Concorrenza sleale, Economia, Unione Europea

Paesi Europei dell’Est: la concorrenza sleale che danneggia l’Italia

ROMA – “Lascio l’Italia e ritorno in Polonia perché ormai qui non ho più lavoro e come me sono andati via, negli ultimi quattro anni, moltissimi polacchi. Il nostro Paese è in forte crescita e abbiamo speranza di ricostruirci una vita”. La storia di Magda Gyzov, una donna polacca di quarant’anni che, dopo diciotto anni vissuti in una piccola cittadina alle porte di Roma, ha deciso di lasciare l’Italia per ritornare in Polonia, è una storia che fa luce sulle molte contraddizioni di un’Europa che sta creando enormi squilibri all’interno degli stessi Paesi membri.

Ma cosa è accaduto negli ultimi venti anni per cui Paesi come l’Italia o la Spagna che hanno vissuto una forte immigrazione di persone che provenivano dall’Est Europa, ora vengono sorpassate proprio da quegli stessi paesi dell’Europa orientale da cui milioni di persone erano andate via?

È accaduto che dalla fine degli anni ‘80, con la caduta del muro di Berlino, la Germania ha puntato il suo sguardo verso i Paesi centrali e dell’Est (PECO – Paesi dell’Europa Centrale e Orientale) e con la fine dell’Unione Sovietica avvenuta nel 1991 ha fatto leva sulla sua forza economica per diventare la testa di ponte di una nuova egemonia in un’area che va dalla Repubblica Ceca all’Austria, all’Olanda, alle Repubbliche Baltiche, all’Ungheria, Polonia, Croazia, Slovenia e Slovacchia.

È accaduto poi che paesi come l’Italia, la Francia, la Spagna hanno anche dato il lasciapassare perché ciò accadesse dando il via libera ad una diminuzione di finanziamenti europei verso l’area del Mediterraneo a tutto vantaggio verso le aree di interesse della Germania.

Già negli anni ‘90 il Consiglio d’Europa ridusse del 35% i finanziamenti verso i Paesi Mediterranei proposti dalla Commissione per il periodo 1992-1996 incrementandoli verso la zona est-europea. Ma questi aiuti sono poi aumentati di anno in anno.

Il caso Polonia

Un esempio per tutti è proprio quanto accaduto in Polonia, paese confinante con la Germania e quindi strategico per l’apertura di nuovi mercati economici e finanziari verso la zona est europea. Il Paese è soprannominato la regina dell’Est ed è lo Stato che più di tutti ha beneficiato di una pioggia di aiuti europei dal 1989 ad oggi.

  • Nel 2004-2006 ha ricevuto circa 14,2 mld di euro dei quali 5,2 mld sono stati utilizzati per l’ammodernamento della rete dei trasporti che, sottosviluppata, aumentava i costi delle merci. Geograficamente la Polonia è il punto di passaggio per tutte le merci in transito fra Russia, Bielorussia, Ucraina e i tre stati balcanici con il resto dell’Europa.
  • Nel quinquennio 2007-2013 ha ricevuto dall’Unione Europea 81,2 miliardi di Euro. Nel bilancio europeo 2007-2013 la priorità dell’UE è stata quella di riavvicinare gli standard di vita dei nuovi Stati membri alla media europea.

Questa pioggia di aiuti finanziari dell’Unione Europa hanno permesso una forte crescita in termini di aumento delle infrastrutture, calo della disoccupazione e aumento dell’export. Oggi la Polonia è un paese in fortissima crescita. È la più grande economia orientale dell’UE e la produttività è seconda solo al Giappone. Attira il maggior numero di investimenti stranieri e sono presenti grandi multinazionali come la Hyundai, la Volkswagen, la Peugeot, la Nestlé e molte aziende italiane come la Fiat, l’Unicredit, la Ferrero, la Indesit, la Mapei. Multinazionali attirate dalle condizioni vantaggiose e da un salario mensile lordo di €881. La crescita del Pil è stata del 5,4 % (2004-2008) e del 2,2% nel 2013 a causa della crisi dell’area euro mentre la disoccupazione si è dimezzata in 10 anni passando dal 15,2% nel 2004, anno di ingresso nell’UE, al 7,7% nel 2014. Si calcola che grazie ai fondi europei sono stato creati, tra il 2004-2006, 320mila nuovi posti di lavoro (il 38% del totale) e che le imprese sono cresciute del 58%.

In totale sono state aiutate 2,6 milioni di polacchi grazie all’Unione Europea. E, ancora, sono stati creati sessanta nuovi parchi industriali e scientifici e oggi la Polonia è ancora un cantiere in costruzione. È l’unico paese dell’UE a non essere mai entrato in recessione dal 2008 e vanta anche un debito pubblico molto basso pari al 50,1% del Pil nel 2014.

Con questi numeri è facile immaginare perché la Polonia sia diventata meta di migranti. E non solo di polacchi che ritornano in patria, ma anche di giovani qualificati dell’Europa meridionale schiacciata dal debito, dalla recessione e dall’iper-rigore alla tedesca. Varsavia è considerata la nuova Berlino.

Non solo, dunque, cresce l’Europa del Nord, ma anche quella dell’Est entrata a far parte in blocco in Europa nel 2004 grazie alla enorme spinta politica della Germania. In quell’anno l’Unione Europea inglobò l’Estonia, la Lettonia, la Lituania, la Polonia, la Repubblica Ceca, la Slovacchia, la Slovenia e l’Ungheria oltre a Malta e Cipro dell’area Mediterranea. In un sol colpo entrarono a far parte dell’Unione Europea ben otto paesi dell’Est spalancando così le porte ad una valanga di soldi, presi ovviamente dai contribuenti di tutti i paesi europei, e destinati alla rinascita di questi paesi. Ma ciò che risulta inaccettabile è che questi aiuti sono stati elargiti senza obbligare i paesi a sottoscrivere memorandum o politiche di austerità poiché, non facendo parte dell’Eurozona, non sono sottoposti ai vincoli della BCE.

Concorrenza sleale a danno delle nostre economie

E cosa significa tutto questo? Significa che in Europa si è creata una situazione di concorrenza sleale per cui viene avvantaggiata enormemente un’area a totale discapito di altre aree.

I paesi dell’Est d’Europa sono stati trasformati dalle multinazionali europee in un processo di delocalizzazione industriale e produttiva in cui si realizza a basso costo del lavoro. In tal maniera una parte del tessuto industriale dell’Europa Mediterranea si è delocalizzata verso nuove aree d’integrazione dell’Unione Europea, dell’Est Europa o verso il centro dell’Europa.

Il caso Electrolux

Il caso emblematico avvenuto in Italia della multinazionale svedese Electrolux chiarisce molto bene quello che sta accadendo. Nel 2014 l’azienda minaccia di chiudere uno dei quattro stabilimenti con sede in Italia per trasferire la produzione in Polonia poiché, come spiega l’amministratore delegato, Ernesto Ferrario, durante un’audizione al Senato “Il divario crescente di competitività rispetto a Polonia e Romania ha portato una migrazione di volumi di circa il 60% che vengono prodotti nell’Est Europa. Questo riguarda un fenomeno progressivo che non vede un arresto. In Francia e Spagna è quasi scomparsa la produzione dell’elettrodomestico, quindi il fenomeno è abbastanza chiaro”. Insomma, la differenza di costo di 30 Euro tra una lavatrice prodotta in Italia e la stessa lavatrice prodotta in Polonia, legittima l’azienda a minacciare i lavoratori italiani ad un taglio drastico dei salari di circa 130 Euro al mese attraverso la riduzione delle ore lavorate da otto a sei, il blocco dei pagamenti delle festività, la riduzione del 50% delle pause e dei permessi sindacali e lo stop agli scatti di anzianità. Tutte misure che si chiede vengano applicate ai quattro stabilimenti italiani. A conti fatti, bisogna lavorare di più per aumentare la produzione e guadagnare di meno. Insomma, il conto della concorrenza sleale, frutto di una politica che viene da lontano e che ha messo l’uno contro l’altro paesi Europei, viene presentata ai lavoratori che devono farsi carico dell’enorme differenza del costo dei salari tra un Paese Europeo che fa parte dell’eurozona e un Paese Europeo che invece è fuori dall’Eurozona, come appunto la Polonia. E la politica che dovrebbe assumere quel ruolo nobile e importante di essere al servizio della collettività per tutelarla, resta schiacciata dagli interessi delle multinazionali al punto che nei giorni in cui aumentò la protesta dei dipendenti dell’Electrolux che non ci stavano ai ricatti dell’azienda, l’allora Ministro dello Sviluppo Economico Flavio Zanonato dichiarò che: “I prodotti italiani nel campo dell’elettrodomestico sono di buona qualità ma risentono dei costi produttivi, soprattutto per quanto riguarda il lavoro, che sono al di sopra di quelli che offrono i nostri concorrenti: è necessario dunque ridurre i costi di produzione”. A maggio 2014 la dura battaglia avviata dai sindacati chiuse la vertenza Electrolux con un accordo che sarà accettato dall’80% dei lavoratori e in base al quale resterà aperto lo stabilimento di Porcia in provincia di Pordenone a fronte di una riduzione dei permessi sindacali del 60%, alla decontribuzione dei contratti di solidarietà, a finanziamenti per la ricerca e a una maggiore flessibilità del lavoro. L’obiettivo dell’accordo è abbattere di 3 euro l’ora i costi degli impianti, in modo da renderli competitivi con quelli polacchi, come richiesto dall’azienda per non de-localizzare. La forte mobilitazione dei lavoratori insieme all’attenzione della Regione Friuli-Venezia Giulia hanno comunque consentito il raggiungimento di un risultato a metà strada tra le richieste dei lavoratori e quelle dell’azienda. Fatto sta che i dipendenti si sono dovuti in gran parte adeguare alle condizioni imposte dall’azienda poiché la concorrenza che arriva dai paesi dell’Est è talmente forte che, in un libero mercato, non ci sono strade alternative che sottomettersi alla logica del capitalismo.

Aiuti europei insieme a riforme strutturali hanno permesso alla Polonia di raggiungere dei livelli di benessere molto elevati, scalzando addirittura la Gran Bretagna in alcuni settori come l’istruzione. Ma oltre alla Polonia chi è il Paese che ha più beneficiato di questa crescita? Ovviamente la Germania che è diventato il principale partner economico, commerciale e industriale della Polonia a scapito della Russia con un interscambio pari a 37,10 mld di Euro contro la Russia pari a 11,76 mld di Euro. Ma la Germania è anche il primo partner per l’Ungheria, la Repubblica Ceca e le Repubbliche Baltiche. Dunque, Berlino gode indirettamente degli aiuti che l’Unione concede a Varsavia, che ritornano in territorio tedesco sotto forma di ordini commerciali e commesse. E ora la strategia della Merkel sembrerebbe essere quella di compattare i paesi della Nuova Europa intorno alla centralità del ruolo tedesco nell’UE soprattutto perché in diversi paesi dell’Europa dell’est sta crescendo la convinzione che l’avvenire economico non sia più indissolubilmente legato all’UE, soprattutto in seguito alla crisi economica.

Fonte: Tiziana Alterio

Economia, Europa, Politica, Unione Europea, Verso le elezioni europee

La crisi che verrà, cambierà ancora lo scenario politico interno. E l’Europa franco-tedesca sarà sempre più forte.

Riprendo un articolo di Roberto Marchesi apparso sul sito de il Fatto quotidiano (qui) dal titolo “Questo ciclo economico è alla fine. Un’altra recessione è alle porte”. Ma anche altri annunciavano la recessione nel 2019. Nella speranza che la recessione resti tecnica e non si traduca in una nuova crisi economica, segno della chiusura del ciclo economico di crescita. Dimenticavo un crisi ora ci colpirebbe in modo drammatico non essendo come sistema paese riusciti a ritornare alla situazione pre-crisi 2008. Un dato è incontrovertibile, la recessione tecnica conseguenza di diversi fattori, tra i quali l’insufficienza delle politiche della precedente legislatura e del Governo Gentiloni troppo appiattite sui modelli imposti di austerità, consente, nostro malgrado di verificare se le misure messe in campo dal Governo del cambiamento sono state adeguate e sufficienti o dovranno essere implementate sforando quel limite anacronistico del 3% imposto da Bruxelless. D’ora in poi verificheremo cosa il Governo Conte sarà in grado di fare per affrontare la recessione e capire quali correttivi saranno adottati alla politica economica gialloverde. Spero sicuramente in una manovra correttiva, ma non di aumento delle imposte, semmai di espansione, a deficit, della spesa produttiva e degli investimenti necessari per stimolare l’economia in recessione. Un anno bellissimo lo ha definito il Presidente Conte, lui è consapevole che saremo pronti a osannarli se ci salveremo, ma anche pronti a spazzarli via se falliranno. E’ indubbio che le crisi economiche hanno già fatto vittime illustri. Nel 2008 la grande crisi ed il governo Berlusconi in carica proprio dal 2008 è finito con Governo in vitro guidato da Monti. Siamo nel 2019 e la recessione tecnica, rischia di diventare una seconda crisi che metterà a dura prova i debiti sovrani. Ma Draghi non interverrà prontamete. Attenderà che la crisi si evidenzierà in modo chiaro prima di proporre un nuovo QE alle cui condizioni gli Stati non metteranno ostacoli. Altra cessione di sovranità, in cambio di una ombrello protettivo. Uno scenario che speriamo sia scongiurabile. L’Europa delle banche sarà pronta ad approfittarne e vorrà la rivincita sui populismi. Arriverà la proposta di Debito pubblico europeo (di figli e figliastri ovviamente). E l’accordo di Aquisgrana tra Francia e Germania recentemente siglato sarà messo in atto. Saranno loro a governare il debito pubblico dell’area euro. Saranno loro a pretendere un”Unione europea a due velocità. Un’Europa che illusoriamente si presenterà con due facce, ma il risultato non sarà altro che quello che è già prestabilito, un ulteriore passo verso l’integrazione europea a guida franco-tedesca, dove la parte tedesca continuerà a guidare le politiche europee e la parte mediterranea continuerà a restare su quel piano inclinato quanto basta per non scivolare nell’abisso. Un colonialismo interno vestito da cooperazione solidaristica. Ma il punto è il seguente: la nostra attuale classe politica si accoderà o farà saltare il tavolo?

Quando si parla di borsa e mercati, parlare di “fine di un ciclo” significa innanzitutto dire che una burrasca per i risparmiatorista arrivando. In questa occasione non si tratterà di una semplice “correzione” (riaggiustamento dei valori, nda) ma sarà certamente una fase recessiva probabilmente lunga e pesante, visto che, oltre ai fenomeni soliti (di seguito descritti), questa avrà caratteristiche globali molto più ampie e contemporanee. Sarà perciò impossibile, nello spazio breve di questo articolo, descrivere compiutamente l’intero intreccio di tutti questi fenomeni, e le responsabilità di chi li governa, ma colgo l’occasione di un chiarissimo articolo pubblicato questo mese dalla popolare rivista americana Fortune, sotto il titolo: “The end is near for the economic boom” (La fine è vicina per il boom economico), per suonare anche qui le sirene, perché quando una crisi arriva negli Usa diventa sempre globale.

Vediamo dunque quali sono questi indicatori economici che fanno scattare l’allarme.

Il primo è il Treasury yield curve (vedi grafico sotto), quello che segna la differenza tra il rendimento delle obbligazioni di medio-lungo periodo da quelle a breve scadenza. E’ un classico: quando questo indicatore arriva all’inversione, cioè quando i bond di breve periodo danno rendimento maggiore di quelli a lunga scadenza, significa che il mercato è arrivato al punto di “correzione” ovvero: l’ottimismo deve essere sostituito dalla prudenza.

L’altro sicuro indicatore che preannuncia l’inversione di tendenza, e l’imminente entrata in recessione, è quello della disoccupazione.

Davvero curioso questo indicatore, perché è come guardarsi allo specchio, ti vedi al contrario di come sei in realtà e di come ti vedono tutti gli altri. Quando esso segnala il massimo del bel tempo significa che è in arrivo la tempesta! E’ davvero strano, ma finora non ha mai fallito!

L’anomalia sta (forse) nel fatto che, essendo un indicatore molto seguito anche a livello popolare, il bassissimo livello dei disoccupati consente all’indice della “confidenza”, cioè il gradimento popolare, di volare alto anche se in realtà, proprio sul piano economico, segnala “brutto tempo in arrivo” a causa dello squilibrio che si viene a creare per l’eccessivo ottimismo.

Un indicatore che invece tutti capiscono è quello dell’indebitamento, sia pubblico che privato che sta salendo senza freni e senza alcun serio motivo. Geoff Colvin, l’autore dell’articolo di Fortune citato sopra, attribuisce questa imprudenza all’eccesso di confidenza, ma sulla crescita della spesa pubblica la responsabilità (anzi, l’irresponsabilità) non può essere d’altri che di Trump, che evidentemente cura altri interessi invece che quelli della nazione.

Ma anche l’indebitamento privato è arrivato ad un livello preoccupante, e non otterrà grandi benefici dalla “flat tax” di Trump, dato che non ce n’era bisogno. Infatti le imprese, mediamente, si sono indebitate senza che ve ne fosse reale bisogno dato che il loro boom economico dura da decenni avendo attraversato senza gravi danni tutte le recessioni incontrate. “Bonanza” è cominciata per loro da Reagan in poi e dal 1997 (anno della completa liberalizzazione delle banche) la media annuale degli utili (fino al 2017) è stata del 7,2% (indice S&P).

Non sapendo come investire proficuamente quella “manna” dal cielo optano in gran parte sul “buy-back”, cioè l’acquisto di azioni proprie che, pur dando maggiore solidità finanziaria all’impresa (spesso non necessaria), non trova poi fattivo utilizzo imprenditoriale. Sono come la medicina data a chi non ne ha bisogno. Finirà col far male invece che bene.

Infatti, con una disoccupazione così bassa questa orgia di utili inutili produrrà solo inflazione, che la Banca Centrale (la Fed) sarà disarmata a quel punto a contrastare, perché Trump sta già usando dissennatamente tutti gli strumenti di politica economica al solo scopo di produrre (per se stesso) “armi di distrazione di massa” senza benefici reali per l’economia e per la gente, che anzi viene sempre più mortificata dalle sue scelte strampalate.

Persino Bernanke, l’ex presidente Fed repubblicano che si è trovato nel 2008 proprio nel vortice della prima “Grande Recessione” della storia economica, e ha trovato nella sperimentazione su larga scala del Quantitative Easing la via per accompagnare coerentemente il presidente Obama fuori dalla crisi, ha avuto parole di forte critica per Trump: “Questi stimoli all’economia arrivano nel momento sbagliato, Wile E. Coyote is going to go off the cliff” (mentre Willy Coyote vola giù dal precipizio).

Ci sarebbe ancora molto da dire ancora sulle politiche di Trump: la guerra dei dazil’autarchial’arroganza politica con cui vuole trattare nemici e alleati allo stesso modo, ecc. ecc. ma qui non ho più spazio. Questo ciclo economico va ad esaurirsi proprio nel momento peggiore. Ci sono già tutti i segnali della depressione in arrivo (ma non aspettatevi, avverte Geoff Colvin, che siano gli economisti a suonare la sirena, “loro non lo fanno mai!”), tuttavia, inspiegabilmente, la cosa non sembra interessare l’amministrazione Trump.

Tra pochi giorni (il 15 settembre) saranno dieci anni esatti dal grande crollo in Borsa del 2008 che ha accompagnato il fallimento di Lehman Brothers. Speriamo che la storia non si ripeta.

Euro, Germania, Politica, Unione Europea

La Germania crede nell’Euro finchè le conviene.

Nella bolla del benessere tedesco lo scontento di alcuni paesi europei per la moneta unica appare incomprensibile. A Berlino si temono però shock sistemici che cancellino i crediti della Bundesbank. Se l’Italia si avvita e trascina tutti, si torna al caro vecchio marco.

LA PIÙ GRANDE ECONOMIA NAZIONALE d’Europa è anche il più forte benefciario della valuta comune. Questa è l’opinione prevalente in Germania e spiega perché nello Stato tedesco sia ancora forte il con- senso all’integrazione europea e all’euro. Nonostante alcune palesi violazioni dei trattati europei, la maggior parte dei tedeschi non vede alcun motivo di pensare a un’eventuale uscita dalla moneta comune. Al contrario: i partiti tedeschi, a eccezione dei conservatori di Alternative für Deutschland (Alternativa per la Germania, AfD), fanno a gara a chi vorrebbe rafforzare l’integrazione politica europea. Soprat- tutto i Verdi si presentano come europeisti entusiasti e per questa loro posizione raccolgono molti consensi. Tuttavia, se l’andamento economico dovesse cambiare rotta e la Germania dovesse sobbarcarsi ulteriori rischi legati a debiti altrui, questo sostegno politico potrebbe mostrare i propri piedi d’argilla.

Spesso si dimentica che inizialmente i tedeschi nutrivano un grande scetticismo nei confronti dell’euro. Nel 1998 il 58% della popolazione tedesca si dichiara- va contraria all’introduzione di una valuta comune (1): l’euro era un progetto delle élite, non del popolo. Gli scettici avrebbero avuto ragione: i primi anni di moneta comune in Germania corrisposero a una crescita economica assai lenta e a una disoccupazione record. Per quattro anni, tra il 2002 e il 2005, l’economia tedesca rimase praticamente in stallo. Nel 2005 la disoccupazione era al 10,6%, cifra che non solo era superiore alla media dell’Eurozona (8,9%), ma era anche superiore alla disoccupazione in Italia (7,7%) e in Grecia (9,8%) (2). La Germania era il malato d’Europa. Il giornalista inglese David Marsh scrisse nel 2002 che l’economia tede- sca era come una nobile, vecchia Mercedes, bisognosa di una profonda revisione (3).

In Germania ci si chiese in quegli anni se il cambio, fssato tassativamente a 1,95583 marchi per euro, non fosse troppo alto. Un economista di fama come Hans-Werner Sinn, dell’Università di Monaco di Baviera, rilevò che quella tedesca stava diventando un’«economia da bazar», in cui non veniva più creata ricchezza. Sinn scrisse che i «lavoratori tedeschi [erano] i perdenti della globalizzazione» (4). Nel 2005 il cancelliere Gerhard Schröder uscì sconftto dalle urne. La responsabilità di governo fu allora assunta da Angela Merkel, che tuttavia trasse proftto dalle deci- sioni politiche prese dal suo predecessore.

Di questi dubbi oggi sembra non essere rimasta traccia. L’economia tedesca è considerata la locomotiva d’Europa: grazie alla sua fortissima concorrenzialità rie- sce a spazzar via tutti gli ostacoli sul proprio cammino. Malgrado alcune turbolen- ze, dal 2009 la Germania è cresciuta ininterrottamente: nel 2018 la disoccupazione è scesa ai minimi (3,5%), mentre paesi come l’Italia (11%) e la Grecia (20,4%) sof- frono per i molti senza lavoro (5).

In questo contesto, il robusto consenso alla moneta unica appare assoluta- mente comprensibile. La popolazione tedesca collega l’euro alla prosperità econo- mica e all’alto livello occupazionale. Ciò non implica che la politica della Banca centrale europea (Bce) sia sostenuta acriticamente. Ma a essere sempre più stigmatizzata è la «disinvolta» politica monetaria della Bce, non l’euro in quanto tale.

A partire dalla crisi fnanziaria, in Germania si sono levate forti critiche al salvataggio di altri Stati. Nella memoria restano in particolare gli aiuti concessi alla Grecia, disapprovati a più riprese anche da alcuni deputati del principale partito di governo (CDU). Tuttavia, queste critiche trascuravano spesso che non si stava sal- vando (tanto) la Grecia, ma i suoi creditori. Cioè soprattutto banche private tede- sche e francesi. Wolfgang Schäuble, il ministro delle Finanze dell’epoca, cercò di trasmettere alla popolazione tedesca l’impressione che i fnanziamenti concessi alla Grecia sarebbero stati prima o poi ripagati. In tal modo riuscì a placare i malu- mori che stavano sorgendo nei confronti della moneta unica.

Il 2015 è stato un anno decisivo per la Bce, che in questo periodo ha iniziato ad acquistare titoli pubblici degli Stati membri. Così facendo è andata incontro a notevoli rischi e si è resa dipendente dai governi e dalla loro politica fscale. A partire da questo momento, la Banca centrale – al pari degli altri creditori statali – è diventata ricattabile: gli esecutivi europei possono obbligarla a proseguire nella politica monetaria espansiva (denaro a buon mercato) con la minaccia di non ono- rare il debito. Inoltre, la motivazione addotta per giustifcare tale politica appare alquanto fragile: i presunti rischi di defazione erano già bassi nel 2015 e oggi sono praticamente scomparsi.

Probabilmente in nessun altro Stato dell’Eurozona la politica della Bce è criticata tanto come in Germania. Anche perché, sebbene Francoforte abbia annunciato che gli acquisti di titoli pubblici cesseranno nel 2019, non verrà ridotto l’alto stock dei titoli già acquistati. Si tratta di cifre notevoli: dalla primavera del 2015, l’Eurosistema ha acquistato titoli di Stato per 2 mila miliardi di euro. Alcuni osser- vatori tedeschi, come l’ex giudice costituzionale Udo Di Fabio, hanno disapprova- to questa scelta, perché secondo loro si sta aggirando il divieto – imposto dai trattati europei – di acquistare titoli pubblici degli Stati membri, o di fnanziarne direttamente i governi. Il Bundesverfassungsgericht (la Corte costituzionale tede- sca) ha chiesto perciò se esiste una differenza, all’atto pratico, rispetto all’acquisto di titoli di Stato sul mercato secondario da parte della Bce: i rischi legati ai fnan- ziamenti non gravano, in ultima analisi, su Francoforte?

Occorre sottolineare il rilievo assunto in questo dibattito dagli argomenti giu- ridici. I costituzionalisti tedeschi lamentano che il controllo democratico sulla Bce sarebbe insuffciente: se l’acquisto di titoli di Stato dovesse comportare un rischio d’insolvenza, gli Stati membri potrebbero essere chiamati a risponderne in solido. Detto altrimenti: non sono i singoli parlamenti nazionali, ma burocrati non eletti della Bce a contrarre rischi per le future generazioni. E se lo fanno dietro esplicito o implicito mandato politico, affermano alcuni critici tedeschi, dovrebbero allora essere modifcate le basi giuridiche della Banca centrale (6).

Si pone a questo punto la domanda se l’unione monetaria non sia stata concepita in modo sbagliato fn dall’inizio. Alcuni osservatori defnirono la valuta comune un castello di carte, perché non possiede i meccanismi necessari a reagire adeguatamente alle crisi fnanziarie.

In effetti, l’euro risente di problemi strutturali. I suoi architetti partirono dal presupposto che le prescrizioni di politica fscale dell’Unione sarebbero bastate a evitare crisi fnanziarie: se fossero stati rispettati i limiti del debito pubblico pregres- so e nuovo, non si sarebbero verifcate crisi nei singoli Stati membri. Questa rifes- sione manifestava tuttavia una grande ingenuità. L’autonomia fnanziaria dei gover- ni, insieme all’irrevocabilità – continuamente ribadita – dell’euro, fnivano con l’incentivare i singoli paesi a testare la disponibilità degli altri ad assisterli in caso di crisi. In ultima analisi, sono stati quanti andavano gonfando spensieratamente e irresponsabilmente la propria spesa pubblica ad avere vinto questa scommessa.

Tuttavia, non sarebbe corretto tacere sulle conseguenze negative che ciò ha avuto per la Grecia. Certo è che alcuni attori in Grecia approfttarono degli anni beati prima del 2010, trasferendo capitali all’estero in misura enorme per metterli al sicuro dal fsco greco. Le conseguenze di questo comportamento hanno dovuto pagarle anche coloro, tra i greci, che erano troppo poveri per trasferire capitali in Svizzera o altrove.

Inoltre, alla Bce mancava – e manca tutt’ora – una normativa per affrontare lo stato d’emergenza. In riferimento alla Repubblica di Weimar, Carl Schmitt dichiarò: «Sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione». Se all’inizio non era chiaro quale sarebbe stata l’istituzione europea in grado di agire in condizioni di crisi, presto divenne evidente che era proprio la Bce. A prescindere dall’esistenza o meno di alternative a tale delega di potere, la Bce resta oggi l’istituzione schmittianamente «sovrana» d’Europa, ma sottoposta solo a un blando controllo (7).

Durante la crisi è emerso come i presupposti del Trattato di Maastricht non fossero sostenibili. Le improvvisazioni a cui si è assistito hanno contribuito ad accrescere in Germania lo scetticismo sulla solidità dell’euro.

Altrettanto fallace era la supposizione che tutte le società europee fossero adeguate a convivere con un’unione monetaria rigida. Ma le preferenze sociali hanno un ruolo decisivo nella scelta dei regimi di cambio. A confronto con altri, l’euro è un sistema estremamente rigido, senza meccanismi di adeguamento. L’euro appare simile al gold standard nel periodo precedente alla prima guerra mon- diale. Lì, comunque, c’era sempre la possibilità di uscire temporaneamente dal sistema e di rientrarci in un secondo momento. Anche il Sistema monetario euro- peo (Sme) aveva tenuto in considerazione, almeno in parte, le diverse preferenze sociali, permettendo all’Italia un margine di oscillazione più che doppio rispetto agli altri paesi membri (+ 6%, contro + 2,25% degli altri paesi). All’euro, invece, manca qualsiasi fessibilità.

Nell’euforia degli anni Novanta (la Germania si era riunifcata, il comunismo era sconftto, la guerra fredda era fnita), le posizioni più prudenti non giocarono un ruolo importante. Uno sguardo alla storia del gold standard, tuttavia, avrebbe aiutato a comprendere meglio i rischi dell’unione monetaria. Accanto ad Argentina, Brasile e Cile, erano stati quattro paesi europei ad abbandonare temporaneamente quel sistema: Portogallo, Spagna, Italia e Grecia (8).

Oggi sono di nuovo in questione la stabilità dell’unione monetaria e i rischi provenienti dall’Italia. In Germania vengono discussi appassionatamente soprattutto i cosiddetti saldi Target 2. Nessun dibattito invece sugli sviluppi che hanno portato alla diffcile situazione economica attuale, proprio e soprattutto in Italia. Per molti osservatori internazionali è tuttavia chiaro che gli alti avanzi commerciali tedeschi hanno contribuito alla stagnazione economica in Italia e altrove. Invano il Fondo monetario internazionale e la Commissione europea invitano da anni la Germania a ridurre il proprio surplus. In ambito scientifco-accademico, da tempo alcuni osservatori stanno analizzando criticamente le conseguenze dei perduranti attivi commerciali. La grande dame della dottrina economica britannica, Joan Robinson, defnì una volta le economie nazionali con surplus commerciali «esportatrici di disoccupazione».

Il grosso dei politici e dei cittadini tedeschi, invece, non pensa che possa essere il proprio paese a destabilizzare l’Europa; piuttosto, si compiace della propria presunta superiorità. Solo con estrema lentezza la società tedesca inizia a comprendere che le molte crisi presenti in Europa potrebbero avere a che fare anche con il proprio mercantilismo. Ma in Germania si preferisce tapparsi le orecchie di fronte a questa argomentazione: la campionessa del mondo di export e di morale sembra vivere in un mondo a parte. La capacità di trovare un equilibrio tra i vari interessi in gioco non è completamente scomparsa, ma appare molto più fragile che in altre fasi dello sviluppo europeo.

Perciò molti osservatori non sono granché preoccupati per la sopravvivenza della moneta comune; temono piuttosto le conseguenze di una possibile perdita dei crediti della Bundesbank nell’Eurosistema. La Bundesbank vanta attualmente crediti verso la Bce per circa mille miliardi di euro, pari suppergiù a un terzo del pil tedesco. Ma in che misura sono pericolosi questi saldi Target 2, e perché esistono?

Gli esperti tedeschi stanno dibattendo su questi argomenti con inusuale durez- za. Alcuni, come l’economista di Colonia Martin Hellwig, negano che i crediti della Bundesbank abbiano una qualche rilevanza. Hellwig parla di un’«isteria del Target» tutta tedesca 9. Invece, per Hans-Werner Sinn (istituto Ifo di Monaco) questa posi- zione è una «mistifcante minimizzazione»: i Target 2, per Sinn, sono infatti una sorta di fdo concesso ad altri paesi, che con questi crediti possono acquistare beni e servizi 10. In compenso, la Germania riceverebbe un credito infruttifero e non ri- vendicabile legalmente verso la Bce. Ne consegue che se l’Italia abbandonasse l’euro, i debiti contratti da Bankitalia (circa 500 miliardi di euro) andrebbero molto probabilmente perduti, almeno in parte.

La nascita dei saldi Target 2 va ricondotta allo scetticismo dominante sia nell’Europa meridionale sia in quella settentrionale: le banche del Nord non vogliono elargire crediti al Sud, mentre numerosi europei del Sud non si fidano dei propri governi e cercano di portare i loro capitali altrove. Se le banche nordeuropee non avessero il grande timore di una crisi fnanziaria, le banche centrali nazionali non dovrebbero colmare questa lacuna.

Naturalmente questi trasferimenti di capitale sono del tutto legali in Europa. Diversamente dai periodi in cui il traffco di capitali era limitato in Europa e in altri paesi dell’Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), compresi gli Stati Uniti, oggi questi movimenti non confgurano illeciti. Ma la storia economica insegna che le crisi fnanziarie spesso si verifcano quando la popolazione non ha più fducia nel futuro del proprio paese. Ne è un esempio l’Argentina prima del 2002: chi poteva, trasferiva soldi in Uruguay o a New York. Il patriottismo dei patrimoni è storicamente un’eccezione.

Finora la Bundesbank ha cercato di placare le crescenti preoccupazioni. Johannes Beermann, che siede nel consiglio di amministrazione, ha ribadito nel luglio 2018 che i saldi Target 2 non costituiscono un problema, almeno fnché l’unione monetaria resta in piedi. Ma questo nessuno lo aveva messo in dubbio. Inoltre, continua Beermann, i crediti della Bundesbank sono verso la Bce, non verso singole banche centrali (11).

Nel 2018 si è proflata una battuta d’arresto nella lunga e continua crescita economica tedesca. La forte dipendenza della Germania dalle esportazioni si sta rivelando un rischio, dato che importanti paesi importatori – in primo luogo la Cina – si trovano ad affrontare un rallentamento economico. L’aspettativa domi- nante è che la Germania dovrà fare i conti con una crescita ridotta. Tuttavia, una grave crisi potrà verifcarsi solo se, contemporaneamente, si dovessero registrare una decisa riduzione del commercio mondiale, un Brexit caotico e un forte protezionismo statunitense.

La domanda è: tutto ciò metterebbe a rischio il sostegno politico all’euro?

Appare improbabile che una crisi economica, da sola, possa generare un rifuto dell’euro da parte della politica e della società tedesche. Ma un altro avvenimento potrebbe far sì che Berlino muti la propria posizione al riguardo: un’eventuale uscita dell’Italia dalla moneta unica.

A ottobre la Bundesbank si è chiesta che tipo di rischio il debito rappresenti per l’economia italiana. L’Italia ha bisogno di aiuti da parte di altri paesi europei? O è un paese in cui vivono cittadini relativamente benestanti, che non hanno bisogno di aiuti esterni? Le risposte fornite da Karsten Wendorff sono chiare: l’Italia non è un paese povero e non ha bisogno di aiuti. Piuttosto, gli italiani benestanti dovrebbero essere obbligati a investire parte del loro patrimonio in titoli di Stato. Con questi «titoli di solidarietà» i cittadini italiani sarebbero in grado di garantire per i debiti dello Stato italiano. Non si tratterebbe di una tassazione dei patrimoni, ma di un indirizzamento degli investimenti (12).

La posizione della Bundesbank rifette quella di numerosi osservatori tedeschi. L’alto livello del debito italiano viene considerato un problema risolvibile internamente. Questi osservatori rifutano perciò eventuali trasferimenti di capitale all’Italia o l’assunzione di rischi di credito. Anche il governo tedesco dovrebbe confrontarsi con queste posizioni, il che ovviamente vale anche per la persona che andrà a sostituire Angela Merkel. Non è chiaro quanto a lungo la cancelliera riuscirà a restare in sella, ma la sua perdita di autorità pare ormai irreversibile. A settembre non è riuscita a far rieleggere Volker Kauder come capogruppo dei cristiano-democratici; il suo successore, Ralph Brinkhaus, non cerca lo scontro, ma in materia di unione monetaria appare un sostenitore della responsabilità indivi- duale degli Stati europei. Probabilmente nel corso del 2019 Merkel dovrà abban- donare la guida del governo e sarà forse sostituita dalla nuova leader della CDU, Annegret Kramp-Karrenbauer. La prosecuzione della sua politica, così legata all’euro da esporre lo Stato tedesco a rischi considerevoli, appare dunque incerta.

Già oggi si discute di eventuali alternative alla rigida gabbia dell’unione monetaria. L’economista francese Jean Pisani-Ferry ha proposto nell’autunno 2018 di abbandonare il dogma di un’«unione sempre più stretta» (ever closer union) per sostituirla con un sistema più fessibile. L’Unione Europea dovrebbe concentrarsi su un’integrazione circoscritta ad alcuni ambiti irrinunciabili, gestiti da diversi «club». Uno di questi dovrebbe riguardare l’euro, il coordinamento fiscale, il controllo dei mercati e il superamento delle crisi fnanziarie (13).

La teoria di un radicale «alleggerimento» dell’Ue non trova ancora in Germania sostenitori di peso. I Verdi, oggi molto popolari, vogliono distinguersi come euro- peisti modello e hanno più volte chiesto un rafforzamento politico dell’Ue. Lo scorso agosto l’ex ministro degli Esteri Joschka Fischer, dei Verdi, ha prospettato due sole alternative: o l’Europa diventa una grande potenza con capacità di azione, mettendosi in tal modo nelle condizioni di affermare i propri interessi a livello globale, oppure è destinata al declino (14).

Finora in Germania non si comprende granché lo scetticismo mostrato da altri paesi rispetto alla politica europea. Il premier olandese Mark Rutte ha respinto nel giugno 2018 l’idea di un rafforzamento politico dell’Ue (15). Senza un’ampia coalizione non vi sarà alcuna spinta verso l’integrazione in Europa. Forse molti tedeschi benintenzionati non sono nemmeno consapevoli che, al di fuori dell’Eliseo e della cancelleria federale, non vi è oggi alcun sostegno di rilievo all’idea di un rafforzamento politico dell’Unione Europea.

La Germania si è ormai abituata all’euro, anche se questo non è divenuto un oggetto di culto come il marco tedesco. Jaques Delors disse che non tutti i tedeschi credevano in Dio, ma che tutti credevano nella Bundesbank. Oggi i cittadini tedeschi non mostrano altrettanta fiducia nella Bce. Una moneta instabile viene temuta ancora da molti quale fonte di turbolenze politiche. Una grave crisi in uno Stato membro e le connesse, eventuali perdite della Bundesbank potrebbero alimentare il consenso alla reintroduzione del marco.

 

Fonte: Articolo di Heribert Dieter traduzione di Monica Lumachi – Limes n. 12/2018.

1. «Mehrheit der Deutschen gegen den Euro», Tagesspiegel, 12/2/1998.
2. Economic Outlook 2011, Ocse, Annex Table 13, p. 235.
3. D. Marsh, «The German Engine is spluttering», Daily Mail, 9/9/2002.
4. H.-W. sinn, «Das deutsche Rätsel: Warum wir Exportweltmeister und Schlusslicht zugleich sind», Perspektiven der Wirtschaftspolitik, 7, 1, 2006, pp. 1-18.
5. Economic Outlook 103, Ocse, maggio 2018.
6. «Europa ist mehr als der Euro», Die Zeit, 31/8/2017, p. 26.
7. A. ritschl, «Wem gehört der Euro?», Neue Zürcher Zeitung, 15/7/2015.

8. Ibidem.

9. M. hellwig, «Wider die deutsche Target-Hysterie», Frankfurter Allgemeine Zeitung, 29/7/2018, p. 20.

10. H.-W. sinn, «Irreführende Verharmlosung: Die Target-Salden bringen Deutschland in Gefahr», Frankfurter Allgemeine Zeitung, 5/8/2018, p. 20.

11. J. BeerMann, «Wenn der Euro unverändert fortbesteht, ist Target kein Risiko», Die Welt, 20/7/2018, p. 15.
12. K. wendorff, «Rom sollte Italiener zur Solidarität verpfichten», Frankfurter Allgemeine Zeitung, 27/10/2018, p. 24.
Criminalità, Debito pubblico, Politica, Unione Europea

La verità sul debito italiano: siamo stati “rapinati” nel 1981

Dal sito libreidee.org (qui) – Spread e debito pubblico: fanno ormai parte delle nostre vite, ne sentiamo parlare continuamente, ossessivamente, tanto da preoccuparcene più della disoccupazione giovanile a livelli inverosimili e di una mancata crescita che ormai ci sta traghettando dalla crisi alla recessione. Eppure l’opinione pubblica ha talmente interiorizzato la narrazione mercato-centrica del mainstream che non sembra credere ad altro: siamo stati spendaccioni e irresponsabili (Piigs) e dobbiamo dunque espiare le nostre colpe con una giusta dose di rigore e disciplina. Dunque l’austerity è la giusta – nonché unica – strada da percorrere, così come vuole l’approccio dogmatico del modello economico neoliberista, il tatcheriano Tina, “there is no alternative”. Abbiamo un debito pubblico intorno al 130% del Pil, secondo in Ue solo a quello della Grecia, per cui meritiamo la condizione di sorvegliati speciali di Bruxelles e di essere dunque defraudati di una nostra politica fiscale autonoma (di quella monetaria siamo già stati privati). È la strada indicata dalla “virtuosa” Germania, esempio di disciplina e rispetto delle regole per noi italiani, così dissoluti e un anche un po’ scostumati. Ma quando si è creato il fardello del debito pubblico italiano? Tutto parte nel 1981, in cui accade un evento epocale, che fa da spartiacque nella storia della sovranità economica italiana: il famoso divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro.

Con un atto quasi univoco, cioè una semplice missiva all’allora governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, Andreatta mette fine alla possibilità del governo di finanziare monetariamente il proprio disavanzo. Rimuovendo l’obbligo Ilaria Bifariniallora vigente da parte di Palazzo Koch di acquistare i titoli di Stato emessi sul mercato primario, la Banca d’Italia dismette il ruolo di prestatrice di ultima istanza. D’ora in poi, per finanziare la propria spesa pubblica, l’Italia deve attingere ai mercati finanziari privati, con la conseguente esplosione dei tassi d’interesse rispetto a quelli garantiti in precedenza. Ma non solo: viene rivisto il meccanismo di collocamento dei titoli di Stato, introducendo il cosiddetto “prezzo marginale d’asta”, che consente agli operatori finanziari di aggiudicarsi i titoli al prezzo più basso tra quelli offerti e, quindi, al tasso di interesse più alto. Ad esempio, se durante un’emissione di 50 miliardi di Btp, 40 vengono aggiudicati a un rendimento del 3%, mentre il restante al 5%, alla fine tutti i 50 miliardi saranno aggiudicati al 5%! Gli effetti sono tanto disastrosi quanto immediati: l’ammontare di debito, che nel 1981 era intorno al 58,5%, dopo soli tre anni raddoppia e nel 1994 arriva al 121% del Pil.

Come riportato dallo stesso Andreatta alcuni anni dopo, questo stravolgimento strutturale era necessario per salvaguardare i rapporti tra Unione Europea e Italia, e per consentire al nostro paese di aderire allo Sme, ossia l’accordo precursore del sistema euro. Quando l’Italia fa il suo ingresso nell’euro non risponde ai parametri del debito pubblico richiesti da Maastricht, ma l’interesse politico e l’artefatto entusiasmo generale per la sua partecipazione hanno la meglio. Sarà la crisi del 2008 a far emergere tutti i limiti e la fallimentarietà di un’area valutaria non ottimale e insostenibile come l’Eurozona: l’Italia, come altri paesi, senza la possibilità di ricorrere alla svalutazione del cambio, non riesce a recuperare terreno. Il debito pubblico, che finora era rientrato in una fase discendente, passa dal 102,4% al 131,8% del 2017. Una crescita notevole, ma di gran lunga Ciampiridimensionata se paragonata all’incremento del debito pubblico di altri paesi dell’area euro, come Spagna, Portogallo e la stessa Francia.

Nello stesso arco temporale, infatti, Madrid ha visto il suo debito pubblico schizzare dal 38,5% al 98,3%, il che significa un tasso incrementale di circa il 150%! La crisi non ha risparmiato neanche il vicino Portogallo, che è arrivato lo scorso anno a un livello del debito molto vicino al nostro (125,7%), partendo da un “contenuto” 71,7% del 2008. Eppure i due paesi iberici hanno sforato ripetute volte il famigerato vincolo del 3% – parametro tanto assiomatico quanto infondato – permettendo così all’economia di tornare a crescere, a differenza di quella italiana che si è incamminata nel percorso distruttivo dell’austerity. Situazione analoga per la Francia, con un valore del debito pubblico allo scoppiare della crisi inferiore del 70% e che oggi si aggira intorno al 100%, ma senza che ciò le abbia impedito di aumentare la spesa pubblica e il deficit di bilancio, Beniamino Andreattaassicurando in questo modo la crescita del Pil.

Dunque, sintetizzando, il nostro famigerato debito pubblico è sì più elevato, ma è partito da una situazione di evidente svantaggio, ed è cresciuto in termini percentuali del tutto in linea con l’andamento degli altri paesi dell’euro a seguito della crisi; anzi, anche meno di altri, come abbiamo visto, e aggravato dalle politiche di austerity, i cui effetti deprimenti sull’economiasono conclamati. Rimane il problema dei tassi d’interesse (da cui il famigerato spread), da noi più elevati che altrove, proprio a causa delle modalità dei meccanismi di collocamento dei titoli di Stato introdotte a seguito dell’epocale divorzio tra i due istituti finanziari italiani. È stato stimato che in trent’anni abbiamo pagato la colossale cifra di 3mila miliardi di interessi sul debito pubblico! In queste circostanze a nulla valgono gli sforzi fiscali dell’Italia, che registra da quasi trent’anni avanzo primario, ossia quella situazione, del tutto antisociale, per cui lo Stato incassa più di quanto spende, esclusi gli interessi sul debito pubblico. Per onorare il costo del debito, ossia quell’assurda creazione del denaro dal denaro, vengono sottratte risorse finanziarie per servizi pubblici e sostegno alla popolazione in difficoltà. Dunque, una redistribuzione al contrario, dai cittadini ai mercati finanziari. Il tempo delle riforme è ormai improcrastinabile.

Fonte: Ilaria Bifarini, “Tutta la verità sul debito pubblico, contro le menzogne di Bruxelles”, da “Il Primato Nazionale” del 10 gennaio 2019.