Europa, Germania

Se cade la Germania, cade l’Unione Europea

Riflessioni sulle possibili crisi e opportunità dei dati economico-politici della nazione tedesca.

La Francia è momentaneamente caduta in disgrazia, per di più in un momento politico decisamente propizio per quelle forze politiche che spingono in direzione del sovranismo. È propizio perché in concomitanza con il periodo che precede le elezioni Europee, che potrebbero determinare una fase più fertile di cambiamenti in senso reazionario o rivoluzionario a seconda di come le forze in gioco sapranno sfruttarlo.

E dunque oggi, dopo la Brexit e la protesta dei gilet jaunes, è la Germania l’unica vera stabile nazione promotrice del progetto europeista, nonostante la (ri)proposizione dell’asse franco-tedesco segnato dal patto di Aquisgrana. Essa cova al suo interno delle contraddizioni molto forti: basti pensare al grosso nodo rappresentato dalla situazione in cui versa Deutsche Bank con le sue scommesse in derivati per 48,26 trilioni di euro, pari a quindici volte il Pil della Germania. Se anche una piccola parte di queste scommesse dovesse risultare perduta, sarebbe un serio problema per la sua economia interna, nonché per la tanto declamata “tenuta dell’Euro”. Gli squilibri interni all’assetto tedesco sono sempre stati calmierati da interventi pubblici di una vera e propria cassa di Depositi e Prestiti (la KFW) i cui sovvenzionamenti vengono esentati dal computo del Deficit, mentre le altre Nazioni Europee venivano sottoposte a rigide limitazioni sull’interventismo pubblico.

Quello della Germania è un impero di carta, fragile, che gioca da vent’anni sulle opportunità offerte dai peggiori difetti della moneta unica e che ai propri vantaggi ha sacrificato il suo medesimo progetto: esempio paradigmatico è la conduzione della crisi greca. Non è esagerato affermare che se domani finisse l’Euro, la Germania sarebbe tra i maggiori imputati del suo fallimento. Ad un quadro complesso si aggiungono i recenti dati economici che hanno visto la Germania sfiorare la recessione nel 2018 e la revisione al ribasso di tutte le sue stime di crescita, di cui Il motivo principale consiste nel rallentamento dello sviluppo dell’economia cinese, che sta trascinando tutti i Paesi fortemente esportatori (la Germania lo è molto più dell’Italia, con un surplus commerciale da più di venti miliardi). Anche questo è un altro tema su cui riflettere: la distorta dipendenza dell’economia Occidentale dall’economia cinese, già manifestatasi nel crollo della Apple di inizio gennaio, molto sentita negli Usa e oggetto di campagna elettorale dell’attuale Presidente Donald Trump, che ha risposto con una politica sui dazi. Tutti indici di debolezza sul fronte della politica estera ed interna, per quello che è ad oggi il Paese cardine dell’Unione, che potrebbero segnare una svolta radicale, se propiziate da condizioni favorevoli.

Una forte crisi dell’economia tedesca significherebbe la fine dell’Euro? Si può dire che con le attuali variabili ciò è altamente probabile, ma che oggi tale crisi è poco più che un’ombra. Ciò che è sicuro, è che se l’amalgama “populista” non si darà una direzione chiara soccomberà, con nemici forse meno potenti di quello che sembrano, ma certamente molto più organizzati.

Fonte: L’Intellettuale Dissidente (qui) Articolo di P. Maruotti del18 febbraio 2019.

Euro, Germania, Politica, Unione Europea

La Germania crede nell’Euro finchè le conviene.

Nella bolla del benessere tedesco lo scontento di alcuni paesi europei per la moneta unica appare incomprensibile. A Berlino si temono però shock sistemici che cancellino i crediti della Bundesbank. Se l’Italia si avvita e trascina tutti, si torna al caro vecchio marco.

LA PIÙ GRANDE ECONOMIA NAZIONALE d’Europa è anche il più forte benefciario della valuta comune. Questa è l’opinione prevalente in Germania e spiega perché nello Stato tedesco sia ancora forte il con- senso all’integrazione europea e all’euro. Nonostante alcune palesi violazioni dei trattati europei, la maggior parte dei tedeschi non vede alcun motivo di pensare a un’eventuale uscita dalla moneta comune. Al contrario: i partiti tedeschi, a eccezione dei conservatori di Alternative für Deutschland (Alternativa per la Germania, AfD), fanno a gara a chi vorrebbe rafforzare l’integrazione politica europea. Soprat- tutto i Verdi si presentano come europeisti entusiasti e per questa loro posizione raccolgono molti consensi. Tuttavia, se l’andamento economico dovesse cambiare rotta e la Germania dovesse sobbarcarsi ulteriori rischi legati a debiti altrui, questo sostegno politico potrebbe mostrare i propri piedi d’argilla.

Spesso si dimentica che inizialmente i tedeschi nutrivano un grande scetticismo nei confronti dell’euro. Nel 1998 il 58% della popolazione tedesca si dichiara- va contraria all’introduzione di una valuta comune (1): l’euro era un progetto delle élite, non del popolo. Gli scettici avrebbero avuto ragione: i primi anni di moneta comune in Germania corrisposero a una crescita economica assai lenta e a una disoccupazione record. Per quattro anni, tra il 2002 e il 2005, l’economia tedesca rimase praticamente in stallo. Nel 2005 la disoccupazione era al 10,6%, cifra che non solo era superiore alla media dell’Eurozona (8,9%), ma era anche superiore alla disoccupazione in Italia (7,7%) e in Grecia (9,8%) (2). La Germania era il malato d’Europa. Il giornalista inglese David Marsh scrisse nel 2002 che l’economia tede- sca era come una nobile, vecchia Mercedes, bisognosa di una profonda revisione (3).

In Germania ci si chiese in quegli anni se il cambio, fssato tassativamente a 1,95583 marchi per euro, non fosse troppo alto. Un economista di fama come Hans-Werner Sinn, dell’Università di Monaco di Baviera, rilevò che quella tedesca stava diventando un’«economia da bazar», in cui non veniva più creata ricchezza. Sinn scrisse che i «lavoratori tedeschi [erano] i perdenti della globalizzazione» (4). Nel 2005 il cancelliere Gerhard Schröder uscì sconftto dalle urne. La responsabilità di governo fu allora assunta da Angela Merkel, che tuttavia trasse proftto dalle deci- sioni politiche prese dal suo predecessore.

Di questi dubbi oggi sembra non essere rimasta traccia. L’economia tedesca è considerata la locomotiva d’Europa: grazie alla sua fortissima concorrenzialità rie- sce a spazzar via tutti gli ostacoli sul proprio cammino. Malgrado alcune turbolen- ze, dal 2009 la Germania è cresciuta ininterrottamente: nel 2018 la disoccupazione è scesa ai minimi (3,5%), mentre paesi come l’Italia (11%) e la Grecia (20,4%) sof- frono per i molti senza lavoro (5).

In questo contesto, il robusto consenso alla moneta unica appare assoluta- mente comprensibile. La popolazione tedesca collega l’euro alla prosperità econo- mica e all’alto livello occupazionale. Ciò non implica che la politica della Banca centrale europea (Bce) sia sostenuta acriticamente. Ma a essere sempre più stigmatizzata è la «disinvolta» politica monetaria della Bce, non l’euro in quanto tale.

A partire dalla crisi fnanziaria, in Germania si sono levate forti critiche al salvataggio di altri Stati. Nella memoria restano in particolare gli aiuti concessi alla Grecia, disapprovati a più riprese anche da alcuni deputati del principale partito di governo (CDU). Tuttavia, queste critiche trascuravano spesso che non si stava sal- vando (tanto) la Grecia, ma i suoi creditori. Cioè soprattutto banche private tede- sche e francesi. Wolfgang Schäuble, il ministro delle Finanze dell’epoca, cercò di trasmettere alla popolazione tedesca l’impressione che i fnanziamenti concessi alla Grecia sarebbero stati prima o poi ripagati. In tal modo riuscì a placare i malu- mori che stavano sorgendo nei confronti della moneta unica.

Il 2015 è stato un anno decisivo per la Bce, che in questo periodo ha iniziato ad acquistare titoli pubblici degli Stati membri. Così facendo è andata incontro a notevoli rischi e si è resa dipendente dai governi e dalla loro politica fscale. A partire da questo momento, la Banca centrale – al pari degli altri creditori statali – è diventata ricattabile: gli esecutivi europei possono obbligarla a proseguire nella politica monetaria espansiva (denaro a buon mercato) con la minaccia di non ono- rare il debito. Inoltre, la motivazione addotta per giustifcare tale politica appare alquanto fragile: i presunti rischi di defazione erano già bassi nel 2015 e oggi sono praticamente scomparsi.

Probabilmente in nessun altro Stato dell’Eurozona la politica della Bce è criticata tanto come in Germania. Anche perché, sebbene Francoforte abbia annunciato che gli acquisti di titoli pubblici cesseranno nel 2019, non verrà ridotto l’alto stock dei titoli già acquistati. Si tratta di cifre notevoli: dalla primavera del 2015, l’Eurosistema ha acquistato titoli di Stato per 2 mila miliardi di euro. Alcuni osser- vatori tedeschi, come l’ex giudice costituzionale Udo Di Fabio, hanno disapprova- to questa scelta, perché secondo loro si sta aggirando il divieto – imposto dai trattati europei – di acquistare titoli pubblici degli Stati membri, o di fnanziarne direttamente i governi. Il Bundesverfassungsgericht (la Corte costituzionale tede- sca) ha chiesto perciò se esiste una differenza, all’atto pratico, rispetto all’acquisto di titoli di Stato sul mercato secondario da parte della Bce: i rischi legati ai fnan- ziamenti non gravano, in ultima analisi, su Francoforte?

Occorre sottolineare il rilievo assunto in questo dibattito dagli argomenti giu- ridici. I costituzionalisti tedeschi lamentano che il controllo democratico sulla Bce sarebbe insuffciente: se l’acquisto di titoli di Stato dovesse comportare un rischio d’insolvenza, gli Stati membri potrebbero essere chiamati a risponderne in solido. Detto altrimenti: non sono i singoli parlamenti nazionali, ma burocrati non eletti della Bce a contrarre rischi per le future generazioni. E se lo fanno dietro esplicito o implicito mandato politico, affermano alcuni critici tedeschi, dovrebbero allora essere modifcate le basi giuridiche della Banca centrale (6).

Si pone a questo punto la domanda se l’unione monetaria non sia stata concepita in modo sbagliato fn dall’inizio. Alcuni osservatori defnirono la valuta comune un castello di carte, perché non possiede i meccanismi necessari a reagire adeguatamente alle crisi fnanziarie.

In effetti, l’euro risente di problemi strutturali. I suoi architetti partirono dal presupposto che le prescrizioni di politica fscale dell’Unione sarebbero bastate a evitare crisi fnanziarie: se fossero stati rispettati i limiti del debito pubblico pregres- so e nuovo, non si sarebbero verifcate crisi nei singoli Stati membri. Questa rifes- sione manifestava tuttavia una grande ingenuità. L’autonomia fnanziaria dei gover- ni, insieme all’irrevocabilità – continuamente ribadita – dell’euro, fnivano con l’incentivare i singoli paesi a testare la disponibilità degli altri ad assisterli in caso di crisi. In ultima analisi, sono stati quanti andavano gonfando spensieratamente e irresponsabilmente la propria spesa pubblica ad avere vinto questa scommessa.

Tuttavia, non sarebbe corretto tacere sulle conseguenze negative che ciò ha avuto per la Grecia. Certo è che alcuni attori in Grecia approfttarono degli anni beati prima del 2010, trasferendo capitali all’estero in misura enorme per metterli al sicuro dal fsco greco. Le conseguenze di questo comportamento hanno dovuto pagarle anche coloro, tra i greci, che erano troppo poveri per trasferire capitali in Svizzera o altrove.

Inoltre, alla Bce mancava – e manca tutt’ora – una normativa per affrontare lo stato d’emergenza. In riferimento alla Repubblica di Weimar, Carl Schmitt dichiarò: «Sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione». Se all’inizio non era chiaro quale sarebbe stata l’istituzione europea in grado di agire in condizioni di crisi, presto divenne evidente che era proprio la Bce. A prescindere dall’esistenza o meno di alternative a tale delega di potere, la Bce resta oggi l’istituzione schmittianamente «sovrana» d’Europa, ma sottoposta solo a un blando controllo (7).

Durante la crisi è emerso come i presupposti del Trattato di Maastricht non fossero sostenibili. Le improvvisazioni a cui si è assistito hanno contribuito ad accrescere in Germania lo scetticismo sulla solidità dell’euro.

Altrettanto fallace era la supposizione che tutte le società europee fossero adeguate a convivere con un’unione monetaria rigida. Ma le preferenze sociali hanno un ruolo decisivo nella scelta dei regimi di cambio. A confronto con altri, l’euro è un sistema estremamente rigido, senza meccanismi di adeguamento. L’euro appare simile al gold standard nel periodo precedente alla prima guerra mon- diale. Lì, comunque, c’era sempre la possibilità di uscire temporaneamente dal sistema e di rientrarci in un secondo momento. Anche il Sistema monetario euro- peo (Sme) aveva tenuto in considerazione, almeno in parte, le diverse preferenze sociali, permettendo all’Italia un margine di oscillazione più che doppio rispetto agli altri paesi membri (+ 6%, contro + 2,25% degli altri paesi). All’euro, invece, manca qualsiasi fessibilità.

Nell’euforia degli anni Novanta (la Germania si era riunifcata, il comunismo era sconftto, la guerra fredda era fnita), le posizioni più prudenti non giocarono un ruolo importante. Uno sguardo alla storia del gold standard, tuttavia, avrebbe aiutato a comprendere meglio i rischi dell’unione monetaria. Accanto ad Argentina, Brasile e Cile, erano stati quattro paesi europei ad abbandonare temporaneamente quel sistema: Portogallo, Spagna, Italia e Grecia (8).

Oggi sono di nuovo in questione la stabilità dell’unione monetaria e i rischi provenienti dall’Italia. In Germania vengono discussi appassionatamente soprattutto i cosiddetti saldi Target 2. Nessun dibattito invece sugli sviluppi che hanno portato alla diffcile situazione economica attuale, proprio e soprattutto in Italia. Per molti osservatori internazionali è tuttavia chiaro che gli alti avanzi commerciali tedeschi hanno contribuito alla stagnazione economica in Italia e altrove. Invano il Fondo monetario internazionale e la Commissione europea invitano da anni la Germania a ridurre il proprio surplus. In ambito scientifco-accademico, da tempo alcuni osservatori stanno analizzando criticamente le conseguenze dei perduranti attivi commerciali. La grande dame della dottrina economica britannica, Joan Robinson, defnì una volta le economie nazionali con surplus commerciali «esportatrici di disoccupazione».

Il grosso dei politici e dei cittadini tedeschi, invece, non pensa che possa essere il proprio paese a destabilizzare l’Europa; piuttosto, si compiace della propria presunta superiorità. Solo con estrema lentezza la società tedesca inizia a comprendere che le molte crisi presenti in Europa potrebbero avere a che fare anche con il proprio mercantilismo. Ma in Germania si preferisce tapparsi le orecchie di fronte a questa argomentazione: la campionessa del mondo di export e di morale sembra vivere in un mondo a parte. La capacità di trovare un equilibrio tra i vari interessi in gioco non è completamente scomparsa, ma appare molto più fragile che in altre fasi dello sviluppo europeo.

Perciò molti osservatori non sono granché preoccupati per la sopravvivenza della moneta comune; temono piuttosto le conseguenze di una possibile perdita dei crediti della Bundesbank nell’Eurosistema. La Bundesbank vanta attualmente crediti verso la Bce per circa mille miliardi di euro, pari suppergiù a un terzo del pil tedesco. Ma in che misura sono pericolosi questi saldi Target 2, e perché esistono?

Gli esperti tedeschi stanno dibattendo su questi argomenti con inusuale durez- za. Alcuni, come l’economista di Colonia Martin Hellwig, negano che i crediti della Bundesbank abbiano una qualche rilevanza. Hellwig parla di un’«isteria del Target» tutta tedesca 9. Invece, per Hans-Werner Sinn (istituto Ifo di Monaco) questa posi- zione è una «mistifcante minimizzazione»: i Target 2, per Sinn, sono infatti una sorta di fdo concesso ad altri paesi, che con questi crediti possono acquistare beni e servizi 10. In compenso, la Germania riceverebbe un credito infruttifero e non ri- vendicabile legalmente verso la Bce. Ne consegue che se l’Italia abbandonasse l’euro, i debiti contratti da Bankitalia (circa 500 miliardi di euro) andrebbero molto probabilmente perduti, almeno in parte.

La nascita dei saldi Target 2 va ricondotta allo scetticismo dominante sia nell’Europa meridionale sia in quella settentrionale: le banche del Nord non vogliono elargire crediti al Sud, mentre numerosi europei del Sud non si fidano dei propri governi e cercano di portare i loro capitali altrove. Se le banche nordeuropee non avessero il grande timore di una crisi fnanziaria, le banche centrali nazionali non dovrebbero colmare questa lacuna.

Naturalmente questi trasferimenti di capitale sono del tutto legali in Europa. Diversamente dai periodi in cui il traffco di capitali era limitato in Europa e in altri paesi dell’Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), compresi gli Stati Uniti, oggi questi movimenti non confgurano illeciti. Ma la storia economica insegna che le crisi fnanziarie spesso si verifcano quando la popolazione non ha più fducia nel futuro del proprio paese. Ne è un esempio l’Argentina prima del 2002: chi poteva, trasferiva soldi in Uruguay o a New York. Il patriottismo dei patrimoni è storicamente un’eccezione.

Finora la Bundesbank ha cercato di placare le crescenti preoccupazioni. Johannes Beermann, che siede nel consiglio di amministrazione, ha ribadito nel luglio 2018 che i saldi Target 2 non costituiscono un problema, almeno fnché l’unione monetaria resta in piedi. Ma questo nessuno lo aveva messo in dubbio. Inoltre, continua Beermann, i crediti della Bundesbank sono verso la Bce, non verso singole banche centrali (11).

Nel 2018 si è proflata una battuta d’arresto nella lunga e continua crescita economica tedesca. La forte dipendenza della Germania dalle esportazioni si sta rivelando un rischio, dato che importanti paesi importatori – in primo luogo la Cina – si trovano ad affrontare un rallentamento economico. L’aspettativa domi- nante è che la Germania dovrà fare i conti con una crescita ridotta. Tuttavia, una grave crisi potrà verifcarsi solo se, contemporaneamente, si dovessero registrare una decisa riduzione del commercio mondiale, un Brexit caotico e un forte protezionismo statunitense.

La domanda è: tutto ciò metterebbe a rischio il sostegno politico all’euro?

Appare improbabile che una crisi economica, da sola, possa generare un rifuto dell’euro da parte della politica e della società tedesche. Ma un altro avvenimento potrebbe far sì che Berlino muti la propria posizione al riguardo: un’eventuale uscita dell’Italia dalla moneta unica.

A ottobre la Bundesbank si è chiesta che tipo di rischio il debito rappresenti per l’economia italiana. L’Italia ha bisogno di aiuti da parte di altri paesi europei? O è un paese in cui vivono cittadini relativamente benestanti, che non hanno bisogno di aiuti esterni? Le risposte fornite da Karsten Wendorff sono chiare: l’Italia non è un paese povero e non ha bisogno di aiuti. Piuttosto, gli italiani benestanti dovrebbero essere obbligati a investire parte del loro patrimonio in titoli di Stato. Con questi «titoli di solidarietà» i cittadini italiani sarebbero in grado di garantire per i debiti dello Stato italiano. Non si tratterebbe di una tassazione dei patrimoni, ma di un indirizzamento degli investimenti (12).

La posizione della Bundesbank rifette quella di numerosi osservatori tedeschi. L’alto livello del debito italiano viene considerato un problema risolvibile internamente. Questi osservatori rifutano perciò eventuali trasferimenti di capitale all’Italia o l’assunzione di rischi di credito. Anche il governo tedesco dovrebbe confrontarsi con queste posizioni, il che ovviamente vale anche per la persona che andrà a sostituire Angela Merkel. Non è chiaro quanto a lungo la cancelliera riuscirà a restare in sella, ma la sua perdita di autorità pare ormai irreversibile. A settembre non è riuscita a far rieleggere Volker Kauder come capogruppo dei cristiano-democratici; il suo successore, Ralph Brinkhaus, non cerca lo scontro, ma in materia di unione monetaria appare un sostenitore della responsabilità indivi- duale degli Stati europei. Probabilmente nel corso del 2019 Merkel dovrà abban- donare la guida del governo e sarà forse sostituita dalla nuova leader della CDU, Annegret Kramp-Karrenbauer. La prosecuzione della sua politica, così legata all’euro da esporre lo Stato tedesco a rischi considerevoli, appare dunque incerta.

Già oggi si discute di eventuali alternative alla rigida gabbia dell’unione monetaria. L’economista francese Jean Pisani-Ferry ha proposto nell’autunno 2018 di abbandonare il dogma di un’«unione sempre più stretta» (ever closer union) per sostituirla con un sistema più fessibile. L’Unione Europea dovrebbe concentrarsi su un’integrazione circoscritta ad alcuni ambiti irrinunciabili, gestiti da diversi «club». Uno di questi dovrebbe riguardare l’euro, il coordinamento fiscale, il controllo dei mercati e il superamento delle crisi fnanziarie (13).

La teoria di un radicale «alleggerimento» dell’Ue non trova ancora in Germania sostenitori di peso. I Verdi, oggi molto popolari, vogliono distinguersi come euro- peisti modello e hanno più volte chiesto un rafforzamento politico dell’Ue. Lo scorso agosto l’ex ministro degli Esteri Joschka Fischer, dei Verdi, ha prospettato due sole alternative: o l’Europa diventa una grande potenza con capacità di azione, mettendosi in tal modo nelle condizioni di affermare i propri interessi a livello globale, oppure è destinata al declino (14).

Finora in Germania non si comprende granché lo scetticismo mostrato da altri paesi rispetto alla politica europea. Il premier olandese Mark Rutte ha respinto nel giugno 2018 l’idea di un rafforzamento politico dell’Ue (15). Senza un’ampia coalizione non vi sarà alcuna spinta verso l’integrazione in Europa. Forse molti tedeschi benintenzionati non sono nemmeno consapevoli che, al di fuori dell’Eliseo e della cancelleria federale, non vi è oggi alcun sostegno di rilievo all’idea di un rafforzamento politico dell’Unione Europea.

La Germania si è ormai abituata all’euro, anche se questo non è divenuto un oggetto di culto come il marco tedesco. Jaques Delors disse che non tutti i tedeschi credevano in Dio, ma che tutti credevano nella Bundesbank. Oggi i cittadini tedeschi non mostrano altrettanta fiducia nella Bce. Una moneta instabile viene temuta ancora da molti quale fonte di turbolenze politiche. Una grave crisi in uno Stato membro e le connesse, eventuali perdite della Bundesbank potrebbero alimentare il consenso alla reintroduzione del marco.

 

Fonte: Articolo di Heribert Dieter traduzione di Monica Lumachi – Limes n. 12/2018.

1. «Mehrheit der Deutschen gegen den Euro», Tagesspiegel, 12/2/1998.
2. Economic Outlook 2011, Ocse, Annex Table 13, p. 235.
3. D. Marsh, «The German Engine is spluttering», Daily Mail, 9/9/2002.
4. H.-W. sinn, «Das deutsche Rätsel: Warum wir Exportweltmeister und Schlusslicht zugleich sind», Perspektiven der Wirtschaftspolitik, 7, 1, 2006, pp. 1-18.
5. Economic Outlook 103, Ocse, maggio 2018.
6. «Europa ist mehr als der Euro», Die Zeit, 31/8/2017, p. 26.
7. A. ritschl, «Wem gehört der Euro?», Neue Zürcher Zeitung, 15/7/2015.

8. Ibidem.

9. M. hellwig, «Wider die deutsche Target-Hysterie», Frankfurter Allgemeine Zeitung, 29/7/2018, p. 20.

10. H.-W. sinn, «Irreführende Verharmlosung: Die Target-Salden bringen Deutschland in Gefahr», Frankfurter Allgemeine Zeitung, 5/8/2018, p. 20.

11. J. BeerMann, «Wenn der Euro unverändert fortbesteht, ist Target kein Risiko», Die Welt, 20/7/2018, p. 15.
12. K. wendorff, «Rom sollte Italiener zur Solidarität verpfichten», Frankfurter Allgemeine Zeitung, 27/10/2018, p. 24.
Debito pubblico, Europa, Germania

La Germania bara, il suo debito vero è il 287% del Pil.

Stando ai conti pubblici, il grande malato dell’Eurozona non è l’Italia o un altro dei paesi oggi considerati periferici, addirittura ribattezzati “Pigs”, maiali, nel pieno della crisi del debito sovrano. La pietra dello scandalo è proprio la Germania di Angela Merkel, che continua a fare la voce grossa con la Bce e gli altri condòmini del Vecchio Continente. A raccontare al “Giornale” il lato oscuro di Berlino è Fabio Zoffi, veneziano, che da vent’anni vive con la famiglia a Monaco di Baviera. Zoffi conduce attività che spaziano dall’alimentare al Big Data: tra i suoi clienti Luxottica, Pirelli, Bnl, Banco Popolare e Benetton. «ll debito pubblico complessivo tedesco non è pari all’80% del Pil, come certificano i documenti ufficiali, ma al 287%», assicura il “venture capitalist” italiano, dopo essersi preso la briga di rielaborare tabelle e proiezioni statistiche. La colpa è del debito «implicito», che con approssimazione possiamo definire «nascosto», prodotto dalle costose riforme concesse dai governi che si sono succeduti negli ultimi decenni. Tutto questo, nel 2020 comporterà pesanti aggravi alla spesa per le pensioni, le assicurazioni sanitarie e l’assistenza ai malati cronici.

«Berlino è finora stata molto brava a nascondere la polvere sotto il tappeto, ma ormai è impossibile non vedere le gobbe. E anche in Germania gli economisti più capaci hanno iniziato a lanciare l’allarme», spiega Zoffi, citando tra i primi profeti di Fabio Zoffisventura proprio i presidenti dei due maggiori think-tanks economici del paese: Hans-Werner Sinn, temutissima voce dell’Ifo (per la verità più noto a sud della catena alpina per i giudizi tranchant che ci ha riservato) e Marcel Fratzscher, capo del Diw e autore del libro “Die Deutschland-Illusion” (l’illusione tedesca). A titolo di raffronto, scrive Massimo Restelli sul “Giornale”, il debito complessivo (implicito ed esplicito) italiano si attesterebbe invece al 160% del prodotto interno lordo. In sostanza, negli ultimi anni Palazzo Chigi e Parlamento italiano fatto “i compiti a casa”, mentre Frau Merkel e il Bundestag no. A contribuire al disastro annunciato della Germania, insiste Zoffi, è poi il suo quadro demografico squilibrato: è lo Stato con meno nascite al mondo.

L’altra falla aperta è rappresentata da un mercato del lavoro ormai composto per un quarto da precari (tra part-time, stagisti e mini-job). Ne consegue una distribuzione dei redditi sempre più squilibrata: nel 2011 il 10% della popolazione deteneva il 66% della ricchezza contro il 44% del 1970. Per non parlare delle grane del sistema del credito: le banche tedesche, sebbene tutte promosse ai recenti esami patrimoniali della Bce (ma Berlino ha ottenuto di esentare le problematiche casse di risparmio e le “landesbank”) da un lato «contano debiti complessivi per 8.000 miliardi di euro» (raccolta alla clientela, prestiti di varia natura e obbligazioni), e dall’altro – e questo sembra il problema principe – ci sono «impieghi in asset di qualità sovente discutibile: Abs, derivati, prestiti alle banche greche e spagnole». In pratica, avrebbero investito male (e con una certa dose di pericolo) il denaro raccolto: «Deutsche Bank assomiglia a un grande hedge fund», dice Zoffi.

L’imprenditore italiano sottolinea di essere tornato a investire sulle imprese dello Stivale all’apice della crisi, sfruttando i saldi provocati dallo sferzare dello spread. «Insomma – scrive Restelli – da uomo d’affari è convinto di aver fatto bene a credere nell’Italia: stima che le sue attività (il gruppo Ors, specializzato nel Big Data, la tenuta vitivinicola in Monferrato Noceto Marcel FratzscherMichelotti e l’azienda friulana di insaccati di selvaggina Bertolini Wild, insieme alle potenzialità di sviluppo del portale Gourmitaly) abbiano oggi un valore potenziale di 50 milioni. «La Germania – chiosa Zoffi – resta però un esempio per la penisola sotto molti altri aspetti fondamentali, sia per la qualità di vita dei cittadini, sia per la buona riuscita di un’impresa: a partire da un apparato pubblico-burocratico e da un sistema della giustizia che funzionano a dovere».

Lo stesso Zoffi è anche esponente del Movimento Roosevelt, fondato da Gioele Magaldi. Dalla sua analisi, scrive il vicepresidente Marco Moiso sul blog del movimento, emerge come, dal punto di vista del debito, la Germania sia “messa peggio” del Bel Paese. «Eppure – scrive Moiso – questa non deve assolutamente essere l’occasione per puntarle il dito contro», chiedendo anche ai tedeschi di «sottomettersi alla cura venefica dell’austerità, in nome di un miope e mal riposto senso di riscatto». Al contrario: meglio se anche in Germania si aprissero gli occhi, scoprendo cosa significano le ricette del neoliberismo. «La sconfitta della democrazia tedesca – in un contesto internazionale in cui la sovranità delle democrazie stesse viene progressivamente rimpiazzata dall’econocrazia neoliberista – significherebbe la vittoria di quei poteri apolidi che supportano il neoliberismo e hanno interesse nello svuotare le istituzioni pubbliche di democrazia sostanziale, in nome del mantenimento del valore assoluto del denaro da loro accumulato». Lo choc dei conti truccati? Ottima cura, se serve a tornare alla sovranità popolare, in ogni paese Ue. Missione impossibile? Si domanda Moiso: «È pronto, il popolo tedesco, a lottare insieme agli altri popoli europei contro l’econocrazia neoliberista e a favore di democrazia e politiche monetarie ed economiche sviluppate nell’interesse del popolo europeo sovrano?».

Fonte: libreidee.org (qui)

Elezioni, Esteri, Europa, Germania

Assia tragica per la Merkel

Le elezioni in Assia confermano la parcellizzazione del consenso politico, una tendenza che in Germania si è consolidata da oltre un anno. Anche nella regione di Francoforte continua l’emorragia di voti per i cristiano democratici (27,8 per cento) e per i socialdemocratici (19,5); i due principali partiti tedeschi perdono rispettivamente oltre dieci punti percentuali. Continuano la loro ascesa i Verdi (19,5) che anche qui hanno raggiunto un altro record. Sebbene in Assia fossero tradizionalmente forti (in questa regione giurò come primo Ministro verde nella storia della Repubblica Federale Joschka Fischer) mai avevano raggiunto queste percentuali. I Verdi sono indiscutibilmente i vincitori di queste elezioni perché senza di loro non è possibile, realisticamente, alcuna coalizione. Triplica i voti anche la destra nazionalista di AfD (12,5) che proprio in Assia si presentò per la priva volta in un’elezione regionale e conferma sostanzialmente il consenso ottenuto in questa regione alle elezioni nazionali di poco più di un anno fa. Dopo queste elezioni AfD è presente in tutti i Parlamenti regionali della Repubblica Federale. Aumentano i propri consensi anche i liberali che con il 7,9 diventano ora decisivi per la formazione del governo regionale. Discreto anche il risultato (6 per cento) della sinistra tedesca (Die Linke) che migliora il risultato di un punto percentuale ma non beneficia delle gravi perdite della SPD, a conferma che oramai i due elettorati sono molto distanti.

La distribuzione dei seggi permetterebbe forse al governo uscente nero-verde (CDU-Verdi) di continuare a governare ma con maggioranza limitata a un solo seggio. Probabilmente troppo poco per garantire un governo di cinque anni. Esclusa l’opzione della Grande Coalizione (CDU-SPD), in considerazione della scarsissima popolarità di cui gode attualmente in Germania, l’unica reale possibilità resta una coalizione Giamaica (CDU, Verdi e liberali) che improvvisamente torna centrale nella politica tedesca dopo il fallimento delle trattative per il governo nazionale di un anno fa. Il leader dei liberali Christian Lindner ha manifestato la disponibilità dei liberali ad una trattativa con conservatori e Verdi in Assia, ma ha, al contempo, attaccato ancora una volta la cancelliera Merkel. Qualunque trattativa deve essere in discontinuità con la politica di Angela Merkel (ha invece elogiato l’altra coalizione Giamaica nel Land dello Schleswig-Holstein). Proprio Lindner ha letto il risultato in Assia come un chiaro messaggio di sfiducia alla cancelliera (e alla Grande Coalizione). Una dichiarazione che non deve essere piaciuta al Presidente uscente del Land e leader della CDU in Assia, Volker Bouffier, un fedelissimo della Cancelliera.

Il risultato delle elezioni in Assia, nell’immediato, non metterà in discussione il governo di Berlino ma la posizione di Merkel e della SPD è sempre più debole. Per il destino della Cancelliera bisognerà aspettare il 7-8 dicembre quando si svolgerà il congresso della CDU ad Amburgo. Diversa la posizione della SPD che si trova in una delle più difficili crisi della sua storia e ha ormai perso la dimensione di partito di massa che nella storia della repubblica tedesca le ha garantito un ruolo e una funzione centrale. La leader Andrea Nahles non ha lasciato intendere che la Spd intende concludere l’esperienza della Große Koalition a Berlino ma ha annunciato che domani presenterà un piano per rilanciare l’attività di governo. La Grande Coalizione tedesca continua a non trovare pace.

Fonte: huffingtonpost.it (qui) Articolo di U. Villani-Lubelli