che Di Maio, non fanno altro che invocare il voto dell’anno prossimo come ‘D-day’ per cambiare il volto dell’Europa.

Ecco, invece per Savona bisognerebbe farlo prima. Prima che vincano i sovranisti con la loro idea di rifondare un’Europa in cui ogni Stato si sceglie la sua economia e si controlla i suoi confini, come hanno esposto chiaramente stamattina Salvini e Le Pen. Prima che sia troppo tardi, insomma. Laddove il ‘tardi’ è evidentemente la conquista della maggioranza in Parlamento europeo da parte di Salvini e del suo fronte nazionalista. Si fa fatica a non pensare che Savona remi contro, ma evidentemente a lui tocca la parte più diplomatica per raggranellare di più.

E infatti spiega che di fronte alla manovra economica contestata a Bruxelles, “i mercati hanno reagito in maniera moderata: noi stesso pensavamo peggio. Il problema è lo scontro politico tra forze conservatrici e chi vuole il cambiamento. Noi la scelta l’abbiamo fatta: vogliamo una Ue cambiata. Credo e ho sempre creduto nel mercato, lo ritengo più sano dello scontro politico”.

Di nuovo si fa fatica a seguire il filo che lo lega comunque al governo. Savona dice semplicemente l’esatto contrario di quanto vanno predicando i due vicepremier. Ancora: “Cerco di restare sordo a tutto ciò che accade intorno a me in termini di chiacchiere ma nel governo nessuno vuole lasciare l’Ue”, aggiunge il ministro agli Affari Europei come se fosse un chiarimento. Non lo è. E per giunta annuncia che non farà campagna elettorale per le europee: “Per tutta la vita mi sono tenuto fuori dalla lotta politica e quindi non partecipo ad alcuna campagna elettorale, per età e per formazione personale. Per chi voto? Per chi farà proprio il mio programma di crescita e investimenti”.

Un po’ vago ma è questa la scommessa per vincere la sfida con Bruxelles sul deficit al 2,4 per cento del pil per il 2019. “Strillano per lo 0,4 perché in fondo fino al 2 per cento era eredità del governo precedente e io dovevo correggere gli errori degli altri?”, aggiunge. E per una volta sembra in linea. Non dura molto: “Padoan è stato un grande ministro”. Bene, addio.

Cosa ne sarà? Nel lungo incontro alla stampa estera, Savona rivela pure di aver messo sul piatto le sue dimissioni per fare abbassare lo spread. Ora al governo aspettano la fine del mese per il responso delle agenzie di rating. “Ma loro si basano sulle previsioni europee – dice Savona – E quando una previsione viene cambiata ogni tre mesi, non c’è più previsione e le agenzie di rating lo capiranno… Se ci bocciano dovranno spiegare perché…”. Già, perché?

Fonte: huffingtonpost.it (qui)

Economia, Europa, Italexit, Politica

Spread, Ue, mercati. L’economista Bifarini: “Lasciare l’Euro si può e si deve” – Affaritaliani.it

In questo periodo storico in cui si susseguono allarmanti notizie riguardanti spread, mercati in subbuglio, bocciature da parte dell’Unione Europea, alle quali replicano con risposte perentorie e minacciose, o in alternativa ottimistiche e serafiche i rappresentanti del Governo Lega-m5s, torna di grande attualità il saggio Neoliberismo e manipolazione di massa. Storia di una bocconiana redenta, scritto e pubblicato nel 2017 dall’economista Ilaria Bifarini.

Laureata per l’appunto all’Università Luigi Bocconi di Milano in Economia delle Pubbliche amministrazioni e delle Organizzazioni Internazionali e titolare di un master in Studi Diplomatici, incontriamo la dottoressa Bifarini a margine di un partecipatissimo convegno organizzato dal centro CCC, Cultura, Civismo e Comunità, nel quale la giovane economista ha calamitato l’attenzione del pubblico con il suo approccio “politicamente scorretto” alle vessate questioni economico-finanziarie. Diatribe che fanno il bello e il cattivo tempo nei talk show televisivi, nei quali la dottoressa Bifarini è ormai ospite praticamente fissa. In questo marasma di voci via via più catastrofiche su eventuali disastri incombenti, Affaritaliani.it ha chiesto all’economista delucidazioni sulla situazione presente e futura dell’Italia.

D: Nel suo celebrato saggio riguardo al neoliberismo e alla manipolazione da parte dei media, lei tratta degli inganni della “narrazione mainstream”, grazie ai quali le élite sarebbero riuscite a dominare il popolo e le masse. In questo particolare periodo storico in Italia, e soprattutto dopo la previsione del Def da parte del governo M5s-Lega, stiamo assistendo come nel 2011 a un continuo battage mediatico sui pericoli dell’innalzamento dello spread e della reazione negativa dei mercati. Allarmi fondati o, per l’appunto, inganno delle élite per affossare il “cambiamento”? 

R: La cosa drammatica di questo periodo storico è che la manipolazione ha agito talmente in profondità che l’opinione pubblica ha interiorizzato una serie di costruzioni ingannevoli create dall’élite. ll bombardamento mediatico e l’adesione unanime a un modello economico fallace e infondato hanno creato una narrazione falsata della realtà.

D: Può fare un esempio di come tale “narrazione falsata” incida sulla vita quotidiana del cittadino, magari non eccessivamente informato?

R: Si è arrivati alla situazione paradossale per la quale il cittadino medio, il cosiddetto uomo della strada, anziché preoccuparsi dell’alto livello della disoccupazione e della bassa crescita dell’economia nazionale rivolge la sua attenzione a un differenziale tra tassi di rendimento di titoli di Stato, che nulla dice dell’economia e dello stato di salute del paese. Con una forza pervasiva senza uguali l’ideologia neoliberista, che altro non è che il culto e l’idolatria per i mercati, ha spostato l’attenzione dall’economia reale, quella dei cittadini e delle famiglie, del lavoro e della produzione, all’economia intangibile dei mercati e della finanza. Per dirla nel gergo degli economisti, il mondo di Wall Street ha soppiantato quello di Main Street.

D: E, secondo lei, quale potrebbe essere la via d’uscita da questa situazione?

R: Occorre ritornare a una concezione dell’economia che metta al centro l’uomo e non la finanza, che è uno strumento di supporto dell’economia reale. Per farlo è necessario scrollarsi di dosso decenni e decenni di abile manipolazione di massa da parte dei media finalizzata a garantire gli interessi e la preseverazione dell’élite al potere.

D: Cosa ne pensa dell’esecutivo giallo-verde? E’ nato per durare ed è in grado di giovare al Paese, o – come vogliono i suoi detrattori – si tratta in realtà di una mera operazione di propaganda utile a fare incetta di consensi in vista delle elezioni europee?

R: Questo esecutivo è l’espressione compiuta del desiderio di cambiamento da parte di milioni di elettori italiani, che alle urne hanno bocciato compatti una classe politica che non agiva negli interessi del Paese. Si tratta di una cesura totale con il passato, che segna un rinnovamento della politica e dei suoi attori. Gli elettori hanno acquisito maggiore consapevolezza del proprio potere democratico e si è ridotta la distanza tra classe politica e popolazione. Quello che la ormai vecchia politica, sostenuta dalla cassa di risonanza dei media mainstream, taccia di populismo è in realtà un governo fatto di persone più vicine ai cittadini comuni, che con essi si identificano e quindi hanno instaurato un rapporto più umano.

D: A suo parere, le varie divergenze fisiologiche tra Lega e m5s non porteranno prima o poi alla frattura insanabile tra le due forze politiche al governo?

R: Di certo persistono delle differenze ideologiche importanti tra i due partiti della coalizione giallo-verde, che potrebbero metterne a repentaglio la tenuta. Tuttavia una cosa è chiara: si è aperta una nuova fase storica in cui i cittadini, e quindi il popolo, hanno un peso sostanziale. In questo senso, e non nell’uso dispregiativo che ne viene fatto dalla narrazione dominante, andrebbe inteso il concetto di populismo.

D: A  tal proposito, abbiamo assistito in questi anni all’ascesa folgorante e all’altrettanto repentina caduta di Matteo Renzi, il premier più giovane della Storia d’Italia che doveva rappresentare la novità. In che cosa Renzi, spesso accusato di strizzare l’occhio al “populismo”, era diverso rispetto alla compagine che ora governa il Paese?

R: Nonostante la giovane età anagrafica, Renzi non era la novità bensì la massima rappresentazione della vecchia politica, fatta di una gestione elitarista del potere. E quella politica è tramontata per sempre.

D: Nel maggio 2019 si terranno le tanto attese (nonché temute) elezioni europee. Al momento, l’estrema destra vola in Germania e l’alleanza CdU-CSU è in affanno, così come in Francia Emmanuel Macron si attesta ai minimi storici della sua popolarità. Alla luce di tutto ciò e di altri segnali non meno significativi in altri Paesi membri, lei ritiene che un possibile fronte sovranista possa davvero imporsi alle urne nel maggio 2019 e cambiare il volto dell’Europa?

R: Le politiche economiche di matrice neoliberista dell’UE hanno aumentato ovunque la povertà della popolazione e frenato la crescita, creando scontento tra i cittadini. Inoltre l’incapacità di gestire i flussi migratori massivi di questi ultimi anni ha provocato scontento e disagi sociali. Le politiche UE dovevano aumentare il senso di solidarietà e coesione tra Stati, ma hanno sortito l’effetto opposto. Questo perché non si può spingere troppo oltre il concetto di globalizzazione politica ed economica senza tener conto delle profonde diversità e peculiarità tra Stati. Vorrebbe dire rinunciare alla propria democrazia e all’interesse nazionale, e questo i cittadini non sono più disposti ad accettarlo.

D: Nel suo libro “I coloni dell’Austerity. Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”, lei illustra come il colonialismo nel “continente nero” non sia mai svanito del tutto e che, per esempio, la Francia continui a dominare di fatto 14 Stati influenzandone l’Economia attraverso il Franco Cfa. Una situazione che adombra i rapporti fra l’Unione Europea e gli Stati membri. E’ azzardato dire che l’Italia, così come altri paesi riuniti sotto l’egida dell’UE, sia de facto colonizzata dall’Ue, e in particolare dall’asse franco-tedesco? 

R: Il franco CFA è a tutti gli effetti una moneta coloniale imposta a 14 paesi francofoni dell’Africa sub sahariana che non hanno sovranità monetaria e sono costretti a versare il 50% delle proprie riserve valutarie alla Banca di Francia. Quest’area, insieme all’Eurozona, è l’unico caso al mondo di unione monetaria (fatta eccezione per alcune isolette non rilevanti dei Caraibi). Le analogie tra le politiche neoliberiste imposte all’Africa neocoloniale e quelle imposte agli Stati europei sono molteplici e impressionanti. La loro scoperta mi ha spinto a scrivere questo libro, “I coloni dell’austerity” appunto, che rivela come le nuove armi del debito e delle conseguenti politiche di austerità siano lo strumento più potente utilizzato a livello mondiale per colonizzare i Paesi. Il Terzo Mondo è stato il territorio di sperimentazioni di tali politiche che oggi sono adottate anche nelle economie avanzate come la nostra. Esse non fanno altro che aumentare la povertà e la disuguaglianza a livello mondiale, a unico vantaggio di un élite sempre più ristretta e potente.

D: Politiche di austerity che lei dunque boccia tout court?

R: Decisamente sì. Per conoscere il loro potenziale distruttivo basta guardare le condizioni in cui versa il Continente africano, territorio di depredazione e di perpetrato colonialismo da parte della Francia e del nuovo rivale cinese. La Germania, attraverso gli strumenti del nuovo colonialismo economico, esercita un’egemonia incontrastata nel resto dell’Europa. Gli effetti devastanti delle sue politiche di austerity imposte alla Grecia ne sono un esempio plastico.

D: Ogni volta che qualche forza politica in Italia ventila l’ipotesi di un’uscita dall’Euro, tale ipotesi scatena un putiferio e viene liquidata come un’utopia, o una distopia a seconda degli interlocutori. Lo stesso primo ministro Giuseppe Conte si è affrettato recentemente a rassicurare Bruxelles sul fatto che l’Euro è imprescindibile e indiscutibile. Secondo lei, pensare a una Italexit è davvero un’assurdità foriera di sciagure inenarrabili o tale spauracchio di possibili catastrofi fa sempre parte dell’ingannevole “narrazione mainstream” di cui sopra?

R: Ormai sulla questione dell’uscita dall’euro si è creato un vero tabù. In realtà diversi premi Nobel dell’economia concordano sulla fallimentarietà del progetto Euro. La moneta unica è stata una pessima idea, non esistevano e non esistono i presupposti per realizzare un’unione monetaria tra economia così diverse. Questo ha portato a un acuirsi del divario tra i cosiddetti paesi del centro e della periferia. La privazione di strumenti di politica monetaria conseguente alla moneta unica ha impedito ad alcune economie di reagire alla crisi del 2008. In generale, la crescita dell’intera area euro è stata molto bassa, e anche quella della Germania è in tendenziale ribasso.

D: Può fornirci qualche dato al riguardo?

R: Nel periodo compreso tra il 2007 e il 2015 mentre i paesi dell’euro che non hanno la moneta unica sono cresciuti di un 8,1%, l’Eurozona è rimasta inchiodata a uno 0,6%. L’Italia, la cui entrata nell’Eurozona è stata frutto di una forzatura politica voluta dall’allora governo, è uno dei paesi che ha risentito maggiormente della mancata crescita.

D: Lei pertanto esclude che l’Italia possa tornare a crescere in futuro?

R: Intrappolata come è nella morsa del contenimento del debito e dell’austerity imposti da Bruxelles risulta praticamente impossibile che possa ritornare a un percorso di crescita come quello del passato. Rimanere nell’euro significa prolungare un’agonia e dire per sempre addio alla posizione in cima alle classifiche delle potenze economiche mondiali.

D: Alla luce di quanto afferma, quindi, lei non considera soltanto plausibile l’uscita dall’euro ma addirittura auspicabile?

R: Uscire da una moneta unica creata meno di vent’anni fa e riconosciuta come un esperimento fallito è una possibilità più che plausibile e una strada da percorrere se si vuole recuperare la sovranità economica e anche politica. L’enfasi sugli effetti nefasti attribuiti all’Italexit sono chiaramente frutto di un’abile e martellante propaganda che ha tutto l’interesse a mantenere lo status quo.

Fonte: affaritaliani.it (qui).