Autodeterminazione, Europa, Politica, Sovranità

Uno Stato democratico non è più libero di autodeterminarsi, neppure dopo l’esito regolari elezioni. Perché? Semplice, la sua sovranità è subordinata al potere dei detentori (privati) della moneta europea.

Dallo spread ti può difendere la Bce, a una condizione: il commissariamento sostanziale dello Stato, non più libero di decidere come indirizzare la spesa pubblica. Secondo il “Fatto Quotidiano”, sarebbe questo il piano che Mario Draghi ha esposto a Sergio Mattarella, nei giorni scorsi, al Quirinale. «Si tratta dell’acquisto diretto da parte della Bce di titoli di Stato a breve termine emessi dallo Stato in difficoltà, che però per accedervi deve concordare una sorta di memorandum con il Meccanismo Europeo di Stabilità. Di fatto un commissariamento». Nella sostanza: la Banca Centrale Europea, che continua a non voler emettere “eurobond” a garanzia del debito pubblico dei paesi dell’Eurozona, si appresterebbe a esercitare indebite pressioni – modello Grecia – su un paese come l’Italia, di cui non si tollera la decisione di andare in controtendenza, rispetto al pensiero unico neoliberista di Bruxelles, espandendo il deficit. In una nota, la Commissione Europea “avverte” che la previsione del Def gialloverde (disavanzo al 2,4%) non sarà digerita dall’Ue, anche se Lega e 5 Stelle ritengono indispensabile, quel disavanzo, per cominciare a finanziare reddito di cittadinanza, pensioni più dignitose e taglio del carico fiscale. Misure che, secondo il governo, rilancerebbero il Pil già nel 2019.

L’oligarchia finanziaria che domina le istituzioni comunitarie non arretra di un passo: la minaccia dello spread resta la sua arma principale. Una visione drammaticamente espressa dallo stesso Mattarella nel maggio scorso, quando spiegò la sua Di Maio e Salvinisorprendente decisione di impedire a Paolo Savona di diventare ministro dell’economia. I mercati finanziari privati ci punirebbero, disse sostanzialmente il capo dello Stato, in una sorta di ammissione di impotenza. Tradotto:uno Stato democratico non è più libero di autodeterminarsi, neppure dopo l’esito (molto netto) di regolari elezioni, perché ormai la sua sovranità è subordinata al potere – sovrano, ma non pubblico – dei detentori della moneta europea. Tutto vero? Certamente sì, se persino per un misero 2,4% di deficit il governo gialloverde dovrà lottare duramente, con Bruxelles, sopportando il prevedibilissimo ricatto a orologia rappresentato dall’impennarsi dello spread. E se l’incendio divampa, anziché acqua, lo strano “pompiere” Draghi si appresta a gettare benzina. Una sorta di aut-aut, di fronte al quale l’Italia dovrebbe in ogni caso soccombere: si può solo scegliere se morire di spread o di commissariamento del bilancio, attraverso un dispositivo-capestro come quello del Mes, che metterebbe fine a qualsiasi velleità di promozione sociale, tagliando la spesa.

Secondo il sito specializzato “Market News”, la Bce starebbe pensando di calmierare gli spread acquistando titoli di Stato, con un vincolo ferreo per i governi: sottoporsi alle forche caudine del Mes. Il piano allo studio, scrive il “Fatto”, nasce in previsione della fine del “quantitative easing”, il programma di acquisto di bond iniziato nel marzo 2015 e ora in fase di conclusione: dal 1° ottobre la spesa mensile è dimezzata e nel 2019 gli acquisti si esauriranno. «L’indiscrezione emerge nei giorni in cui è tornata a salire la tensione sui Btp». Secondo diversi quotidiani, solo due giorni fa il numero uno dell’Eurotower, Mario Draghi, ha incontrato al Quirinale il capo dello Stato, al quale ha espresso «preoccupazione per la sottovalutazione del contesto in cui il governo sta scrivendo la manovra», visto che “l’ombrello” del Qe si sta chiudendo. Secondo “Market News”, la Bce sta valutando l’opportunità di emulare la Fed statunitense, che sette anni fa vendette 400 miliardi di dollari in titoli a Mario Draghibreve termine, usando i proventi per riacquistarne altri a scadenza più lunga (un modo per ridurre i tassi e stimolare l’economia, ma – negli Usa – senza imporre clausole vessatorie).

Un intervento – osserva il “Fatto” – che nel caso europeo verrebbe applicato ai 2,6 trilioni di euro di obbligazioni nel bilancio della Bce. «Il tutto comporterebbe anche un rinvio di eventuali rialzi dei tassi, che sarebbero il primo passo di una svolta di politica monetaria in senso restrittivo ma appaiono improbabili in uno scenario di rallentamento della crescita globale e dell’Eurozona». Lo scorso aprile, aggiunge il quotidiano di Travaglio, anche gli analisti di Bank of America avevano ventilato l’ipotesi di un’operazione del genere sul portafoglio titoli della Bce per tenere bassi i differenziali e evitare il caos sul mercato dei bond. «Dal prossimo anno, se il Qe venisse meno senza l’attivazione di nuovi strumenti, l’unico “scudo” disponibile per un paese europeo che finisca sotto attacco della speculazione sarebbero le cosiddette “Outright monetary transactions” annunciate da Draghi nel 2012 durante il famoso discorso sul “whatever it takes” e mai utilizzate». In pratica, Bce acquisterebbe in modo diretto titoli a breve termine, a patto però che lo Stato accetti di sottoporsi alla supervisione del Mes, mettendo fine alla propria autonomia di bilancio.

Fonte: libreidee.org (qui)

Economia, Europa

Bce, Draghi: “I governi creino riserve di bilancio per le crisi”. Questa è quasi una dichiarazione di guerra.

I governi devono rendere le politiche di bilancio più efficaci, dando vita a “cuscinetti da utilizzare in funzione anticiclica” e riducendo i deficit ora per poter spendere di più quando l’economia entrerà in una fase negativa. Lo ha detto il presidente della Bce, Mario Draghi, secondo il quale l’Eurozona ha bisogno “di uno strumento di bilancio aggiuntivo per svolgere una funzione di stabilizzazione”.

Oltre al danno, la beffa.

Dichiarazione che ha il sapore della tattica militare dell’attacco preventivo.

Gli Stati con propria sovranità monetaria ricorrono alla propria Banca centrale in caso di necessità per l’immissione di liquidità nel sistema finanziario e produttivo per sostenere l’economia alle prese con crisi o depressioni al fine di consentire un recovery in tempi compatibili con il tessuto sociale, evitando inutili periodi di sofferenza a famiglie ed imprese più del tempo necessario per riportare l’economia nuovamente in grado di produrre prosperità autonomamente.

Ma la richiesta del Governatore della Banca Centrale europea, Draghi, ai Governi di creare riserve per affrontare le eventuali future crisi, significa solo una opzione. Drenare ricchezza dal settore privato (famiglie e imprese) a favore del comparto pubblico significa utilizzare le tasse per trasferire risorse allo Stato. Ma in una situazione di economia stagnante che necessita di iniezioni di liquidità, attraverso investimenti pubblici e taglio delle tasse, per aiutare la ripresa, la ricetta di Draghi abbianata ai limiti di indebitamento previsti dai trattati europei, suona come una beffa.

La classe politica al tramonto, che senza il consenso del popolo, ha ceduto nel passato la preziosa sovranità, svuotando la Banca d’Italia delle storiche funzioni pubbliche, per trasferirle ad un organismo senza più controllo politico, si è macchiata del più grande crimine quello di aver tolto gli strumenti di autodifesa e di protezione della nostra civiltà. In compenso la Banca centrale non svolge più le funzioni di prestatore di ultima istanza, ma è diventata il governo della banche e degli istituti finanziari.

Ora ci viene chiesto di fare riserve per i tempi di crisi. Quasi a  voler predire un tempo di tribolazione, per i cittadini ignari della tempesta finanziaria che potrebbe abbattersi ancora una volta. Un invito, un consiglio, che potrebbe essere anche interpretato come un ricatto, tenuto conto che una banca centrale, come quella europea, può essere strumento per provocare crisi a tavolino, per finalità ideologiche e di condizionamento di Governi e Parlamenti legittimati dal popolo, ancora non abbiamo compreso bene quale sistema intrecciato offensivo è stato costruito con la scusa dell’Unione europea. Non più dispositivi militari per conquistare e sottomettere, ma strumenti sofisticati che impongono “il pilota automatico” alle politiche di austerity tanto somiglianti al saccheggio dei tanti a favore delle ricchezze immense dei pochi.

Fonte: tgcom24 (qui)

Europa, Politica

Governo Conte, Moscovici: “euroscettico e xenofobo”. La replica di Salvini: “Parla a vanvera, siamo stufi degli insulti che arrivano da Parigi e da Bruxelles”.

Il commissario Ue agli Affari economici ha accusato l’esecutivo Lega-M5s, poi i tecnocrati. Eppure la giornata era cominciata in maniera assai diversa.

Tensione ancora altissima sull’asse Roma-Bruxelles, in una partita tra Commissione Ue e governo italiano che si trasforma ogni giorno di più in scontro aperto. A riaccendere la miccia le parole del commissario Ue agli Affari economici, Pierre Moscovici, che in un intervento pronunciato a Parigi e distribuito alla stampa sotto embargo, ha accusato l’esecutivo Lega-M5S di essere “euroscettico e xenofobo” e di volersi “sbarazzare degli obblighi europei” sui migranti e sulla tenuta dei conti.

Piccata la replica del vicepremier Salvini all’invasione di campo della Commissione europea. “Moscovici parla a vanvera, in Italia non c’è nessun razzismo o xenofobia, ma finalmente un governo scelto dai cittadini che ha bloccato gli scafisti e chiuso i porti ai clandestini. Siamo stufi degli insulti che arrivano da Parigi e da Bruxelles”

Moscovici ammette gli errori della classe dirigente europea nella gestione della crisi, soprattutto sul piano politico, e aggiunge che le scelte di questi anni e il modo in cui sono state prese, hanno dato l’impressione che a decidere siano stati “tecnocrati anziché uomini politici responsabili: questo ha inevitabilmente aumentato la distanza che separa i cittadini dall’Europa”.

L’argomento della “grande vittoria dei tecnocrati sulla democrazia ha alimentato il discorso dei partiti euroscettici e nazionalisti che si sono consolidati sviluppando una retorica basata su due argomenti: Bruxelles e l’Europa sono la causa di tutti i nostri mali e ora è il momento per il popolo – quello vero – di riprendersi il potere dalle mani dei tecnocrati”.

Sta accadendo nell’Europa centrale, in Austria e in Italia, continua il commissario francese: “Orban o Salvini, tutti pretendono di avere il monopolio della rappresentazione della “volontà del popolo. È una retorica viziata ma terribilmente efficace: i loro successi elettorali ne sono la prova. L’asse illiberale e nazionalista si sta consolidando nell’Europa centrale sotto la guida del primo ministro ungherese Viktor Orban – prosegue Moscovici – e anche agli italiani, che hanno anche optato per un governo decisamente euroscettico e xenofobo che, sulle questioni migratorie e di bilancio, sta cercando di sbarazzarsi degli obblighi europei”.

Eppure la giornata era cominciata in modo diverso

La giornata europea, dopo il violento scontro verbale dei giorni scorsi sembrava essere iniziata in maniera diversa, con un segnale di apertura dal governo italiano sul fronte dei conti: l’esecutivo, il cui piano era stato bocciato su tutta la linea all’Ecofin di Lussemburgo, aveva fatto capire di essere pronto a far calare l’asticella del rapporto deficit/Pil per gli anni successivi al 2019, mantenendo il 2,4% solo per l’anno prossimo. La revisione della traiettoria del deficit dimostra che “l’Italia ha compreso i timori dell’Ue”, era stata la reazione a caldo di Moscovici, prima dello scoppio della tempesta per le sue parole sul governo ‘xenofobo’, è “un buon segnale la revisione dei conti”.

Ma poco dopo fonti Ue hanno chiarito che la valutazione della Commissione europea sul rispetto delle regole di bilancio da parte dell’Italia riguarderà gli impegni presi per il 2018 e gli obiettivi per il 2019 e non quelli per gli anni successivi. Insomma è il ragionamento di Bruxelles, l’impegno richiesto all’Italia di correggere il deficit strutturale per la manovra sull’anno prossimo rimane. E la Commissione, come è stato ribadito più volte negli ultimi giorni, ha tutta l’intenzione di farlo rispettare.

Intanto, Mentre il braccio di ferro tra Commissione e governo non si allenta, da Strasburgo il ministro per gli Affari europei, Paolo Savona, prova a rassicurare gli europarlamentari, dice che l’Italia “non è la Grecia” ed esclude categoricamente la sciagurata ipotesi di un default del debito italiano.

“La Bce, e in particolare Draghi, ha fatto veramente dei progressi. Vorrei un meccanismo per cui se un paese è sotto attacco, qualcuno offra uno scudo” ma “ritengo che non ci sia la minima possibilità che ci sia un default del debito pubblico italiano”, dice. “Non ho nessuna idea di intraprendere un’azione contro l’euro”.

Così Savona, secondo cui all’interno del governo il discorso di stare dentro l’Europa e l’euro “è uno dei punti cardine”. Quanto al condono fiscale che l’esecutivo è pronto a varare nella manovra, “lo chiamiamo pace fiscale, ma se si fa turiamoci il naso”, perchè’ con quelle entrate “siamo in grado di finanziare operazioni importanti, come l’intera Fornero”, con la quale il governo promette che saranno assunti due giovani per ogni pensionato che lascia il lavoro.

Fonte: agi.it (qui) Articolo di M. Mauggeri e SkyTg24 (qui).

Austerity, Europa, Politica

Galloni: “L’Europa sta dicento ‘Italiani, l’euro serviva per tenervi buoni, per non farvi crescere troppo e ora volete fare sviluppo? Ma che siamo matti?

Austerity, Economia, Europa, Politica

Italia, avviare il New Deal per non morire di Europa. Con buona pace di Cottarelli & Co.

L’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli è tornato a farsi sentire. Dopo aver visto sfumare la possibilità di sedere a Palazzo Chigi a capo di quello che, in assenza di accordo fra Lega e M5S, sembrava destinato a configurarsi come “governo del presidente”, sembra sempre pronto a fare le pulci alle proposte economiche dell’esecutivo Conte. Ecco quindi che nelle ultime ore, è tornato a definire irrealizzabili il reddito di cittadinanza, la Flat Tax e la riforma della Fornero. “Lo Speciale” ha chiesto un commento all’economista Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta”, influencer su Twitter e autrice di libri economici di successo. Quanto di vero o di sbagliato c’è nel pensiero di Cottarelli, già criticato da altri autorevoli economisti come Nino Galloni, Antonio Maria Rinaldi e Giulio Sapelli? «Quello di Cottarelli e di tutti gli economisti “allineati” al pensiero unico neoliberista, che trova nella Ue la sua compiuta realizzazione, è il solito approccio, come da contabile», sostiene Bifarini. «Si guardano unicamente i numeri di bilancio, senza nessuno sguardo sul futuro e sulla crescita del paese. L’unica preoccupazione è quella di rispettare i vincoli dettati da Bruxelles, ignorando che le loro ricette economiche fallimentari non fanno che peggiorare lo stato di salute di tutti i paesi nei quali vengono adottate».

Sul reddito di cittadinanza però sono molti ad avanzare dubbi effettivi sulla sua fattibilità – anche economisti come Sapelli, per esempio, non pregiudizialmente ostili a questo governo. «Per valutare il costo del reddito di cittadinanza occorre tener conto di come verrà realizzato, quanto si riuscirà ad agganciarlo a investimenti pubblici produttivi. Mai come in questo momento – sostiene Ilaria Bifarini – ci rendiamo conto di quanto il nostro territorio abbia bisogno di manutenzione e nuove infrastrutture. Se lo Stato, anche attraverso lo strumento del reddito di cittadinanza, ben strutturato e collegato ai centri territoriali per l’impiego, riuscisse ad avviare un nuovo “New Deal”, offrendo opportunità di lavoro alla enorme schiera di giovani disoccupati nel recupero del territorio e nel rilancio del prezioso settore del turismo, i benefici sul medio e lungo periodo sarebbero senz’altro superiori ai costi». Di fatto, aggiunge l’economista, si innescherebbe un circolo virtuoso capace di riportare l’economia sul sentiero della crescita. Finché invece «si ragiona con la miopia dell’obbedienza ai parametri contabili dell’Ue», si rivela impossibile uscire dal tunnel, nel quale Cottarelli e gli altri sembrano voler imprigionare l’Italia in eterno.

C’è chi vede all’orizzonte un autunno nero con l’assalto dei mercati e lo spread alle stelle? «Lo spread ha andamenti altalenanti che risentono di fattori contingenti, come la fine del quantitative easing e la crisi della Turchia e, ultimo, il giudizio delle agenzie di rating, che hanno provocato dei rialzi temporanei, che non sono comunque allarmanti», risponde Ilaria Bifarini, sempre nell’intervista rilasciata a “Lo Speciale”. «Ad ogni modo – aggiunge – essendo in un sistema a valuta unica in cui la politica monetaria non è prerogativa nazionale, finché il debito continua a salire, la minaccia (reale o presunta) dello spread continuerà a farsi sentire». Il problema, sottolinea Bifarini, è che – come provato dalla teoria e dall’evidenza in tutti i paesi in cui sono state applicate – le politiche di austerity provocano un aumento del debito stesso. «Un esempio plateale è quello della Grecia. Solo introducendo misure anticicliche capaci di stimolare la domanda e l’occupazione si può uscire da questa trappola». In altre parole: «Se vuole sopravvivere, l’Europa deve rivedere completamente le sue politiche di intervento, fornendo sostegno e garanzie a paesi che si trovino ad affrontare situazioni di crisi».

Urge un New Deal europeo, appunto, che permetta di «abbandonare una volta per tutte la logica “fault the victim” di cui la Germania è portatrice». E a proposito della politica di Berlino, direttamente connessa all’impazzimento dello spread italiano proprio quando serviva a detronizzare Berlusconi per imporre il “commissario” Monti, Ilaria Bifarini dichiara: «La crisi dello spread del 2011 è stato un vero e proprio golpe finanziario messo in atto dalla Deutsche Bank e architettato per attuare un cambio di governo in Italia». Oggi, per fortuna, la situazione è molto diversa: «Credo che sia l’attuale governo che il suo elettorato abbiano più esperienza e consapevolezza degli strumenti utilizzati dagli eurocrati per preservare il sistema economico e finanziario». Come dire: l’Italia sembra aver finalmente sviluppato precisi anticorpi politici. «Sarà dunque improbabile che si possa replicare una situazione analoga, anche se i rischi di speculazioni sui mercati sono forti, come ha avvertito lo stesso Giorgetti».

Fonte: libreidee.org

Economia, Europa, Legge di Bilancio, Politica

Def, Conte: “Spread in salita? Non fa piacere, ma quando i mercati conosceranno la manovra scenderà”. Moscovici: “E’ fuori dai paletti, ma no a crisi con l’Italia”. Risponde Salvini: “La manovra approvata è un passo verso la civiltà, i mercati se ne faranno una ragione”.

 

Il primo a parlare questa mattina, mentre i mercati davano già segnali di fibrillazione, è stato il commissario Ue agli Affari economici Pierre Moscovici. Che ha cercato di non aprire direttamente lo scontro: “Il provvedimento è fuori dai paletti Ue“, ha detto, “ma allo stato attuale non c’è interesse ad aprire una crisi con il governo italiano e nemmeno a far partire una procedura che porti a “sanzioni”. “Ogni euro in più di debito”, è stata però la sua valutazione, “è un euro in meno ai servizi”.

Una posizione cauta a cui ha replicato poco dopo il vicepremier M5s Luigi Di Maio cercando di tenere aperto uno spiraglio di dialogo: “Ora parte l’interlocuzione con l’Ue”, ha detto, “e con i grandi investitori privati e non abbiamo intenzione di andare allo scontro. Considero l’intervento di Moscovici interlocutorio, le preoccupazioni sono legittime ma il governo si è impegnato a mantenere il deficit/pil al 2,4% e vogliamo ripagare il debito”.

Nel primo pomeriggio è arrivato anche il commento di Giuseppe Conte, che ha definito la manovra”seria, meditata e coraggiosa: confidiamo che sia la ricetta giusta per la crescita e lo sviluppo sociale”. “Che lo spread oggi sia salito non fa piacere al presidente del Consiglio ma dobbiamo tenere conto che abbiamo finito ieri sera e non c’è stato neanche il tempo di una conferenza stampa per illustrare le linee essenziali e i dettagli: sono molto confidente che quando i mercati e gli interlocutori potranno conoscere nei dettagli la nostra manovra lo spread sarà coerente con i fondamentali della nostra economia”.

Chi non ha intenzione di mediare, almeno stando alle dichiarazioni di oggi, è il collega del Carroccio Matteo Salvini: “La manovra approvata è un passo verso la civiltà”, ha commentato, “i mercati se ne faranno una ragione”. E pure: “Se Bruxelles ci boccia, noi andiamo avanti“. Il “diritto al lavoro, alla vita, alla salute degli italiani vengono prima delle minacce europee. Tiriamo dritto”. E poco prima a Radio 24 il viceministro dell’Economia Massimo Garavaglia ha dichiarato: “E’ scontata la bocciatura di Bruxelles alla manovra”.

Fonte: ilfattoquotidiano (qui e qui)

Economia, Europa

Dal deficit ai fondi Ue: Italia e Francia a confronto

Roma e Parigi, nel contesto internazionale, non si distinguono per il forte andamento del Pil. Ecco il confronto su alcuni indicatori macroeconomici.

Durante il vertice sulla manovra a Palazzo Chigi, il vicepremier Luigi Di Maio ha dichiarato di ispirarsi al “modello Macron”, la situazione economica dei due Paesi è però diversa. La Francia ha un debito pubblico decisamente più basso dell’Italia, con un effetto positivo anche sullo spread con i tedeschi. Ma negli ultimi anni ha mantenuto un deficit molto più alto del Belpaese, sforando per tre anni, tra il 2014 e il 2016, il tetto del 3%. Nel 2018, poi, l’Italia ha concordato a fatica con l’Ue una flessibilità di 0,6 punti di deficit mentre la Francia – come ha rivelato un recente studio dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio – lo ‘sconto’, analogo per ampiezza, se l’è fatto da sola. Racconta molto il confronto dei numeri tra Roma e Parigi, due Paesi che, nel contesto internazionale, non brillano certo per il forte andamento del Pil. Ecco il confronto su alcuni indicatori macroeconomici.

Il debito pubblico

Per l’Italia il debito pubblico è un fardello pesantissimo. Le ultime stime del governo lo indicavano al 131,8 nel 2018 per poi scendere al 130,8 nel 2018. La Francia è a un livello molto più basso: le ultime stime Ue indicavano una previsione del 96,4% per quest’anno e un 96% per il 2019.

Lo spread con la Germania

È certamente l’entità del debito a fare la differenza per il differenziale dei titoli francesi e italiani con il benchmark tedesco. Lo spread francese nel luglio 2015 viaggiava sui 48 punti, a febbraio 2017 era salito a 78 punti e oggi è di nuovo giù, a 32 punti. Per l’Italia nel luglio 2015 lo spread era a 120 punti, nel febbraio 2017 a 200 punti, oggi è a 244 punti.

Francia sopra il 3% per tre anni, poi l’autoscontro

Con il debito così alto è chiaro che l’Italia è un sorvegliato speciale sui conti. L’attenzione di Bruxelles sulla Francia è invece stata certamente meno puntuale. Parigi ha così sforato la soglia del 3% negli ultimi anni: ha avuto un deficit al 3,9% nel 2014, al 3,6% nel 2015 e al 3,4% nel 2016. È poi sceso al 2,6% nel 2017. Negli stessi anni il deficit italiano è stato invece al 3,0%, al 2,6%, al 2,5% e al 2,3%.

L’autosconto sul deficit

Interessante la lettura del dato del 2018. Uno studio dell’Upb, l’ufficio parlamentare di bilancio, ha messo in evidenza che mentre l’Italia ha concordato una flessibilità dello 0,6%, ci sono altri due Paesi – la Slovenia e la Francia – che lo ‘sconto’ sul deficit se lo sono fatti da soli: “L’aggiustamento programmatico indicato per il 2018, ricalcolato dalla Commissione, è inferiore a quanto richiesto e addirittura pari a zero contro lo 0,6 punti percentuali nel caso della Francia”

PIL

Sia la Francia sia l’Italia non brillano per crescita economica. Per il Fondo Monetario il Pil italiano scenderà quest’anno a +1,2% (contro l’1,5% previsto) e a +1% nel 2019. Mentre per la Francia i valori si attestato rispettivamente a +1,8% quest’anno e +1,7% il prossimo.

Fondi UE

Il contributo dell’Italia al bilancio Ue nel 2017 è stato di 12 miliardi a fronte di 9,8 miliardi ricevuti tra i vari fondi e finanziamenti: con un contributo netto di circa 2,2 miliardi. La Francia ha invece dato 16,2 miliardi e ne ha ricevuti indietro 13,5 miliardi con un esborso netto di 2,7 miliardi.

Tasse, Francia batte Italia

Gli ultimi dati omogenei tra paesi vedono la Francia al primo posto per pressione fiscale tra i paesi europei, al 47,6%, superiore addirittura a Danimarca, Svezia, Finlandia. L’Italia è settima con un peso fiscale del 42,6%.

La Francia vince anche per produttività

Secondo uno studio della commissione Ue nel 2017, la produttività del lavoro italiana ha registrato un incremento pari a 1,1 punti percentuali rispetto al 2010. In Francia l’aumento è stato di circa 7 punti, facendo tornare i valori a livelli superiori al periodo dell’inizio della crisi.

Fonte: tg24.sky.it (qui)

Europa, Gran Bretagna, Immigrazione, Politica, Sinistra

L’altra Sinistra/1. UK, Corbyn (Labour): l’immigrazione di massa ha distrutto le condizioni dei lavoratori britannici.

Il leader del Labour Jeremy Corbyn dichiara esplicitamente quello che nel nostro paese una “sinistra” allo sbando non vuole ammettere: che l’immigrazione incontrollata serve a distruggere le condizioni del lavoro, sostituendo con manodopera sottopagata i lavoratori locali. A vantaggio unicamente delle imprese. Corbyn, immediatamente accusato di essere “ukippista” (e, si può immaginare, lo sarebbe di essere leghista qui da noi), fa una proposta razionale: l’immigrazione deve essere basata sui posti di lavoro disponibili e sulle capacità di svolgere quel lavoro. Per questo, ritiene indispensabile che con l’uscita dall’UE la Gran Bretagna esca anche dal mercato unico, che prevede la libera circolazione delle persone. Insomma, la Brexit a quanto pare ha schiarito le idee ai Labour, che pure erano per il Remain: meglio tardi che mai (a parte i molti lavoratori che ci hanno già rimesso il posto).

CIl leader del Labour ha dichiarato ad Andrew Marr che il suo partito vuole lasciare il mercato unico.

L’immigrazione di massa dall’Unione Europea è stata utilizzata per “distruggere” le condizioni dei lavoratori inglesi, ha dichiarato oggi Jeremy Corbyn.

Il leader del Labour è stato incalzato a proposito della posizione del suo partito nei confronti dell’immigrazione durante il programma televisivo di Andrew Marr. E ha ribadito la sua convinzione che la Gran Bretagna debba lasciare il mercato unico, sostenendo che “il mercato unico dipende dall’adesione all’UE… le due cose sono inestricabilmente legate“.

Corbyn ha dichiarato che il Labour sostiene invece un “accesso al libero commercio senza dazi“. Tuttavia, altri paesi che hanno stretto questo tipo di accordo, come la Norvegia, hanno accettato le “quattro libertà” del mercato unico, che includono la libera circolazione delle persone. Il parlamentare laburista Chuka Umunna ha condotto un tentativo in parlamento di far restare la Gran Bretagna nel mercato unico, sostenendo che il 66 per cento dei membri del Labour vogliono rimanere. Nicola Sturgeon, del SNP (partito nazionale scozzese, ndT), ha affermato che “l’incapacità del Labour di schierarsi dalla parte del buon senso sulla questione del mercato unico li renderà colpevoli del disastro della Brexit quanto i Tories“.

Perorando la causa dell’uscita dal mercato unico, Corbyn ha usato un linguaggio che raramente gli abbiamo sentito usare – accusando l’immigrazione di avere delle ripercussioni sulla vita dei lavoratori britannici.

Il leader del Labour ha affermato che anche dopo l’uscita dall’Unione europea, comunque resterebbero lavoratori europei in Gran Bretagna e viceversa. E ha aggiunto: “Quella che cesserebbe sarebbe l’importazione all’ingrosso di lavoratori sottopagati dall’Europa centrale, per distruggere le condizioni del lavoro, in particolare nel settore edile”.

Corbyn ha affermato che proibirebbe alle agenzie di pubblicizzare offerte di lavoro in Europa centrale – chiedendo loro di “pubblicizzarle prima nella loro zona”. Questa idea si basa sul “modello Preston”, adottato in questa località dalle autorità locali, nell’intento di dare la priorità alle imprese locali per i contratti del settore pubblico. Le norme dell’UE impediscono questo sistema, considerandolo una forma di discriminazione.

In futuro, i lavoratori stranieri “verrebbero da noi in base ai posti di lavoro disponibili e alla loro capacità di svolgerli. Quello che non permetteremmo più è questa pratica delle agenzie, svolta in modo piuttosto vergognoso – reclutare forza lavoro a salario basso e portarla qui, per licenziare la forza lavoro già esistente nell’industria edile, e poi sottopagarla. È spaventoso, e le uniche a trarne vantaggio sono le imprese”.

Corbyn ha anche affermato che un governo guidato da lui “garantirebbe il diritto dei cittadini dell’UE a rimanere qui, incluso il diritto al ricongiungimento familiare” e spererebbe in una disposizione reciproca da parte dell’UE per i cittadini britannici all’estero.

Matt Holehouse, corrispondente UK / UE per MLex, ha dichiarato che il modo di parlare di Corbyn era “Ukippista”.

Quando Andrew Marr gli ha chiesto se avesse simpatizzato per gli euroscettici – dopo avere votato in passato contro i precedenti trattati dell’UE, come quello di Maastricht – Corbyn ha chiarito la sua posizione sull’UE: è contrario a un “mercato libero senza regole in Europa”, ha affermato, ma ha sostenuto gli aspetti “sociali” dell’UE, come il sostegno ai diritti dei lavoratori. Tuttavia, non ha apprezzato il divieto di dare aiuti di Stato all’industria.

Sulle tasse universitarie, è stato chiesto a Corbyn: “Cosa intendeva quando ha detto che se ne occuperà?”. La risposta è stata che “riconosceva” che i laureati devono affrontare un enorme fardello per pagare le loro tasse, ma che non si impegnava a cancellare tutti i debiti degli anni precedenti. Tuttavia, il Labour una volta al governo abolirebbe le tasse universitarie. Se avesse vinto le elezioni del 2017, gli studenti nel 2017/18 non avrebbero pagato le tasse universitarie (o sarebbero stati rimborsati).

L’intervista ha anche riguardato il divario legato al genere negli stipendi della BBC. Corbyn ha affermato che il Labour punta a esaminare il problema del divario di stipendio legato al genere con audit in tutte le imprese e a introdurre una proporzione salariale – in un’impresa nessuno può ricevere uno stipendio più di 20 volte maggiore di quello del dipendente con il salario più basso. “La BBC deve guardare a se stessa… il divario retributivo è astronomico“, ha aggiunto.

Ha aggiunto che non pensava fosse “sostenibile” per il governo assegnare al DUP (partito politico protestante di estrema destra dell’Irlanda del Nord, ndT) un miliardo e mezzo di sterline e di aspettare con impazienza un’altra elezione.

Fonte: vocidallestero.it Aticolo di H. Lewis, 23 luglio 2017 (qui).

Esteri, Europa, Politica

Non è l’immigrazione che fa crescere la destra. L’analisi del voto in Svezia visto da sinistra.

Il successo elettorale dei Democratici svedesi è stato attribuito solo all’aumento della xenofobia. Ma dietro ci sono gli effetti della crisi e le riforme liberiste.

Possiamo non condividere in tutto le proposte di Åsa Linderborg, per la sua impronta di sinistra, ma l’analisi è impeccabile e presenta analogie con quanto avvenuto in Italia con le elezioni del 4 marzo scorso. Anologie che esprimono il profondo senso del fatto che ricondurre la “rivolta” del popolo contro l’establishment semplicisticamente alla questione delle fallimentari politiche migratorie dei governi di centrosinitra e/o alle richieste “assistenzialiste” provenienti dal mezzogiorno. Analisi approfondita che la sinistra, in particolare il Partito democratico, non ha ancora avuto il coraggio di fare alla luce del sole.

Alle elezioni del 9 settembre i Democratici svedesi hanno ottenuto un risultato inferiore al previsto, ma non hanno certo fallito. Quasi uno svedese su cinque ha votato per il partito di estrema destra, in un periodo in cui l’economia va a gonie vele. È il momento di individuare le responsabilità: com’è potuto succedere? Ci vuole una buona dose di autocritica se non vogliamo dire che dipende tutto dall’immigrazione, come fanno i Democratici svedesi. Ci sono molti altri fattori da valutare. In Svezia diciamo che la crisi finanziaria del 2008 non ha mai colpito veramente il paese, ma il suo impatto è stato pesante. Nell’industria sono scomparsi centomila posti di lavoro. La scuola, la sanità e la polizia hanno subìto tagli pesanti. Dieci anni dopo le conseguenze sono evidenti. Il tessuto sociale è lacerato.

Dopo la crisi, in una parte sempre più grande della popolazione si è difusa l’opinione che l’immigrazione è un problema. Diverse ricerche mostrano una tendenza simile in tutta Europa e negli Stati Uniti. È diicile creare consenso su una politica migratoria “generosa” se non si finanzia in modo altrettanto generoso lo stato sociale.

L’aumento vertiginoso delle disuguaglianze in Svezia non è avvenuto per caso, ma è il risultato di anni di decisioni politiche. Negli anni novanta le riforme neoliberiste del sistema pensionistico hanno portato centinaia di migliaia di persone alla disperazione economica. Mentre i lavoratori con redditi alti ottenevano generose detrazioni fiscali, i disoccupati hanno dovuto accettare qualunque oferta di lavoro per non perdere i sussidi. È stato proprio questo gruppo ad avvicinarsi di più ai Democratici svedesi. Le ricchezze dei miliardari svedesi sono quasi pari alla somma del patrimonio netto dello stato e di tutti i fondi pensione. Perché non ci chiediamo mai da dove vengono quei soldi?

In campagna elettorale i candidati non hanno dovuto rispondere a domande fondamentali su potere e ricchezza. È stato davvero giusto abolire le imposte patrimoniali? È giusto che le aziende private del settore assistenziale realizzino profitti così elevati? Quanta evasione fiscale può tollerare la Svezia? Se i mezzi d’informazione non parlano di queste cose, per i Democratici svedesi è un gioco da ragazzi additare i richiedenti asilo come “sanguisughe”.

La Svezia è un paese ricco, ma a che serve la ricchezza se non viene più ridistribuita? L’unico ad averlo capito è il Partito della sinistra, il vero vincitore di queste elezioni, che si è presentato agli elettori con una proposta precisa: colmare le fratture sociali.

Sono sempre di più le persone che mettono in discussione la sindrome di Maria Antonietta: un’apartheid sociale in cui chi ha un reddito alto non prova né empatia né si sente responsabile verso chi è meno fortunato. Se continuiamo a credere che in Svezia tutti abbiano più o meno gli stessi standard economici, resta una sola spiegazione al populismo di destra: una popolazione viziata non vuole spartire le sue ricchezze con i richiedenti asilo. Ma questo argomento può essere facilmente ribaltato: i viziati sono i difensori delle disuguaglianze, quelli che non vogliono pagare tasse più alte ma sbandierano idee progressiste secondo cui tutti gli esseri umani hanno lo stesso valore.

Enormi fratture attraversano le città e separano i quartieri ricchi di Stoccolma dal resto della Svezia. La lotta contro la chiusura del reparto maternità nel paese di Solleffteå è riuscita a ottenere l’attenzione dei mezzi d’informazione, ma di solito queste cose passano inosservate. Nelle periferie i servizi sociali continuano a peggiorare, ma la cronaca parla solo delle bande criminali. La capitale ha accentrato le risorse, mentre gli abitanti delle aree rurali sono etichettati come retrogradi ignoranti. Per spiegare l’attuale tendenza politica questo fattore è più importante della xenofobia. Il populismo di destra può crescere anche nei paesi dove non c’è immigrazione.

Per comprendere l’avanzata del populismo di destra bisogna fare qualche passo indietro, tornare alla caduta del muro di Berlino e al trionfo del neoliberismo. La proprietà pubblica è diminuita e si prendono meno decisioni condivise. In trent’anni i liberisti hanno soffocato la democrazia, consegnando il potere politico alle banche e alle grandi aziende. Non sorprende che la gente non creda più nella democrazia nel senso in cui la intendono i liberisti.

La gente non vuole meno democrazia, ne vuole di più. Secondo un recente studio otto svedesi su dieci pensano di non avere nessun controllo sulla politica. I cittadini sentono di essere liberi di scegliere, ma di non avere alternative, sanno che possono esercitare il diritto di voto, ma che non hanno voce in capitolo. Otto svedesi su dieci – la classe operaia e la classe media messe insieme – hanno ragione: abbiamo un’influenza marginale sulla politica. Ogni quattro anni andiamo a votare, ma durante la legislatura solo gli interessi di pochi saranno tutelati. L’Unione europea, gli accordi di libero scambio, gli esperti “indipendenti” e l’espansione della proprietà privata significano che non importa quale governo sia in carica: il liberismo è parte integrante del sistema. Per la democrazia questo è un problema più serio delle poche centinaia di nazisti che riempiono le cronache.

Non si può gridare che la democrazia è in pericolo e poi evitare il dibattito. I cambiamenti sociali provocano curiosità e inquietudine. Anche chi difende il diritto a portare il velo può chiedersi perché una bambina di otto anni debba vestirsi come la madre. Anche chi si oppone al divieto di accattonaggio può essere a disagio se ogni volta che esce da un negozio si trova di fronte una persona che chiede l’elemosina.

Il moralismo manicheo ha respinto domande complesse come fossero semplici pregiudizi, alimentando un clima angosciato, aggressivo e polarizzato. I mezzi d’informazione danno un’immagine unilaterale del mondo: un punto di vista ovviamente liberista, di classe media e centrato su Stoccolma. Si pensa che la gente sia insoddisfatta perché è “male informata”, ma il problema è che non viene neanche presa in considerazione.

 

Tempi duri

Non bisogna dare una pacca sulla spalla a chi ha votato i Democratici svedesi, come se non capissero cosa hanno fatto. Lo sanno bene. Hanno scelto consapevolmente una concezione del mondo di estrema destra. Questa situazione richiede umiltà. La Svezia è un paese fantastico, ma molti – anche chi non voterebbe mai i Democratici svedesi – hanno fondati motivi per essere insoddisfatti. C’è una sana rabbia che i Socialdemocratici avrebbero dovuto trasformare in energia, ma hanno preferito perdere le elezioni che portare avanti una classica politica socialdemocratica. Sono andati oltre le aspettative e sono ancora uno dei partiti socialdemocratici più forti in Europa, ma il loro risultato rispecchia la crisi del movimento in tutto il continente.

I Socialdemocratici sono corresponsabili per aver consentito che il liberismo demolisse quello che un tempo era il paese più ugualitario del mondo. Hanno portato avanti liberalizzazioni e privatizzazioni e non hanno afrontato i problemi emersi dopo la crisi. Non propongono soluzioni contro gli effetti della globalizzazione, il capitalismo predatorio, l’urbanizzazione estrema e le conseguenze della ripartizione dei grandi flussi migratori. Non hanno idea di cosa fare, e gli elettori se ne sono accorti.

Qualunque governo uscirà da queste elezioni, ci aspettano tempi duri. Né una coalizione di centrodestra sostenuta dai Democratici svedesi né una grande coalizione potrebbero risolvere i problemi sociali che hanno determinato questo risultato. Per fermare il populismo di destra non serve uno spostamento a destra, ma un’offensiva di sinistra. Una grande coalizione significherebbe il crollo totale dei Socialdemocratici alle prossime elezioni. All’opposizione Moderati, Democratici svedesi e Cristiani democratici formerebbero un blocco reazionario che metterebbe ai primi posti la lotta al multiculturalismo e un nazionalismo retrogrado. Il mondo imprenditoriale spinge già perché i Democratici svedesi vadano al governo nel 2022.

La sinistra ha dunque otto anni di tempo per rilettere e organizzarsi. Ovunque la generazione nata negli anni novanta, che ha conosciuto solo l’austerità, si sta mobilitando per rivendicare una società equa. Il compito della sinistra è creare un movimento critico, ampio, intelligente, vivace e abbastanza integro da afrontare le proprie debolezze. Giovani e anziani, operai e laureati, uomini e donne che si mobilitano per resistere all’egemonia neoliberista.

Fonte: Articolo di Åsa Linderborg (una scrittrice e storica svedese. Dirige la sezione cultura del quotidiano di sinistra Aftonbladet, Svezia) sul numero 1273 di Internazionele.

Europa, Immigrazione

Il Dalai Lama sull’immigrazione: “L’Europa ​appartiene agli europei”

Durante una conferenza tenutasi mercoledì scorso in Svezia, il Dalai Lama ha commentato le problematiche connesse alla crisi dei rifugiati, dichiarando che l’accoglienza dovrebbe essere solo temporanea e che l’Europa appartiene agli europei.

Stanno destando scalpore negli ultimi giorni le recenti dichiarazioni del Dalai Lama in merito alle ondate migratorie che ormai da anni interessano l’Europa.

Come riporta il quotidiano inglese The Independent, la massima autorità spirituale del buddhismo tibetano nonché leader del governo tibetano in esilio ha infatti affermato, durante una conferenza tenutasi mercoledì nella città di Malmö, in Svezia, che pur ritenendo fondamentale il dovere dell’accoglienza i rifugiati dovrebbero tornare nei paesi da cui provengono, in modo da consentire a questi ultimi di svilupparsi favorendo condizioni di vita migliori:“Accogliamoli, aiutiamoli, educhiamoli, ma alla fine dovrebbero tornare nei loro paesi.” -aggiungendo – “L’Europa appartiene agli europei”. Parole che hanno suscitato l’indignazione di molti utenti sui social media, i quali hanno accusato il Dalai Lama di essere un bigotto ed un ipocrita, facendo riferimento al fatto che egli stesso da quasi sessant’anni si trova nella condizione di essere un rifugiato. In seguito all’invasione cinese del Tibet, avvenuta nel 1959 in risposta ad una rivolta organizzata dal locale movimento di resistenza, il Dalai Lama fu infatti costretto a riparare nella città di Dharamsala, nell’India settentrionale, dove ancora oggi assieme al governo tibetano in esilio si occupa di sostenere i connazionali perseguitati dalle autorità di Pechino.

Non è tra l’altro la prima volta che Tenzin Gyatso – nome assunto dal monaco dopo l’incoronazione a Dalai Lama e che significa “oceano di saggezza” – assume posizioni conservatrici riguardo all’annosa questione dei migranti. Già nel 2016, in un’intervista concessa al quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung, affermò:“Anche da un punto di vista morale, credo che i rifugiati dovrebbero essere ammessi solo temporaneamente”, accusando l’Unione Europea di averne accettati in numero decisamente maggiore rispetto alle reali capacità di accoglienza ed aggiungendo: “Se guardiamo i profughi in faccia, soprattutto le donne e i bambini, proviamo compassione, ma d’altra parte nel frattempo sono diventati troppi. L’Europa e la Germania non possono diventare arabe. La Germania è la Germania”.

In questo caso oltretutto hanno rivestito particolare importanza il momento ed il luogo in cui l’ottantatreenne leader buddhista ha reso pubbliche queste sue ultime dichiarazioni. Malmö è infatti la città svedese con la maggior percentuale di immigrati tra la popolazione – secondo dati del 2018 circa un terzo dei residenti è nato all’estero – ed attualmente la Svezia sta vivendo un momento politico molto delicato in seguito ai risultati delle elezioni legislative svoltesi la scorsa settimana, in cui il partito nazionalista ed anti migranti Sverigedemokraterna ha incrementato i suoi consensi ottenendo il 17,6 per cento dei voti e 63 seggi nel parlamento nazionale.

Fonte: ilgiornale.it (qui)

Europa, Politica

Gli attacchi di Draghi contro l’Italia giallo verde? Debiti di riconoscenza verso i tedeschi e l’establishment europeo in crisi. Ma non solo.

Dopo la replica stizzita di Matteo Salvini, dopo l’intervento critico di Paolo Savona, arrivano la bacchettata di Giancarlo Giorgetti, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, e l’affondo di Alberto Bagnai, presidente della commissione Finanze del Senato, leghista e capofila degli euroscettici nella maggioranza. Destinatario: Mario Draghi. Se c’era ancora qualche dubbio sul fatto che il dogma dell’intoccabilità del governatore della Bce fosse ormai superato nell’Italia gialloverde, è stato presto dissipato.

Se Paolo Savona, pur considerando Draghi “un valente presidente”, contesta i suoi poteri al punto di dire che è stato “abile a superare i vincoli della sua azione”, Alberto Bagnai definisce “incresciose le esternazioni” del presidente della Bce di due giorni fa a Francoforte. “Finora l’Italia ha fatto danni con le parole, aspettiamo i fatti” aveva affermato Draghi, deludendo poi quanti – soprattutto tra i leghisti – chiedono un ombrello della Bce sul rifinanziamento del debito italiano dopo la fine del QE.

Parole che secondo Giancarlo Giorgetti si potevano evitare. “Le dichiarazioni sono dichiarazioni, i fatti sono fatti. Io lavoro e ragiono sempre su fatti e non su dichiarazioni. Ma mi rendo conto che sui mercati finanziari, particolarmente quelli che vivono di speculazioni, vivono, lavorano e speculano sulle dichiarazioni” afferma il sottosegretario Giancarlo Giorgetti. “Quindi – aggiunge – se ne devono fare meno possibile, magari meditate, ma giudicateci dai fatti, non da quello che si legge”.

Per il sottosegretario, in merito alle parole di Draghi e Moscovici sull’Italia, “ciascuno fa il proprio mestiere, nel senso che loro dicono le cose che pensano in difesa delle loro istituzioni, noi che siamo il Governo italiano diciamo le cose che pensiamo in difesa del popolo italiano. Cerchiamo di tradurre in modo responsabile – ha precisato Giorgetti – quelle che sono le volontà degli elettori che ci hanno votato poco tempo fa e che pare, dicono i sondaggi per quello che valgono, continuano a darci fiducia”.

Secondo Bagnai, invece, sono “particolarmente incresciose le esternazioni della Banca centrale europea, perché chi si occupa di mercati finanziari dovrebbe essere più riservato e, soprattutto, dovrebbe evitare di dare l’impressione (lo dico non nel nostro interesse di leghisti, ma nel suo) che siano le banche a dare la fiducia ai governi” ha detto Alberto Bagnai a Fiuggi, a margine dellla festa dell’Udc. “I cittadini di questo atteggiamento non ne possono più ed è anche per questo che ci hanno votato. Quindi, al dottor Draghi direi quasi grazie, se non avessi rispetto per le istituzioni”.

Le esternazioni del Presidente della Banca centrale europea sono insolite visto che l’obiettivo è un attacco diretto verso un Governo di uno Stato-membro dell’Unione europea e soprattutto dell’Unione monetaria. Da non trascurare che l’establishment europeo in crisi, composto dal sistema finanziario speculativo, dal Fondo Monetario internazionale, dalla Commissione europea e dalla stessa BCE, trova nell’appuntamento delle prossime elezioni europee l’opportunità di una possibile svolta per le istituzioni europee soprattutto se le forze populiste saranno tali da non consentire all’uscente maggioranza popolare e socialista di determinare in autonomia il rinnovo delle istituzioni europee, dalla BCE (che coinvolge soprattutto i capi di stato e di governo), alla Commissione europea (che non può prescindere dall’assenso del nuovo parlamento europeo) producendo di fatto una crisi di sistema tutta interna al funzionamento già complesso e farraginoso dell’architettura tecnocratica europea.

Le dichiarazioni a gamba tesa di Draghi, non solo mettono in evidenza l’insofferenza delle istituzioni europee per il Governo populista italiano, ma anche i primi passi di chi potrebbe scendere terreno politico per continuare a recitare il mantra neoliberista in una versione macroniana aggiornata e utile a mettere le basi, anche in Italia, dell’alternativa al blocco populista identificabile con l’attuale governo Conte sostenuto da Lega e M5S. Una risorsa quella di Draghi che l’establishment potrebbe spendere per riorganizzare l’intero campo popolare e socialista, che vede esauriti leader e temi, ma che dopo l’esito delle elezioni europee potrebbe non essere più competitivo nel contesto politico di molti Stati-membri. In attesa di questo sparti acque elettorale, che si annuncia di cambiamento dello scenario sia europeo, che quello dei singoli Stati-membri, ed in assenza di efficaci risposte politiche alle posizioni populiste, i mercati, e il dominio della speculazione, non staranno alla finestra. Cercheranno di condizionare con la forza i governi “ribelli” fino al momento della verità. La partita è appena iniziata…

Fonte: huffingtonpost.it (qui)

Europa

Ue, voto su sanzioni all’Ungheria: M5s a favore, Lega-Fi contrari. Scontro nel PPE.

Gli alleati di governo italiani a Strasburgo avranno due posizioni diverse: in primi si esprimeranno a favore dell’attivazione dell’articolo 7 sulle violazioni dello Stato di diritto, mentre il Carroccio e Forza Italia difenderanno il leader ungherese. Nel pomeriggio la telefonata di Silvio Berlusconi che conferma l’appoggio “all’amico”. Ma dentro il Ppe è scontro totale: la maggior parte degli eurodeputati non difenderà Budapest.

Il Parlamento Ue si spacca sulle sanzioni all’Ungheria. Il voto per attivare l’articolo 7 del Trattato Ue per “rischio di grave violazione dello Stato di diritto” è previsto a Strasburgo per il 12 settembre e si attende di capire come si comporteranno i singoli partiti. La prima rottura registrata è quella tra gli alleati di governo in Italia: se infatti la Lega ha deciso di difendere Viktor Orbán e quindi votare contro l’avvio della procedura di intervento, dall’altra i 5 stelle hanno fatto sapere che manterranno la linea già espressa in commissione e si esprimeranno a favore delle sanzioni. A fianco del Carroccio anche l’ex alleato di Forza ItaliaSilvio Berlusconi in persona, hanno dichiarato fonti del suo staff, ha telefonato a Orbán ribadendo la sua amicizia e l’appoggio al partito. Nessuna indicazione di voto per il momento dal Ppe, il Gruppo dei Popolari al Parlamento europeo di cui fa parte anche Fidesz, il partito di Orbán: fonti interne a ilfattoquotidiano.it hanno rivelato che la maggior parte dei loro eurodeputati diranno “sì” alle sanzioni. “La mia famiglia politica deciderà stasera sul voto di domani”, è stata la dichiarazione del Ppe Manfred Weber, “ma voglio dire a tutti che se non ci sarà la disponibilità a risolvere tutti i problemi da parte del governo ungherese, si farà scattare l’articolo 7.1”.

Orbán dal canto suo non solo si è difeso, ma ha anche rivolto il suo apprezzamento per le politiche migratorie dell’Italia: “Sulla migrazione sono disposto a cooperare con qualsiasi governo che vuole difendere le frontiere, non è per me una questione partitica, e devo dire che mi tolgo il cappello di fronte agli italiani per il coraggio che stanno avendo e hanno avuto per quanto hanno fatto”. Quindi, sempre intervenendo in plenaria a Strasburgo alla vigilia del voto: “Voi vi siete già fatti un’idea”, ha esordito, “e il mio intervento non vi farà cambiare opinione ma sono venuto lo stesso”. Quindi il premier ungherese ha accusato le forze “pro immigrazione”: “Non condannerete un governo, ma l’Ungheria che da mille anni è membro della famiglia europea. Sono qui per difendere la mia patria. L’Ungheria sarà condannata perché ha deciso che non sarà patria di immigrazione. Ma noi non accetteremo minacce e ricatti delle forze pro-immigrazione: difenderemo le nostre frontiere, fermeremo l’immigrazione clandestina anche contro di voi, se necessario”. E ha attaccato: “Ho accettato compromessi” sul sistema giudiziario e elettorale, ma “questa relazione vuole buttare alle ortiche accordi conclusi da anni”. “State dando un colpo grave al dialogo costruttivo”, sottolineando che la relazione del parlamento sull’Ungheria “contiene 37 errori”.

I 5 stelle invece voteranno per le sanzioni all’Ungheria. Una posizione nettamente opposta a quella di Salvini e, come confermato a ilfattoquotidiano.it, non è mai stata messa in discussione dai vertici M5s e che per il momento non crea particolari tensioni con il Carroccio ma piuttosto assumerà nuovi significati alla luce delle Europee. “Nessun problema se il M5s vota a favore”, ha dichiarato Salvini, “ognuno è libero di scegliere cosa fare: la Lega in Europa sceglie la libertà”. Il vicepremier del Carroccio, che solo poche settimane fa ha ricevuto il premier ungherese a Milano, aveva annunciato in mattinata il voto contrario dei suoi: “Non si processano i popoli”, è stata la motivazione, “e i governi liberamente eletti, soprattutto se vogliono controllare un’immigrazione fuori controllo”. La divergenza di opinioni tra Lega e M5s in proposito non è una novità: i 5 stelle nonostante il contratto di governo firmato con il Carroccio hanno più volte preso le distanze da Orbán ribadendo che i suoi incontri con Salvini sono politici e non istituzionali. Il primo a smarcarsi dal premier ungherese era stato il presidente della Camera Roberto Fico e a seguire anche i gruppi parlamentari e lo stesso Luigi Di Maio. Il voto questa volta più che mai, hanno specificato i 5 stelle, sarà nel merito e non politico. “Vogliamo denunciare questa Europa ipocrita”, hanno scritto i grillini in una nota. “Per noi Orbán, Macron, Merkel e Junker sono fatti della stessa pasta. Hanno lasciata sola l’Italia perché non aprono i loro porti e non accettano i ricollocamenti  dei migranti. Il Movimento 5 stelle è in Europa per difendere gli  interessi degli italiani”. Quindi nel merito: “La relazione della europarlamentare Sargentini”, quella sui cui l’Aula si esprimerà per attivare la procedura, “denuncia alcuni dati di fatto che non possono essere ignorati: diritti costituzionali messi a repentaglio, indipendenza della magistratura compromessa, diritti delle minoranze calpestati, corruzione endemica dell’amministrazione, conflitti di interessi di componenti del governo”. Tuttavia, hanno concluso gli eurodeputati M5s, “contestiamo l’ipocrisia dell’Unione europea che per agire aspetta che queste violazioni diventino gravi, sistematiche e reiterate piuttosto che prevenirle. Dov’era l’Europa quando Silvio Berlusconi veniva indagato, processato e condannato?”. E ancora: “Dov’era l’Europa quando veniva approvata a colpi di maggioranza la vergognosa riforma costituzionale Renzi Boschi Verdini che ammazzava i diritti dei cittadini?”.

Il voto sulle sanzioni all’Ungheria mette di nuovo a dura prova la tenuta del gruppo dei Popolari a Bruxelles. Quello di domani si preannuncia per loro un nuovo esame, in vista delle elezioni europee di maggio 2019, dopo la spaccatura provocata dalla candidatura a Presidente della Commissione del capogruppo a Bruxelles, Manfred Weber, che ha dichiarato di voler intavolare un dialogo con partiti e movimenti sovranisti europei. Alla fine dell’intervento di Viktor Orbán a Strasburgo gli applausi sono arrivati solo dall’ala dei sovranisti. Facce scure tra i tavoli del Ppe, questo perché ancora non è chiara la posizione da tenere: la volontà sarebbe quella di confermare il parere della commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni del Parlamento europeo che ha chiesto ai deputati di esprimersi in favore delle sanzioni, ma il leader ungherese è però un membro importante del gruppo e i Popolari non possono permettersi di perderlo proprio in vista delle elezioni europee. Questa indecisione la si percepisce anche dalle parole di Manfred Weber che nei giorni scorsi ha dichiarato di voler dialogare maggiormente con Orbán e il gruppo di Visegrád ma, allo stesso tempo, di non voler concedere sconti in materia di diritti umani, nemmeno ai membri del Ppe.

Il 12 settembre l’Aula voterà sul rapporto dell’europarlamentare olandese verde Judith Sargentini sulla situazione in Ungheria, che raccomanda al Consiglio di aprire la procedura che può portare, in teoria, a sanzioni per i Paesi che violano lo Stato di diritto. Sarebbe la prima volta che il Parlamento Europeo raccomanda l’apertura di una procedura simile (quella nei confronti della Polonia è stata avviata su iniziativa della Commissione), ma occorre una maggioranza dei due terzi dei votanti, non semplice da ottenere. Nel merito è intervenuto anche il vicepresidente della commissione Ue Frans Timmermans: “Sfortunatamente la Commissione europea condivide le preoccupazioni della relazione sull’Ungheria”.

Fonte: ilfattoquotidiano.it (qui)

Elezioni, Europa, Sovranisti

Svezia, exit poll: l’estrema destra al 19,2%, i socialdemocratici raggiunti dal centrodestra

Primi exit poll per le elezioni in Svezia: i socialdemocratici sarebbero testa a testa con l’Alleanza, la coalizione di centrodestra. I dati ancora molto provvisori vedono confronto che si gioca sui decimali, con un lieve vantaggio del centrodestra.

Per l’estrema destra, “Svezia democratica” si profila un risultato rilevante: il 19,2%, alle precedenti elezioni si erano attestati sul 12,9. Se gli exit poll fossero confermati sarebbe una crescita importante per il partito anti immigrazione che renderebbe estremamente difficile la formazione di una coalizione di governo. Per i socialdemocratici si tratterebbe del peggiore risultato in un secolo.

Socialdemocratici primo partito al 25,4% ma facendo registrare il peggior risultato da un secolo. Testa a testa tra i conservatori e il partito euroscettico dei Democratici Svedesi per il secondo partito. Sono i primi dati degli exit poll delle elezioni svedesi che delineano un quadro molto frammentato dell’elettorato, in cui il 41% ha cambiato partito dalle ultime elezioni nel 2014.

È ampiamente in testa il partito social-democratico nelle elezioni legislative in Svezia, molto più avanti dei conservatori e dell’estrema destra che delude le attese. Secondo il primo exit poll della tv privata Tv4, i socialdemocratici sarebbero al 25,4%, circa 5,5 punti percentuali in meno rispetto a quattro anni, nel loro peggior risultato da un secolo. Il partito anti-immigrati dei democratici per la Svezia sarebbe tra il 16,3% e il 19,2% dei voti, in terza posizione, molto sotto il 25% atteso.

Per il secondo posto è testa a testa tra l’estrema destra anti-immigrati ed euroscettica dei Democratici svedesi di Jimmie Akesson, data tra il 16,3 e il 19,2%, e i moderati 17,8%-18,4%.

I grandi vincitori alle elezioni in Svezia, stando agli exit poll, sono i piccoli partiti. In primis gli ex comunisti, Sinistra, che hanno quasi raddoppiato il loro ultimo risultato e si sono aggiudicati il 9,8%. Bene anche il partito di centrodestra, Centro, e i cristiano democratici che hanno incrementato di un terzo le preferenze del 2014.

Testa a testa, quindi, anche tra le due coalizioni: quella di centrosinistra (Socialdemocratici + gli ex comunisti + Verdi) al 39,2%, quella di centrodestra (Moderati + liberali + Centristi + Cristiano democratici) al 39,6%.

Fonte: live (qui)

Europa

Mattarella:«Le spinte dissociative sono anti storiche». Perché applicare la Costituzione è eversivo? L’ennesimo richiamo alla follia Europeista.

Il messaggio del presidente della Repubblica al Forum Ambrosetti di Cernobbio è dedicato all’Unione europea e alle elezioni 2019. «Occorre che l’Ue predisponga regole per affrontare in modo adeguato la questione migratoria»

Una illusione quella del Presidente Mattarella. Gli Stati stanno attraversando tensioni politiche dovute al rigetto dei popoli all’establishment come reazione alle politiche di austerity e dell’immigrazione incontrollata predicata dai partiti socialisti e socialdemocratici.

Un messaggio sull’Europa, in vista di elezioni che — ormai è sempre più evidente — potrebbero segnare un cambiamento epocale, con l’avanzata di partiti euroscettici (raccolti anche intorno alla fondazione The Movement di Steve Bannon, che da ieri annovera tra i suoi membri anche Matteo Salvini). Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella lo ha inviato al Forum Ambrosetti di Cernobbio, in corso sul lago di Como. Nel telegramma, il capo dello Stato fa riferimento ad «antistoriche spinte dissociative», da contrastare con l’antidoto di «una casa comune, solida e ben gestita», raccolta intorno a «valori fondamentali» da riaffermare: perché sono quei valori ad aver ispirato le «libere scelte» che hanno «portato all’Unione europea libertà, stato di diritto, democrazia, uguaglianza, solidarietà, rispetto della dignità umana». È questa — afferma Mattarella — «la prospettiva in cui è saldamente collocata l’Italia».

Dichiarazioni di un Presidente che valuta giuste le istanze di abbandono della sovranità nazionale a beneficio di un contesto europeo più forte e solido, pur senza avere un mandato costituzionale in questo senso. E di contro “antistoriche” ogni rivendicazione sovranista di difesa della carta costituzionale, in particolare neo suoi principi fondamentali.

Il nodo politico del messaggio

Ecco il punto politico del messaggio di Mattarella, che richiama le recenti tensioni aperte dal nostro esecutivo con Bruxelles, fondate sulla recriminazione di pesanti disparità nel bilancio tra denaro versato e denaro ricevuto dall’Italia. Una polemica che evidentemente il Quirinale non ha né gradito né condiviso, mirando più alto. Infatti, spiega il presidente, «per ben custodire il futuro dei nostri popoli è indispensabile riaffermare i valori fondamentali alla base delle libere scelte che hanno portato all’Unione europea: libertà, stato di diritto, democrazia, uguaglianza, solidarietà, rispetto della dignità umana». Vale a dire i «principi» sui quali è lievitata «la civiltà occidentale in una società in cui inclusione, tolleranza e giustizia sono stati gli obiettivi perseguiti in tutti questi decenni». Altro che muri, fili spinati, divisioni. È questa, insiste, vincolando la linea del governo, «la prospettiva in cui è saldamente collocata l’Italia».

Avere provato sulla pelle degli italiani l’austerity tradotta con la svalutazione del lavoro, nella disoccupazione, o nella chiusura delle micro e piccole imprese, dei piccoli professionisti, degli artigiani e delle partite iva, è certamente diverosa una contabilità dare/avere con l’Europa. Un sistema capitalista che non garantisce più prosperità ed una Europa che vorrebbe diventare unita più per le incapacità delle classi dirigenti degli Stati. Partiti popolari e socialisti attratti da un Governo europeo sempre più lontano dai popoli e sempre più stretto alla caviglia della grande finanza speculativa. E oggi è il tempo dei “conti”, non quelli della contabilità, quelli dei benefici garantiti dall’Ue da raffrontare con quelli di una libertà di azione che solo sovranità e Costituzione sono in grado di garantire.

La coscienza della posta in gioco

Lo sappiamo tutti, ormai: in questa fase «la posta in gioco è molto elevata». Perciò, come sostiene il presidente, «un’Europa all’altezza delle sfide che i popoli hanno dinanzi è la soluzione adeguata per evitare ai singoli Paesi di scivolare nell’irrilevanza e per consentire loro, invece, di partecipare autorevolmente alla stesura di nuove e più appropriate regole internazionali».

Fonte: corriere.it (qui)

Brexit, Esteri, Europa

Brexit, May dice no a un secondo referendum: “Non scenderò a compromessi”.

Il primo ministro britannico parla dalle colonne del Sunday Telegraph e ribadisce la volontà di rispettare l’esito del voto di giugno 2016, in cui milioni di cittadini britannici si sono espressi a favore dell’uscita dall’Unione europea.

LONDRA. Esclude la possibilità di un secondo referendum sulla Brexit: “Sarebbe un tradimento della nostra democrazia”, afferma il premier britannico. Ma difende anche il suo piano di accordo con l’Unione europea dall’ala più brexitiana del partito conservatore, che lo accusa di eccessive concessioni a Bruxelles: “Non farò compromessi che minacciano l’interesse nazionale del Regno Unito”, avverte la leader dei Tories.

Un colpo al cerchio e uno alla botte, con cui segnalare la ripresa dell’attività politica a Londra, dopo le ferie estive (che ha trascorso come lo scorso anno al lago di Garda) e una visita in tre Paesi africani. Un ritorno sulla scena che potrebbe essere decisivo, per la Brexit e per il suo stesso futuro politico.

Da un lato May deve concludere la trattativa con la Ue o ammetterne il fallimento, che comporterebbe un “no deal”, un’uscita senza alcuna intesa che sostituisca 40 anni di legami fra Gran Bretagna e Europa unita. Il tempo stringe: l’intenzione sarebbe di arrivare a un accordo entro il summit europeo di ottobre o al massimo di rinviarlo a novembre, perché poi i parlamenti devono ratificarlo per giungere al “divorzio” formale prima della scadenza prevista dalle norme, il 29 marzo 2019. Niente secondo referendum sull’accordo finale, ammonisce la premier in un articolo sul Sunday Telegraph. Ma le pressioni in tal senso aumentano: è di stamane la notizia che Simon Robertson, ex-presidente della Rolls-Royce e influente finanziatore dei Tories, si è schierato anche lui per un secondo referendum sulla Brexit.

Sull’altro fronte la leader conservatrice è attesa al varco dal congresso annuale del partito, appuntamento insidioso, sul cui sfondo il suo rivale interno Boris Johnson potrebbe preparare trappole per defenestrarla e prenderne il posto a Downing Street. Secondo indiscrezioni del Sunday Times, sir Lynton Crosby, ex-consulente elettorale di May e prima ancora consigliere di Johnson nelle due campagne per farsi eleggere sindaco di Londra, starebbe di nuovo lavorando per BoJo, come lo chiamano i tabloid, allo scopo di organizzare un voto di sfiducia contro il primo ministro.

Dietro l’angolo c’è dunque un autunno caldo, anzi caldissimo. Ma non solo per Theresa May. Sempre il Sunday Times riporta che nel Labour cresce la fronda contro Jeremy Corbyn, sull’onda delle accuse di antisemitismo nei suoi confronti anche da membri del partito. Ci sono voci di dimissioni di deputati e di raccolta di firme per un voto di sfiducia: sarebbe il terzo nei suoi confronti da quando è diventato leader tre anni fa. “Doppio golpe”, titola in prima pagina l’edizione domenicale del Times, riassumendo i problemi che accomunano il primo ministro e il capo dell’opposizione.

Fonte: laRepubblica.it (qui).

Europa

L’Europa discute di ora legale. Ma si disinteressa di migranti, austerity e disoccupazione.

Se la risoluzione dovesse passare “sarà ciascuno Stato a decidere se optare per l’ora legale permanente o per l’ora solare permanente”.

Il passaggio da ora solare a ora legale e viceversa potrebbe scomparire nell’Ue: il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, ha annunciato l’intenzione di proporne l’abolizione. In questo modo verrà mantenuta la stessa ora per tutto l’anno, ma resta una decisione degli Stati membri “se restare all’ora solare o all’ora legale”, in quanto “la scelta del fuso orario resta una competenza nazionale”.

La proposta definitiva della Commissione Ue è stata depositata venerdì 31 agosto. La misura dovrà essere approvata successivamente dal Parlamento europeo e dai capi di Stato e di governo, all’interno del Consiglio europeo.

Una questione di priorità. Juncker ha annunciato che la Commissione proporrà l’abolizione dell’ora legale, rispondendo con una straordinaria reattività ai risultati di una consultazione pubblica. “Lo chiedono i cittadini e lo faremo”, ha detto il presidente della Commissione, lasciando sbigottiti per primi i cronisti di Bruxelles, che in tanti anni di onorata carriera non avevano mai sentito pronunciare quelle parole dalla viva voce di Juncker.

Se il presidente della Commissione europea considera prioritario il tema dell’ora legale rispetto alle questioni relative alle politiche di austerity imposte con l’applicazione tedesca dei trattati, la costante disoccupazione ed il malgoverno europeo dell’immigrazione, significa che é arrivato per l’Unione europea di cambiare e riportare le lancette alla Comunità economica europea cancellando questo esperimento fallito che si chiama eurozona.

Intanto a Bruxelles il gruppo Eddf-M5S ha rilasciato il seguente commento:

Le dichiarazioni del presidente hanno lasciato basiti anche milioni di cittadini europei, che per anni hanno chiesto alla Commissione di abbandonare le vergognose politiche di austerità ricevendo in cambio derisioni e sfottò. E cosa dire delle risposte europee sui migranti? I Paesi del Sud Europa sono abbandonati nella gestione del fenomeno migratorio, chiedono solidarietà e ricevono silenzi.

Altro che “ce lo chiedono i cittadini e lo faremo”. Possiamo anche affrontare seriamente, e lo faremo, l’argomento dell’abolizione dell’ora legale, ma solo quando questa Unione di nome e non di fatto dimostrerà di poter affrontare, e risolvere, altre prove con altrettanta solerzia. Poi, se andiamo a guardare bene, l’abolizione dell’ora legale è richiesta in particolare dai Paesi del Nord e dalla Germania. E forse il punto è proprio questo: i cittadini di serie A. Perché quando loro chiedono, l’Europa fa. Veloce come un fulmine.

Fonte: tgcom24.mediaset.it (qui) e m5seuropa (qui)

Austerity, Economia, Europa

Abeille: “La regola del 3% di deficit su Pil fu una scelta casuale, senza ragionamento scientifico”

La regola del 3% di deficit sul Pil “fu una scelta casuale, senza nessun ragionamento scientifico”, “dovevamo fare in fretta” ed “e’ venuto fuori in un’ora”. Lo dice Guy Abeille, meglio conosciuto come ‘Monsieur 3%’, l’uomo che rivendica la paternita’ del limite imposto nel patto di stabilita’, che lavorava al ministero delle Finanze di Parigi.

In un’intervista a Repubblica afferma che la regola nacque dalla volonta’ di Francois Mitterrand, eletto all’Eliseo, di “fermare la deriva” del deficit lasciato da Valery Giscard d’Estaing. “Avevamo pensato in termini assoluti di stabilire come soglia massima 100 miliardi di franchi. Ma era un limite inattendibile data l’alta fluttuazione dei cambi e le possibili svalutazioni. Quindi decidemmo di dare il valore relativo rispetto al Prodotto interno lordo che all’epoca era di 3.300 miliardi. Da qui il fatidico 3%”.

La regola, spiega, aveva funzionato bene negli anni ottanta ed “e’ stato Jean-Claude Trichet, allora direttore generale del ministero del Tesoro, a proporre questa norma durante i negoziati per il Trattato di Maastricht. Per paradosso, la Germania ha adottato la norma del 3% di deficit sul Pil fino a farne uno dei punti centrali del Patto di Stabilita’. Trovo divertente che questa regola nata quasi per caso e oggi imposta dai tedeschi sia nata proprio in Francia”. “Immaginavo – conclude – che ci sarebbero stati degli studi piu’ approfonditi, in particolare quando il parametro e’ stato esteso all’Europa. E invece il 3% rimane ancora oggi intoccabile, come una Trinita’”

Le reazioni non si sono fatte attendere.

“Oggi, grazie a un’intervista rilasciata dal matematico Abeille, scopriamo che la regola del 3% del rapporto deficit-pil e’ stata una sua invenzione casuale ideata negli anni ’80 su richiesta di Mitterand. Coniata di sana pianta, e’ diventata la tavola dei comandamenti di Maastricht alla quale tutti i governi si sono ‘appecoronati’. La scienza continua a fare i suoi danni se non e’ supportata da senso critico e in Italia nessuno l’ha avuto”.

E’ quanto afferma in una nota il capogruppo di Fratelli d’Italia-Alleanza nazionale Fabio Rampelli.

“Desta sconcerto sapere che non ci sia nulla di certo in termini di politica economica e finanche di regole matematiche. Siamo nelle mani di apprendisti stregoni e di ‘avvelenatori di pozzi’ perche’ sappiamo tutti il peso avuto sul corpo vivo dell’Italia e dell’Europa ovvero su famiglie, imprese, Comuni – prosegue -. Sulla questione e’ pronta un’interrogazione al ministro Padoan cui comunque chiediamo di riferire in aula su questa paradossale notizia”.

Fonte: ilnord.it (qui)

Europa

Ecco il piano della Francia per prendersi la Difesa Ue

L’Europa può fare a meno degli Stati Uniti. È questa l’idea che circola da alcuni mesi nelle cancellerie del nostro continente, in particolare in Francia e in Germania. Ed è un’idea che adesso sta assumendo i caratteri di un vero e proprio programma strategico, soprattutto con l’avvento di Donald Trump alla Casa Bianca. La sua presidenza ha minato profondamente le relazioni fra America ed Europa. E adesso non ci sono più certezze sull’ombrello militare di Washington sul Vecchio Continente.

Macron vuole la guida della Difesa europea

Le ultime dichiarazioni di Emmanuel Macron sono molto interessanti. E fanno comprendere quali possano essere i movimenti politici e strategici che potrebbero coinvolgere il nostro continente nel prossimo futuro. Il presidente francese, riuniti 250 ambasciatori francesi all’Eliseo, ha parlato del rapporto fra Stati Uniti ed Europa affermando che “l’Europa non può più dipendere dagli Stati Uniti per la sua sicurezza“. Parole molto chiare, che non rappresentano solo una dichiarazione propagandistica ma un discorso programmatico.

La Francia non ha mai negato di voler essere la potenza militare per eccellenza del blocco europeo. L’idea di Parigi, anche con l’avvento dell’asse franco-tedesco nella guida dell’Unione europea, è sempre stata quella di condividere con Berlino la guida del continente basandosi su due ambiti diversi. La Germania avrebbe avuto il controllo finanziario e commerciale, la Francia quello militare. Con una condivisione del potere politico che per molto tempo è stato poi ampiamente delegato a Berlino.

Una scelta dettata anche dalla strategia impostata dai governi dei due Paesi in questi decenni. La Germania ha costruito la sua leadership europea presentandosi come potenza centrale ma non militare: un gigante economico ma non bellico. La Francia, invece, anche per un suo spirito di grandeur mai sopito, non ha mai negato di considerare le sue forze armate come parte integrante della propria politica internazionale.

I fattori che aiutano Parigi e Berlino

Oggi, l’allineamento di diversi fattori gioca a favore della spinta di Macron per un rinnovato interesse nella Difesa europea sganciata da quella americana. Innanzitutto perché sono gli stessi Stati Uniti a non volere più proteggere l’Europa. E Trump lo ha reso chiaro dall’inizio del suo mandato: sia riferendosi al budget da investire nella Nato sia, in generale, per quanto riguarda gli accordi fra Stati europei e Russia.

Washington sta polarizzando l’Europa, chiedendo ai Paesi del blocco di fare una scelta: noi o loro. E su questa alternativa, Macron e altri leader europei stanno riflettendo su una terza via: creare un blocco continentale. Un’idea che non piace al Pentagono né alla Nato, ma che interessa alla Casa Bianca, dal momento che l’attuale amministrazione non condivide l’idea per cui l’Europa debba essere protetta ad ogni costo.

A questa mancanza di volontà politica da parte americana, si aggiunge poi l’idea franco-tedesca di rafforzare la propria leadership europea di fronte ai movimento sovranisti che stanno ribollendo in tutta Europa. Con l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, con l’Italia che sta dimostrando di guardare altrove rispetto a Bruxelles, e con il Gruppo Visegrad che smuove l’intero fronte dell’Europa orientale, Francia e Germania stanno creando una sorta di nucleo europeista legato alla loro leadership. Soprattutto in vista delle elezioni europee, dove le politiche di Angela Merkel e Macron rischiano di essere spazzate via dall’onda di protesta che viene dalle periferie europee.

Ed è qui che entra in gioco la Germania, che da qualche tempo ha ingaggiato con gli Stati Uniti una vera e propria sfida sia politica che commerciale. Se per la Francia tutto questo è uno strumento per raggiungere la guida militare europea, e lo sta facendo anche in accordo con l’America, per la Germania l’obiettivo è un altro: dare un colpo all’assedio voluto da Trump.

L’apertura alla Russia

Le sanzioni alla Russia per colpire il gasdotto North Stream 2, unite alla guerra dei dazi minacciata continuamente contro l’Europa, sono stati un colpo durissimo. E Berlino ora vuole rispondere. Anzi, mentre si allontana da Washington, riprende vigore la sua Ostpolitik che guarda verso Mosca, dove Vladimir Putin non può che accogliere a braccia aperte una rinnovata “special relationship” fra Berlino e Mosca che riequilibri l’Europa verso Est dopo anni di guerra totale contro il Cremlino.

Anche la Francia, in questi giorni, ha avuto modo di riconsiderare la sua politica con la Russia. Lo ha confermato lo stesso residente Macron all’Eliseo. “Dobbiamo trarre tutte le conseguenze dalla fine della Guerra fredda”, ha dichiarato il presidente francese, che ha anche auspicato, a proposito del progetto francese di una Difesa europea, una “riflessione esauriente su questi temi con tutti i partner dell’Europa e dunque con la Russia“. Una dichiarazione che, se considerata insieme alla nuova partnership franco-russa sugli aiuti umanitari in Siria, fa capire come da Parigi qualcuno abbia aperto un credito nei confronti di Mosca. Prova ne è stato l’incontro nella capitale francese fra Sergei Lavrov, Valery Gerasimov e lo stesso Macron.

E l’Italia?

Il governo italiano ha subito osservato con attenzione a queste idee francesi, ma, come dichiarato dalla Difesa, ha accolto con gelo l’ipotesi teorizzata da Macron. Il motivo semplice: questa difesa progettata da Parigi è solo formalmente europea, ma sostanzialmente parigina. L’obiettivo di Macron è come detto guidare la politica di sicurezza europea. E questo ha fatto storcere il naso a molti Stati europei, Italia compresa.

Il fatto è che una base di Difesa comune europea esiste già, ed è la Pesco. In questo sistema, l’Italia è già entrata ed è su questa base che vuole costruire la Difesa comune europea. Su altri progetti sponsorizzati da Parigi, invece, il discorso è diverso. Parliamo di Difesa europea di Difesa francese imposta sull’Europa? È su questa differenza di vedute che cambia radicalmente la percezione del progetto.

Fonte: occhidellaguerra.it (qui)

Economia, Europa, Politica

L’UE sta apparecchiando l’uscita dell’Italia dall’euro

Se più indizi fanno una prova, allora è evidente che l’UE stia ponendo le condizioni per convincere il Governo giallo-verde a uscire dall’Euro.

Non si può leggere diversamente l’alzata di spalle della Commissione Europa di fronte all’appello italiano, che chiede nuove regole ispirate a principi di solidarietà e responsabilità che non siano a senso unico come avvenuto fino ad oggi.

Sul suo profilo Facebook il presidente Conte scrive: Nel corso della riunione convocata d’urgenza dalla Commissione Europea e che si è appena conclusa non è stato dato alcun seguito alle Conclusioni deliberate nel corso dell’ultimo Consiglio Europeo di fine giugno. Anzi. Da parte di alcuni Stati è stato proposto un passo indietro, suggerendo una sorta di regolamento di Dublino “mascherato”, che avrebbe individuato l’Italia come Paese di approdo sicuro, con disponibilità degli altri Stati a partecipare alla redistribuzione dei soli aventi diritto all’asilo, che notoriamente sono una percentuale minima dei migranti che arrivano per mare. Eppure è noto a tutti che l’Italia sta gestendo da giorni, con la nave Diciotti, una emergenza dai risvolti molto complessi e delicati. Ancora una volta misuriamo la discrasia, che trascolora in ipocrisia, tra parole e fatti. Alla fin fine conviene a Bruxelles che la nave Diciotti continui a sostare in mezzo al mare. Devono aver notato la fiducia di cui gode il Governo, e in particolare il ministro degli Interni: perciò i piani alti dell’UE non vedrebbero così male l’uscita dell’Italia, altrimenti inizierebbero una riforma delle politiche maggiormente invise ai cittadini italiani e a quelli europei.

Un secondo indizio viene dalle affermazioni di Jens Weidmann, presidente della Bundesbank e probabile successore di Draghi alla Banca Centrale Europea: E’ tempo di uscire dalla politica molto espansiva e dalle misure straordinarie, soprattutto prendendo in considerazione i possibili effetti collaterali. (…) Il forte peso degli alti debiti pubblici va ridotto: queste sono sfide che i singoli Stati devono affrontare per conto loro. Chi si esprime a favore della condivisione dei rischi deve anche essere pronto a cedere più sovranità giuridica ai livelli europei. Due punti sono estremamente chiari: stop al Quantitative Easing e maggiori poteri all’UE e meno agli Stati se vogliono barattare maggiore flessibilità. Suona come un avviso di sfratto per un Paese come l’Italia che ha beneficiato oltre misura del QE e col Governo attuale non ha alcuna intenzione di cedere ulteriore sovranità.

Il ministro Savona, intervistato da Bruno Vespa a Porto Cervo, ha dichiarato: C’è la possibilità che si scateni una speculazione finanziaria. Per colpa degli italiani o del governo? Non mi interessa, ma l’evento può accadere. Il governo si deve preparare e trovare una soluzione. Sono andato a parlare di questo con Mario Draghi e con altri, non con i russi. Ora il ministro Tria è in Cina per discutere. Un governo serio cerca di parare questa eventualità. L’Italia rispetterà i parametri, ma finché sarà possibile. L’economista precisa: Il piano B lo hanno tutti gli Stati, anche la Germania, nonostante le smentite della Merkel. Perché scandalizzarsi. È una sorta di ultimatum a Bruxelles: o ci lasciate governare senza mettere la manina, oppure siamo pronti a dirvi addio.

Sulla stessa lunghezza d’onda il ministro Salvini, che dopo la fumata grigia al nuovo piano immigrazione dell’UE ha detto: Gli italiani penso si aspettino buon senso, rigore e tranquillità: se in Europa fanno finta di non capire, come hanno detto giustamente Conte e Di Maio vedremo di pagare l’Europa un po’ di meno. Il contributo possiamo diminuirlo in quota parte con quello che l’Ue non fa danneggiando l’Italia, non solo sull’immigrazione. E sull’uscita dell’euro Salvini spiega: Non confondiamo i temi. Il discorso economico lo affronteremo perché c’è in preparazione il bilancio dell’Europa dei prossimi anni che è assolutamente insoddisfacente. Che vada ripensata ridiscussa, riscritta mi pare evidente. Oggi l’Europa ha dato l’ennesima dimostrazione di essere solo sulla carta. Quando si parla di condivisione a Bruxelles sono sordi.

Un’affermazione che prende tempo, ma che non esclude l’applicazione del piano B come ultima ratio se l’UE continua a predisporre le condizioni per costringere l’Italia a togliere il disturbo. Ricordiamo che l’Italia sembra aver ricevuto massima disponibilità da Trump per sostenerla sulla questione del debito, pur non sapendo bene come, a fronte di un appoggio alla politica pro-dazi; e si è persino menzionato un aiuto di Cina o Russia. Difficile comprendere quanto vi sia di vero, ma se l’Italia si sganciasse dall’Euro, il Governo dovrebbe comunque ridisegnare le partnership commerciali e finanziarie, nonché gli assetti geopolitici del Vecchio Continente.

Intanto, l’agenzia di rating Moody’s ha rivisto ulteriormente al ribasso la crescita dell’Italia per quest’anno e per il prossimo. Lo spread aumenta con Bini Smaghi, ex consigliere della BCE che domanda al Governo un atto di buona volontà per rasserenare i mercati finanziari: la pre-approvazione dell’articolo 1 del DEF dove si fissa il rapporto deficiti/Pil e di conseguenza il debito. Una proposta del genere potrebbe significare che UE e alta finanza abbiano già scaricato il Governo italiano e che solo inginocchiandosi ai loro piedi si potrà ricevere clemenza. Ma è qualcosa di troppo irrispettoso per un Paese fondatore dell’Unione Europea.

Fonte: sputniknews.com Articolo di M. Fontana (qui)

Europa, Immigrazione, Politica

Conte: A Bruxelles violato lo spirito di solidarietà dei Trattati. L’Italia non aderirà al Bilancio Ue in discussione.

“Come già annunciato dal ministro Salvini, i migranti ancora a bordo della nave Diciotti sbarcheranno nelle prossime ore. Ringraziamo l’Albania, l’Irlanda e la Cei per avere aderito all’invito a partecipare alla redistribuzione. Ne accoglieranno rispettivamente 20, 20 e 100.

Vogliamo rassicurare coloro che hanno espresso preoccupazione per le loro condizioni: abbiamo prestato loro continua assistenza sanitaria e fornito tutto il vitto necessario. Ricordo che siamo intervenuti a soccorrere il barcone nonostante questo navigasse in acque Sar maltesi e sia stata Malta a rivendicare per prima il coordinamento delle operazioni di salvataggio il 15 agosto scorso. Abbiamo assicurato l’immediato trasbordo a terra di 13 persone che versavano in condizioni critiche. Successivamente abbiamo assicurato lo sbarco di 17 minorenni non accompagnati. Oggi 11 donne e 6 uomini sono stati fatti sbarcare a seguito di ulteriori visite mediche.

Questo Governo esprime una politica sull’immigrazione rigorosa e coerente, ma non abbandona a se stesse persone che sono in pericolo di vita o comunque versano in condizioni critiche.

I numeri ci danno ragione. Gli sbarchi sono diminuiti dell’85%, se compariamo questo periodo di Governo con il medesimo lasso temporale dell’anno precedente.

Con questo Governo il Mediterraneo non è più il cimitero dei migranti senza nome. Le politiche dei governi precedenti non hanno impedito che circa 34.000 migranti trovassero la morte negli ultimi 15 anni.

Una politica rigorosa non solo vale a contrastare i traffici illeciti e le tratte “disumane” ma consente di evitare un così inaccettabile numero di vittime in mare.

L’incontro che si è svolto ieri a Bruxelles, in tema di immigrazione, e che si è concluso con un nulla di fatto, non è una sconfitta dell’Italia, come qualcuno superficialmente ha scritto. E’ una sconfitta dell’Europa. Non attesta solo un arretramento rispetto alle Conclusioni che tutti e ventotto i Paesi membri hanno liberamente sottoscritto nel corso del Consiglio Europeo dello scorso giugno. Attesta una palese violazione dello “spirito di solidarietà” che anima i Trattati e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Questo Governo si è presentato in Europa con le carte in regola. Come pure richiesto da molti Paesi membri, questo Governo sta perseguendo una politica sull’immigrazione ben più rigorosa rispetto al passato, in modo da evitare che le coste italiane costituiscano l’approdo indiscriminato dei migranti e, quindi, fattore di stimolo per i traffici illegali e in modo da evitare che i migranti possano ricollocarsi liberamente negli altri Paesi europei.

Questo Governo, inoltre, ha offerto un significativo contributo al fine di elaborare e pervenire a un serio progetto di politica europea – complesso, articolato, multilivello – in materia di migrazioni. Le Conclusioni condivise a fine giugno hanno costituito un buon compromesso tra le varie istanze dei Paesi membri, con la raggiunta consapevolezza della necessità di superare l’attuale regolamento di Dublino.

Nonostante questo, l’Italia deve prendere atto che lo “spirito di solidarietà” stenta a tradursi in atti concreti.

Ho scritto ieri che ne avremmo tratto le conseguenze. Chiarisco meglio: siamo al lavoro per porre una riserva all’adesione dell’Italia al piano finanziario pluriennale in corso di discussione. A queste condizioni, l’Italia non ritiene possibile esprimere adesione a un bilancio di previsione che sottende una politica così incoerente sul piano sociale. E’ questo il nostro contributo per far crescere l’Europa. Non possiamo accontentarci di uno spazio comune di mercato, di un’aggregazione di Paesi che si ritrovano sulla base di meri interessi economici.

Abbiamo dell’Europa una concezione più elevata. Siamo un Paese fondatore e anche per questo avvertiamo una maggiore responsabilità. Vogliamo che a tutti gli sforzi sin qui compiuti per edificare questo complesso edificio europeo sia offerta un’adeguata prospettiva di sviluppo, che possa esprimersi anche sul versante dei rapporti sociali.”

Fonte: Comunicato stampa del Presidente del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte (qui)