Economia, Sovranità monetaria

FT: «Ha ragione la MMT»

E’ dal 2010 che sostengo la teoria MMT. Ho conosciuto Mosler nel giugno 2013 ad un convegno organizzato a Cantù (qui), ma ancor prima il tenace Paolo Barnard che per altro invitammo a Montichiari nel novembre 2013 proprio per un incontro sull’euroschiavitù. In questi giorni è arrivata la conferma di quanto già sosteniamo da quasi dieci anni.

Buona lettura.

Un articolo uscito ieri [17 gennaio 2019] sul blog Alphaville del Financial Times sdogana definitivamente e senza mezzi termini la teoria monetaria moderna (#MMT). Anche su questo, insomma, avevamo ragione noi:

«Non c’è nulla di intrinsecamente socialista per ciò che riguarda il debito pubblico. Un governo può emettere debito per pagare qualunque cosa gli piaccia: per combattere una guerra, per abbassare le tasse, per attutire gli effetti di una recessione. Gli Stati Uniti, per esempio, hanno sempre emesso debito per pagare per queste cose. I politici dicono che il debito pubblico spiazza gli investimenti privati, che è insostenibile e trasformerà il paese che ne fa uso nell’Argentina, nella Grecia o nel Venezuela. Ma indipendentemente da ciò che dicono, i politici americani finiscono sempre per fare ricorso al debito.

I sostenitori della moderna teoria monetaria sostengono che, per un paese sovrano che dispone della propria valuta, non esiste un livello intrinsecamente insostenibile di debito pubblico, sarebbe a dire che non esiste un livello oltre il quale il paese inizia crollare, che sia il 90 per cento o il 200 per cento del PIL. In qualunque momento il governo può appropriarsi delle risorse che ritiene necessarie per finanziare le sue politiche domestiche, indipendentemente dalle entrate.

Un tradizionalista considererebbe tale politica intrinsecamente inflazionistica, sostenendo che, come per qualunque altra merce, aumentare l’offerta di denaro ne riduce il valore. I sostenitori della teoria monetaria moderna sostengono invece che l’inflazione si verifica solo quando l’economia reale – gli impianti, le macchine, i lavoratori – non sono più in grado di assorbire la spesa del governo. Di conseguenza, la spesa va disaccoppiata dalla tassazione. Un governo può spendere finché non sono impiegate tutte le risorse reali di una economia e ricorrere alle tasse solo per raffreddare l’inflazione, una volta che l’economia raggiunge il suo massimo potenziale.

Noi di FT Alphavile riteniamo che [la teoria monetaria moderna] non sia né marxista, né bislacca. È semplicemente un modo diverso di guardare alla politica fiscale, un modo per descrivere i vincoli reali alla spesa pubblica. A ben vedere, il modo in cui la MMT guarda alla spesa pubblica è molto vicino a come i politici di Washington guardano alla spesa pubblica. Attenzione: non stiamo parlando di ciò che dicono, ma di quello che fanno.

Il Congresso degli Stati Uniti spende regolarmente in deficit per le cose che ritiene importanti. Negli ultimi quarant’anni, ha coperto la propria spesa con le tasse solo per un breve periodo, alla fine degli anni Novanta. … Esattamente come sostiene la teoria monetaria moderna, il Congresso spende finché le risorse reali non scarseggiano [cioè finché non viene raggiunto il limite oltre il quale si genererebbe inflazione]. Quel limite non è mai stato raggiunto negli ultimi due decenni.

Quando Washington vuole qualcosa – combattere una guerra, tagliare le tasse – autorizza la spesa necessaria e basta, senza preoccuparsi delle entrate. Dunque le discussioni sulla necessità di pareggiare il bilancio non riguardano i vincoli finanziari ma le priorità. I programmi ritenuti importanti vengono finanziati, sempre e comunque. I programmi che non sono ritenuti importanti devono essere finanziati con le tasse. Quando qualcuno a Washington dice: «Non possiamo permettercelo» in realtà intende «Non penso che sia importante».

In altre parole, [i politici americani] già seguono le prescrizioni della teoria monetaria moderna, anche se non lo ammettono».

Definitivo direi.

Fonte: lantidiplomatico.it (qui) Articolo di Thomas Fazi

Fonte: FT.com (qui)

Elites vs Popoli, Europa vs Stati

DRAGHI & PORCI (ovvero, “giustizia” europea) di M. Blondet

La UE lotta per la segretezza degli archivi della BCE –  La Commissione Europea  ha citato in giudizio la Slovenia dinanzi alla Corte di Giustizia Europea perché la polizia del paese aveva confiscato i fascicoli della BCE.  E’ probabile che il caso stabilisca un significativo precedente. (link)

Così un titolo del DWN il 25 gennaio. Si tratta di uno scandalo che ha coinvolto nel 2013 il banchiere centrale sloveno Boštjan Jazbec,  che per la sua posizione è anche membro del consiglio della BCE, il quale impose alla Slovenia il salvataggio  di sue tre banche  a carico dei contribuenti, con esborso di oltre 3 miliardi, fu detto “per scongiurare una fine di tipo greco”,  con la bancarotta dello Stato.  L’operazione avvenne con tali (diciamo) forzature e danni per i contribuenti e gli investitori, che su richiesta dell’associazione di investitori slovena (VZMD) il procuratore sloveno Zvonko Fiser – evidentemente  non ancora  al corrente dei metodi UE per sopprimere gli stati – ha ordinato un ‘inchiesta, che è giunta  fino ad  imputar Jazbec per abuso di atti dì’ufficio fino all’irruzione della polizia nella sede della banca  centrale slovena. Con sequestro di documenti e  computer.

Le intercettazioni documentarono anche le prime telefonate di Jazbec alla BCE: “Se  cado giù io, trascino anche voi con me”  – che la dice molto lunga sullo “stile”  omertoso e ricattatorio che ispira i rapporti interni alla banca centrale europea, nonché sulla certezza che ci fosse molto da  nascondere nel “salvataggio” bancario.

Ostruzione alla giustizia

Il governatore della banca centrale slovena inquisito   –  e salvato.

Anche il seguito è nello “stile” abituale di Bruxelles. Prima, Mario Draghi  chiede al capo della Commissione, Juncker, di intervenire presso la Slovenia per fermare le indagini  (la famosa “indipendenza” a senso unico).  Juncker ci prova  “con metodi informali” . Ossia, tradotto da  Delo, il primo quotidiano sloveno, “pressioni continue e sempre maggiori a ritirarsi dalle indagini di questi atti, nonostante motivi ragionevoli per sospettare che in autunno del 2013 l’allora capo della Banca di Slovenia ha commesso un numero di reati in il processo di espropriazione degli investitori della NLB”:  L’associazione degli investitori invece di tacere (credono ancora di essere sotto il diritto absburgico?)  denuncia pubblicamente : “Dobbiamo assumere una posizione intransigente nell’opporsi ad ulteriori e sempre più violente pressioni per fermare le indagini sulle irregolarità e gli atti criminali che erano impegnato durante l’espropriazione di investitori e l’eccessiva capitalizzazione delle banche slovene. A tal fine, le autorità e le istituzioni slovene, che sono loro soggette, devono protestare pubblicamente contro di loro e informare il pubblico sloveno e internazionale sui contenuti e gli sviluppi relativi a tali proteste “.  Poiché la giustizia slovena non cede, a quel punto – riporto il titolo di

Deutsche Wirtschafts Nachrichten: Mario Draghi infuriato: la giustizia indaga contro i banchieri della BCE  – Per la prima volta, la giustizia di un paese della UE contro un membro del Consiglio della BCE. A seguito di  un’ingerenza in situazioni  di soccorso bancario dubbie,   le autorità slovene prendono di mira anche il rappresentante sloveno della BCE. Draghi è sconvolto: la BCE è in realtà completamente immune dalla loro azioni giudiziarie e protetta dalle forze dell’ordine. (link)

Ve lo immaginate Mario Draghi addirittura “sconvolto”? Come mai? Perché è stata violata la sacra e totale immunità di cui gode ogni funzionario della Banca Centrale Europea; esso è esentato da qualunque azione penale per atti compiuti durante la sua funzione.

Impunibili, ingiudicabili, infallibili. Per “legge primaria”

Infatti è proprio così che scrive Draghi al procuratore generale Zvonko Fiser: “Le  attrezzature sequestrate contengono informazioni della BCE e tali informazioni sono protette dal diritto primario dell’UE direttamente applicabile“.

Capito? C’è un “diritto primario UE” che protegge lorsignori ed è “direttamente applicabile”, sopra le leggi nazionali.

Ma l’inquirente “ha  respinto la richiesta di Draghi, sostenendo che i dipendenti della banca centrale non godono di privilegi che li esenterebbero dalle indagini nelle procedure pre-penali”. Decisamente gli sloveni,  fedeli sudditi dell’impero d’Austria per mille anni,  entrando nella UE, credono di essere entrati in  uno stato di diritto. Tant’è vero che Delo, ancora non  istruito di come devono comportarsi i media verso la divina  autorità della  BCE, osa scrivere che “Mister Jazbec, anche dalla sua attuale posizione di membro del   Single Resolution Board,continua a fare lobby presso la Commissione Europea perché attui la procedura contro la Slovenia”. Già perché nel frattempo il sospetto è stato  tolto dal governo dalla banca centrale slovena (dove era anche membro della BCE e quindi capace di “trascinare giù anche voi”)  e   nominato, dalla Commissione, a capo di  questo “Single Resolution Board”,  che è un organo non della BCE, ma della Unione Europea per la liquidazione  ordinata delle banche fallite. Insomma salvato in una delle tante porte girevoli per cui funzionari europeisti passano e ripassano.  Forse il termine Commissione Europea non è adatto; meglio sarebbe Commistione  Europea,  il luogo dove i banchieri  centrali si mischiano ai governanti.

Adesso, dunque la Commissione, a nome della BCE, ha citato in giudizio la Slovenia – presso la Corte di Giustizia Europea  – per far valere una volta per tutte “il diritto primario UE” che sancisce l’inviolabilità assoluta dei segreti della banca centrale, l’insindacabilità totale dei suoi atti, e la impunibilità completa dei  suoi membri anche malversatori.  Insomma la superiorità  della BCE   rispetto a tutte le leggi, umane e divine.

Non dubitiamo che la Corte  confermerà il principio di inviolabilità  di Mario Draghi e tutti gli altri banchieri centrali. E’ scritto dal qualche parte nel “diritto primario UE”, quindi è quel diritto che va applicato.   Facciamo solo sommessamente notare che  Draghi, benché “infuriato” e “sconvolto”,  ha cercato di non far valere  questi “diritto” pubblicamente,   chiedendo invece a Druncker di agire coi “metodi informali”, ossia pressioni   continue e sempre più forti sul  governo sloveno perché – violando l’indipendenza della magistratura –  facesse cessare le indagini dei giudici sloveni.

Avrebbe preferito non farlo sapere al grande pubblico, Draghi, che i banchieri centrali hanno  quel “diritto primario”  all’inviolabilità, che li mette al disopra del genere umano fallibile e peccatore.  Come mai, se è un “diritto”? Magari  perché ci si potrebbe cominciare a chiedere   da chi, e come l’hanno avuto? O se lo sono accaparrato? E   magari giungere alla conclusione che quando la UE assume che un gruppo di funzionari manipolatori monetari è “infallibile e non peccatore”,  esige un po’ troppo dalla fede di noi, pur veri credenti in “Più Europa”.

Magari qualcuno potrebbe temere che dietro questa inviolabilità preventiva e supra legem, costoro  mascherino: 1) la loro incompetenza (di cui hanno dato numerosissimi indizi certi)  che ha portato danni enormi a varie nazioni; 2) la loro disonestà e  corruzione; 3) i loro giganteschi conflitti d’interesse e  rapporti indebiti e illegittimi con i poteri finanziari internazionali, l’usura e gli interessi  criminali, penalmente rilevanti, della ideologia globalista.

Prendiamo il caso recente. Quello di madame Danièle Nouy, responsabile della vigilanza della Banca Centrale Europea, la quale  ha affidato gli “stress test” delle banche private non già ad un organo interno della BCE, bensì a un privato esterno, e quale!

Alla  Blackrock, ovvero il più grande asset manager del mondo e il più importante investitore internazionale nel settore bancario. Ma anche nel 2014, alla società di consulenza Oliver  Wyman (che sta a New York, presso Wall Street) per la cifra di 26 milioni di dollari, ossia il triplo di quanto pagato prima, e per buona giunta alla McKinsey, a cui la BCE ha versato, per i suoi servizi, 1,5 milioni. Un  modo di agire  che ha persino indotto Schauble  a chiedere spiegazioni alla Nouy: perché non ha indetto un concorso pubblico per assegnare incarichi così delicati?   Madame ha risposto: “Non c’era tempo, era urgente fare gli stress test”. E si fida così tanto dell’eica della Blackrock – agenzia speculatrice per conto di privati internazionali – da averle affidato anche gli stress test del 2018.

https://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2018-12-19/bce-grande-affare-stress-test-schauble-apre-caso-bce–071039.shtml?uuid=AEy2Uz1G (link cancellato).

La assumerà BlackRock?

Un comportamento da  codice penale, che porterebbe in  galera  un comune mortale,  un ministro,  un sindaco o un direttore di ospedale.  Non  una membra della BCE,  inviolabile e infallibile per diritto primario,  e soprattutto  intoccabile e non giudicabile. Quindi sempre a piede libero a far nuovi danni.
Come sapete, la signora Nouy è in scadenza dalla carica che ha coperto nella BCE ed ha esercitato con speciale accanimento contro le banche italiane. Volete commettere che non resterà disoccupata? Che appena lasciata la poltrona, la assumerà la BlackRock, o la Oliver Wyman o se proprio le  va  male, la McKinsey.

Come Mario Draghi andato e venuto da Goldman Sachs. Come Barroso,  che  appena lasciata la poltrona oggi occupata da Juncker,  anche lui è stato accolto e stipendiato da Goldman, impresa nota per questi servizi caritativi e disinteressati.

Ma la fila rischia di essere lunghissima. La danese Coonie Hedegaard,  commissaria europea al Clima, che appena  dimessa la carica viene assunta da Volkswagen, condannata per le frodi sulle emissioni.  L’olandese Neelie Kroes, vogliamo parlare? Commissaria europea per l’agende digitale (sotto Barroso), s’è occupata della regolamentazione di Uber; uscita dalla carica pubblica, viene assunta –  lo credereste? –  da Uber, che ha creato per lei un apposito “comitato del consiglio di politica pubblica”,  dove in pratica farà lobby per la ditta nei meandri delle regolamentazioni europee. E  vediamo lo sloveno Janez Potocnik: Commissario  UE  alla  Scienza e alla Ricerca  (2004-2010) e poi all’Ambiente (2010-2014) in tutte queste cariche s’è distinto per impedire, con oculati ritardi procedurali,  il  divieto dell’uso di pesticidi colpevoli della strage delle api.  Ebbene: appena perso lo  stipendio europeo, lo trova come  presidente del Forum per il Futuro dell’Agricoltura – una meritevole fondazione morale e scientifica, che è finanziata da Syngenta, il colosso  chimico produttore del pesticida sterminatore.

Conflitti d’interesse, losche disonestà, “errori di governo”  voluti o dovuti a mera incompetenza e ideologismo, sono  l’essenza del funzionamento della Unione Europea :  sono l’effetto della “complessità e opacità voluta delle sue procedure interne,  volute per applicare il “metodo Monnet”, ossia i micro-colpi di stato tecnocratici di cui il pubblico non coglie la portata, ed hanno il solo scopo di sottrarre le decisioni prese a Bruxelles alla sovranità popolare” (Oliver Delorme),  hanno ormai  configurato la UE come un regime patologico di oligarchie   che  fingono  di essere competenti e si fanno gli affari loro, protetti dalla “legge” che loro hanno elaborato, dalla loro “autorità” falsa  costruita dai media e dalle complicità dei commissari, del parlamento, della corte di Giustizia,  nelle cui grinfie ora cade la povera Slovenia – la Corte che s’è arrogata poco a poco il diritto (che nessuno le ha dato, nemmeno i trattati europei)  di giudicare  e interpretare  i trattati, al punto da essere ormai “un  legislatore a sé, che crea il diritto al di fuori di un qualunque controllo democratico, e impone le sue decisioni agli stati  sotto pena di sanzione”.

Anche qui cito Olivier Delorme, un  docente di storia contemporanea che sulla UE  come mostro giuridico ha scritto dei volumi.  I magistrati sloveni faranno bene a leggerlo, per essere avvertiti sotto quale “stato-di- diritto” sono finiti. (link)

Vi lascio alla lettura, perché ho fretta di avvertire: Mario Draghi è prossimo a scadere da governatore inviolabile imperseguibile della BCE. Speriamo lo riprenda Goldman.  Ma invece  “il Colle” lo vuole a capo di un  governo italiano, già pensato e pronto, che sostituirà quello attuale che avete votato , un governo di pasticcioni incompetenti, ed è verissimo. Ma quanto sia incompetente Draghi, lo ha raccontato in un recentissimo articolo Ashoka Mody. Ad  esso rimando  chi legge l’inglese.  Agli altri, se volete, la prossima volta.

 (qui)

Shoah

Sapersi ribellare, dire no. La lezione di Gino Bartali, il campione Giusto

Non dimenticare. Mai. Sapersi ribellare. Dire no. Anche di questi tempi: ogni volta che viene a mancare la pietà, l’umanità, la tolleranza. Il 27 gennaio è il Giorno della Memoria, l’immane tragedia della Shoah. In quell’epoca regnava l’orrore, le leggi razziali rappresentarono una vergogna per l’Italia, gli ebrei non avevano più passato, presente e futuro. I campi di concentramento nazisti funzionavano giorno dopo giorno, donna dopo donna, uomo dopo uomo, bambino dopo bambino. Ma qualcuno non si è voltato dall’altra parte, c’è chi si è battuto, con coraggio e determinazione, per salvare più persone possibili, nel pieno della Paura e della Tragedia: come Gino Bartali.

Un fuoriclasse del ciclismo, il rivale di Fausto Coppi, il “Ginetaccio” che conquistò per tre volte il Giro d’Italia e per due volte il Tour de France. E la sua vittoria in Francia, nel 1948, dopo il tentato omicidio di Palmiro Togliatti, leader del PCI, colpito del neofascista Antonio Pallante con tre proiettili, impedì al nostro Paese di ricadere nel baratro di una nuova guerra civile.

Ma Bartali fu anche l’eroe che salvò da morte sicura più di ottocento ebrei. Con la scusa degli allenamenti, portava ai rifugiati (grazie alle Reti Clandestine), in convento o in case private, documenti, soprattutto passaporti falsi, per poter sfuggire all’arresto durante i continui rastrellamenti. Sapeva di rischiare la vita, ma non si tirò mai indietro. Venne anche arrestato, dai fascisti di Salò guidati dall’ufficiale Mario Carità, rinchiuso a Villa Triste, minacciato di venir fucilato: non parlò, non abbasso la testa, così come non salutò mai il Duce, con il braccio alzato, dopo le sue vittorie. Riuscì a salvarsi, anche grazie alle sue imprese in bici. Era pur sempre un eroe nazionale, alla faccia del fascismo. Un cattolico fervente che aveva abbracciato “ama il prossimo tuo come te stesso”.

Questa storia potete trovarla in un libro bellissimo, di Alberto Toscano, giornalista, saggista e politologo, pubblicato in Francia lo scorso anno con il titolo “Un vélo contro la barbarie nazi” e, ora, finalmente anche in Italia, edito da Baldini+Castoldi: “Gino Bartali, una bici contro il fascismo”, prefazione (splendida) di Gianni Mura, postfazione di Marek Halter, traduzione di Giovanni Zucca.

Bartali non parlò mai, o quasi mai, in vita dei suoi atti di coraggio. Al figlio Andrea disse, semplicemente: “Io voglio essere ricordato per le mie imprese sportive e non come un eroe di guerra. Gli eroi sono altri. Quelli che hanno patito nelle membra, nelle menti, negli affetti. Io mi sono limitato a fare ciò che sapevo meglio fare. Andare in bicicletta. Il bene va fatto, ma non bisogna dirlo. Se viene detto non ha più valore perché è segno che uno vuol trarre della pubblicità dalle sofferenze altrui. Queste sono medaglie che si appuntano sull’anima e varranno nel Regno dei Cieli, non su questa terra”. Ora il nome del nostro campione è sul Muro dei Giusti al Memoriale di Yad Vashem a Gerusalemme. E noi vogliamo ricordare le sue imprese, nello sport e nella vita, in questi giorni, in questo tempo, per una Memoria che va sempre difesa e mai smarrita.

ASSOCIATED PRESSItalian Andrea Bartali son of champion cyclist Gino Bartali, points at the name of his father at the Hall of Names at the Yad Vashem Holocaust memorial in Jerusalem, Thursday, Oct. 10, 2013, after a ceremony to induct Bartali into the prestigious Garden of the Righteous Among the Nations for his help rescuing Jews during World War II. During the German occupation of Italy, the champion cyclist aided the Jewish-Christian rescue network in his hometown of Florence and the surrounding area by shuffling forged documents and papers hidden in the tubes and seat of his bike. (AP Photo/Sebastian Scheiner)

Fonte: huffintonpost.it (qui)

 

Africa, Colonialismo, Popolo vs Elite

Essere arrestati per aver bruciato una banconota CFA simbolo del colonialismo francese. Ecco chi è Kemi Saba.

Il 19 agosto 2017 per protesta l’attivista Kemi Saba, francese di origini beninesi, bruciò in pubblico una banconata da 5.000 Fca (circa 8 euro) per mette sotto i riflettori le ingerenze di Parigi nelle ex colonie.  Fu arrestato in Senegal. A far scattare le autorità di polizia fu una denuncia della Bceao (Banca Centrale degli Stati dell’Africa Occidentale).

Saba fu poi assolto grazie a un cavillo (la legge senegalese punisce chi brucia in pubblico più di una banconota) ma fu espulso dal Paese. Saba, figura discussa, è fondatore di un partito “kemita” che vuole far risalire all’antico Egitto le origini del panafricanismo. Eppure ci fu chi ha paragonato la sua azione a quella di Nelson Mandela quando bruciò il suo vecchio passaporto dei tempi dell’apartheid.

Le accuse di neocolonialismo non risultano peraltro così esagerate se si guarda alla governance delle due banche centrali che regolano l’emissione e la circolazione del franco Cfa, ovvero la già citata Banca Centrale degli Stati dell’Africa Occidentale (Bceao) e la Banca degli Stati dell’Africa Centrale (Beac). In entrambi gli istituti, spiega un articolo pubblicato sul sito della London School of Economics, la Francia gode di fatto di un potere di veto sui consigli di amministrazione. Nel caso della Bceao, il comitato di politica monetaria include addirittura dal 2010 un membro francese con diritto di voto.

Il resoconto di un recente tour italiano del politico Kemi Saba sul sito l’Intellettuale dissidente con un articolo di Sebastiano Caputo del 19 luglio 2018 (qui)

 

Colonialismo, Elites vs Popoli

Chi tocca il CFA muore. Il franco africano strumento del colonialismo francese. Da Olympio a Keita fino a Gheddafi. Gli omicidi politici targati Parigi.

Un grande giornale che ha sempre trascurato il problema dell’Fcfa (cioè il franco francese per l’Africa che è denominato in euro per iniziativa unilaterale della Francia) ha detto che Di Maio, sollevando questo problema nello scorso fine settimana «si schiera di nuovo con i gilet gialli che chiedono la fine del sistema monetario francese» che, dicono, «sfrutta le risorse di 14 paesi africani in un disegno neocoloniale».

Il problema, sempre nascosto accuratamente dai media italiani (e, francamente, non si capisce perché) era stato invece ripetutamente denunciato e analizzato, in tutti i suoi dettagli e in tutte le sue implicazioni da ItaliaOggi per iniziativa di Tino Oldani, con due articoli documentati e coraggiosi.

Il primo, col titolo «Con il franco coloniale la Francia di Macron controlla, deruba e impoverisce 14 stati africani. Anche da qui le migrazioni in Europa», è stato pubblicato da ItaliaOggi il 21 agosto dell’anno scorso.

Il secondo invece, e sempre di Tino Oldani, è uscito il giorno dopo, con un titolo altrettanto espressivo della gravità dei fatti. Diceva infatti: «Sarkozy: ”Le ex colonie francesi non avranno mai la loro moneta”. Infatti chi ci ha provato o è stato eliminato da dei killer o da dei colpi di stato».

Sullo stesso tema, sempre su ItaliaOggi era successivamente intervenuto, altrettanto ampiamente, anche Luigi Chiarello con un articolo dell’11 dicembre scorso da titolo inequivocabile: «La Francia è ancora coloniale».

Di Maio e Di Battista quindi non avevano bisogno di ispirarsi ai programma dei gilet gialli (elaborato, tra l’altro, per semplici punti, senza alcun approfondimento in queste settimane) ma a loro bastava avere letto ciò che ItaliaOggi aveva pubblicato, con ben maggiore documentazione ed evidenza, cinque mesi fa. I due leader del M5s hanno avuto il coraggio di parlare di un tabù monetario vergognoso e che nessuno (ripeto, non si sa perché) in Italia ha mai avuto il coraggio di sollevare, descrivere e dibattere.

Il grande media italiano che ha cercato di disinnescare questo tema, dopo aver citato queste dichiarazioni apparentemente tranquillizzanti (in pratica, sul piano monetario, ha detto Macron, voi paesi africani potete fare quel che volete) si è dimenticato di ricordare che, in passato, i capi di stato africani che hanno tentato di sganciarsi della tutela monetaria di Parigi hanno fatto una brutta fine. Ad esempio nel 1963 Sylvanus Olympio, primo presidente eletto della repubblica del Togo, ex colonia francese, si rifiutò di sottoscrivere il patto monetario con la Francia, avendo compreso molto bene che, se l’avesse accettato, il Togo sarebbe rimasto una colonia da sfruttare, qual era stato fino ad allora. Così il 10 gennaio 1993 ordinò di iniziare a stampare una moneta nazionale. Ma tre giorni dopo, uno squadrone di soldati, appoggiati dalla Francia, lo assassinò. L’ex legionario francese che lo uccise non fu mai punito, ma, anzi, ricevette un compenso di 612 dollari dalla locale ambasciata francese. E il Togo dovette tenersi il franco Cfa come moneta.

La stessa sorte è toccata a Modioba Keita, primo presidente della repubblica del Mali, convinto pure lui che il franco Cfa sarebbe stato una trappola economica per il suo paese. Appena annunciò l’uscita dal franco coloniale, nel 1968, Keita fu vittima di un colpo di stato, guidato anche qui da un ex legionario francese, il luogotenente Moussa Taorè. La storia ovviamente potrebbe continuare sulla base dello stesso copione per dimostrare che, contrariamente a ciò che dice Macron, il franco coloniale è tutt’altro che una porta girevole. E che la denuncia del M5s è importante e tutt’altro che estemporanea. È infatti dallo stato di sottosviluppo di molti paesi africani e dalla sudditanza che essi subiscono dalla Francia che dipendono, oltre che le ricchezza di queste aree, anche il controllo dei flussi migratori.

Non è un caso infatti che la repubblica francese si sia opposta al dislocamento di truppe italiane nell’area subsahariana oggi controllata solo dai militari francesi. E ciò è avvenuto nonostante il dislocamento delle truppe italiane in questa zona fosse stato deciso a livello europeo per consentire il controllo comunitario dei flussi migratori.

Con la loro denuncia Di Maio e Di Battista hanno quindi svolto un’attività politica. Quella che non è stata fatta da tutti i politici italiani in questo ultimo mezzo secolo. E se vai a vedere, molti di questi (l’elenco è pubblico) sono stati insigniti della Legione d’onore che è un altissima onorificenza francese che viene conferita solo a coloro che hanno reso «eccelsi servigi alla Francia». Noi preferiremmo che i politici italiani li rendessero all’Italia come stanno facendo, su questo punto, Di Maio e Di Battista.

Fonte: italiaoggi.it (qui)

Euro, Germania, Politica, Unione Europea

La Germania crede nell’Euro finchè le conviene.

Nella bolla del benessere tedesco lo scontento di alcuni paesi europei per la moneta unica appare incomprensibile. A Berlino si temono però shock sistemici che cancellino i crediti della Bundesbank. Se l’Italia si avvita e trascina tutti, si torna al caro vecchio marco.

LA PIÙ GRANDE ECONOMIA NAZIONALE d’Europa è anche il più forte benefciario della valuta comune. Questa è l’opinione prevalente in Germania e spiega perché nello Stato tedesco sia ancora forte il con- senso all’integrazione europea e all’euro. Nonostante alcune palesi violazioni dei trattati europei, la maggior parte dei tedeschi non vede alcun motivo di pensare a un’eventuale uscita dalla moneta comune. Al contrario: i partiti tedeschi, a eccezione dei conservatori di Alternative für Deutschland (Alternativa per la Germania, AfD), fanno a gara a chi vorrebbe rafforzare l’integrazione politica europea. Soprat- tutto i Verdi si presentano come europeisti entusiasti e per questa loro posizione raccolgono molti consensi. Tuttavia, se l’andamento economico dovesse cambiare rotta e la Germania dovesse sobbarcarsi ulteriori rischi legati a debiti altrui, questo sostegno politico potrebbe mostrare i propri piedi d’argilla.

Spesso si dimentica che inizialmente i tedeschi nutrivano un grande scetticismo nei confronti dell’euro. Nel 1998 il 58% della popolazione tedesca si dichiara- va contraria all’introduzione di una valuta comune (1): l’euro era un progetto delle élite, non del popolo. Gli scettici avrebbero avuto ragione: i primi anni di moneta comune in Germania corrisposero a una crescita economica assai lenta e a una disoccupazione record. Per quattro anni, tra il 2002 e il 2005, l’economia tedesca rimase praticamente in stallo. Nel 2005 la disoccupazione era al 10,6%, cifra che non solo era superiore alla media dell’Eurozona (8,9%), ma era anche superiore alla disoccupazione in Italia (7,7%) e in Grecia (9,8%) (2). La Germania era il malato d’Europa. Il giornalista inglese David Marsh scrisse nel 2002 che l’economia tede- sca era come una nobile, vecchia Mercedes, bisognosa di una profonda revisione (3).

In Germania ci si chiese in quegli anni se il cambio, fssato tassativamente a 1,95583 marchi per euro, non fosse troppo alto. Un economista di fama come Hans-Werner Sinn, dell’Università di Monaco di Baviera, rilevò che quella tedesca stava diventando un’«economia da bazar», in cui non veniva più creata ricchezza. Sinn scrisse che i «lavoratori tedeschi [erano] i perdenti della globalizzazione» (4). Nel 2005 il cancelliere Gerhard Schröder uscì sconftto dalle urne. La responsabilità di governo fu allora assunta da Angela Merkel, che tuttavia trasse proftto dalle deci- sioni politiche prese dal suo predecessore.

Di questi dubbi oggi sembra non essere rimasta traccia. L’economia tedesca è considerata la locomotiva d’Europa: grazie alla sua fortissima concorrenzialità rie- sce a spazzar via tutti gli ostacoli sul proprio cammino. Malgrado alcune turbolen- ze, dal 2009 la Germania è cresciuta ininterrottamente: nel 2018 la disoccupazione è scesa ai minimi (3,5%), mentre paesi come l’Italia (11%) e la Grecia (20,4%) sof- frono per i molti senza lavoro (5).

In questo contesto, il robusto consenso alla moneta unica appare assoluta- mente comprensibile. La popolazione tedesca collega l’euro alla prosperità econo- mica e all’alto livello occupazionale. Ciò non implica che la politica della Banca centrale europea (Bce) sia sostenuta acriticamente. Ma a essere sempre più stigmatizzata è la «disinvolta» politica monetaria della Bce, non l’euro in quanto tale.

A partire dalla crisi fnanziaria, in Germania si sono levate forti critiche al salvataggio di altri Stati. Nella memoria restano in particolare gli aiuti concessi alla Grecia, disapprovati a più riprese anche da alcuni deputati del principale partito di governo (CDU). Tuttavia, queste critiche trascuravano spesso che non si stava sal- vando (tanto) la Grecia, ma i suoi creditori. Cioè soprattutto banche private tede- sche e francesi. Wolfgang Schäuble, il ministro delle Finanze dell’epoca, cercò di trasmettere alla popolazione tedesca l’impressione che i fnanziamenti concessi alla Grecia sarebbero stati prima o poi ripagati. In tal modo riuscì a placare i malu- mori che stavano sorgendo nei confronti della moneta unica.

Il 2015 è stato un anno decisivo per la Bce, che in questo periodo ha iniziato ad acquistare titoli pubblici degli Stati membri. Così facendo è andata incontro a notevoli rischi e si è resa dipendente dai governi e dalla loro politica fscale. A partire da questo momento, la Banca centrale – al pari degli altri creditori statali – è diventata ricattabile: gli esecutivi europei possono obbligarla a proseguire nella politica monetaria espansiva (denaro a buon mercato) con la minaccia di non ono- rare il debito. Inoltre, la motivazione addotta per giustifcare tale politica appare alquanto fragile: i presunti rischi di defazione erano già bassi nel 2015 e oggi sono praticamente scomparsi.

Probabilmente in nessun altro Stato dell’Eurozona la politica della Bce è criticata tanto come in Germania. Anche perché, sebbene Francoforte abbia annunciato che gli acquisti di titoli pubblici cesseranno nel 2019, non verrà ridotto l’alto stock dei titoli già acquistati. Si tratta di cifre notevoli: dalla primavera del 2015, l’Eurosistema ha acquistato titoli di Stato per 2 mila miliardi di euro. Alcuni osser- vatori tedeschi, come l’ex giudice costituzionale Udo Di Fabio, hanno disapprova- to questa scelta, perché secondo loro si sta aggirando il divieto – imposto dai trattati europei – di acquistare titoli pubblici degli Stati membri, o di fnanziarne direttamente i governi. Il Bundesverfassungsgericht (la Corte costituzionale tede- sca) ha chiesto perciò se esiste una differenza, all’atto pratico, rispetto all’acquisto di titoli di Stato sul mercato secondario da parte della Bce: i rischi legati ai fnan- ziamenti non gravano, in ultima analisi, su Francoforte?

Occorre sottolineare il rilievo assunto in questo dibattito dagli argomenti giu- ridici. I costituzionalisti tedeschi lamentano che il controllo democratico sulla Bce sarebbe insuffciente: se l’acquisto di titoli di Stato dovesse comportare un rischio d’insolvenza, gli Stati membri potrebbero essere chiamati a risponderne in solido. Detto altrimenti: non sono i singoli parlamenti nazionali, ma burocrati non eletti della Bce a contrarre rischi per le future generazioni. E se lo fanno dietro esplicito o implicito mandato politico, affermano alcuni critici tedeschi, dovrebbero allora essere modifcate le basi giuridiche della Banca centrale (6).

Si pone a questo punto la domanda se l’unione monetaria non sia stata concepita in modo sbagliato fn dall’inizio. Alcuni osservatori defnirono la valuta comune un castello di carte, perché non possiede i meccanismi necessari a reagire adeguatamente alle crisi fnanziarie.

In effetti, l’euro risente di problemi strutturali. I suoi architetti partirono dal presupposto che le prescrizioni di politica fscale dell’Unione sarebbero bastate a evitare crisi fnanziarie: se fossero stati rispettati i limiti del debito pubblico pregres- so e nuovo, non si sarebbero verifcate crisi nei singoli Stati membri. Questa rifes- sione manifestava tuttavia una grande ingenuità. L’autonomia fnanziaria dei gover- ni, insieme all’irrevocabilità – continuamente ribadita – dell’euro, fnivano con l’incentivare i singoli paesi a testare la disponibilità degli altri ad assisterli in caso di crisi. In ultima analisi, sono stati quanti andavano gonfando spensieratamente e irresponsabilmente la propria spesa pubblica ad avere vinto questa scommessa.

Tuttavia, non sarebbe corretto tacere sulle conseguenze negative che ciò ha avuto per la Grecia. Certo è che alcuni attori in Grecia approfttarono degli anni beati prima del 2010, trasferendo capitali all’estero in misura enorme per metterli al sicuro dal fsco greco. Le conseguenze di questo comportamento hanno dovuto pagarle anche coloro, tra i greci, che erano troppo poveri per trasferire capitali in Svizzera o altrove.

Inoltre, alla Bce mancava – e manca tutt’ora – una normativa per affrontare lo stato d’emergenza. In riferimento alla Repubblica di Weimar, Carl Schmitt dichiarò: «Sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione». Se all’inizio non era chiaro quale sarebbe stata l’istituzione europea in grado di agire in condizioni di crisi, presto divenne evidente che era proprio la Bce. A prescindere dall’esistenza o meno di alternative a tale delega di potere, la Bce resta oggi l’istituzione schmittianamente «sovrana» d’Europa, ma sottoposta solo a un blando controllo (7).

Durante la crisi è emerso come i presupposti del Trattato di Maastricht non fossero sostenibili. Le improvvisazioni a cui si è assistito hanno contribuito ad accrescere in Germania lo scetticismo sulla solidità dell’euro.

Altrettanto fallace era la supposizione che tutte le società europee fossero adeguate a convivere con un’unione monetaria rigida. Ma le preferenze sociali hanno un ruolo decisivo nella scelta dei regimi di cambio. A confronto con altri, l’euro è un sistema estremamente rigido, senza meccanismi di adeguamento. L’euro appare simile al gold standard nel periodo precedente alla prima guerra mon- diale. Lì, comunque, c’era sempre la possibilità di uscire temporaneamente dal sistema e di rientrarci in un secondo momento. Anche il Sistema monetario euro- peo (Sme) aveva tenuto in considerazione, almeno in parte, le diverse preferenze sociali, permettendo all’Italia un margine di oscillazione più che doppio rispetto agli altri paesi membri (+ 6%, contro + 2,25% degli altri paesi). All’euro, invece, manca qualsiasi fessibilità.

Nell’euforia degli anni Novanta (la Germania si era riunifcata, il comunismo era sconftto, la guerra fredda era fnita), le posizioni più prudenti non giocarono un ruolo importante. Uno sguardo alla storia del gold standard, tuttavia, avrebbe aiutato a comprendere meglio i rischi dell’unione monetaria. Accanto ad Argentina, Brasile e Cile, erano stati quattro paesi europei ad abbandonare temporaneamente quel sistema: Portogallo, Spagna, Italia e Grecia (8).

Oggi sono di nuovo in questione la stabilità dell’unione monetaria e i rischi provenienti dall’Italia. In Germania vengono discussi appassionatamente soprattutto i cosiddetti saldi Target 2. Nessun dibattito invece sugli sviluppi che hanno portato alla diffcile situazione economica attuale, proprio e soprattutto in Italia. Per molti osservatori internazionali è tuttavia chiaro che gli alti avanzi commerciali tedeschi hanno contribuito alla stagnazione economica in Italia e altrove. Invano il Fondo monetario internazionale e la Commissione europea invitano da anni la Germania a ridurre il proprio surplus. In ambito scientifco-accademico, da tempo alcuni osservatori stanno analizzando criticamente le conseguenze dei perduranti attivi commerciali. La grande dame della dottrina economica britannica, Joan Robinson, defnì una volta le economie nazionali con surplus commerciali «esportatrici di disoccupazione».

Il grosso dei politici e dei cittadini tedeschi, invece, non pensa che possa essere il proprio paese a destabilizzare l’Europa; piuttosto, si compiace della propria presunta superiorità. Solo con estrema lentezza la società tedesca inizia a comprendere che le molte crisi presenti in Europa potrebbero avere a che fare anche con il proprio mercantilismo. Ma in Germania si preferisce tapparsi le orecchie di fronte a questa argomentazione: la campionessa del mondo di export e di morale sembra vivere in un mondo a parte. La capacità di trovare un equilibrio tra i vari interessi in gioco non è completamente scomparsa, ma appare molto più fragile che in altre fasi dello sviluppo europeo.

Perciò molti osservatori non sono granché preoccupati per la sopravvivenza della moneta comune; temono piuttosto le conseguenze di una possibile perdita dei crediti della Bundesbank nell’Eurosistema. La Bundesbank vanta attualmente crediti verso la Bce per circa mille miliardi di euro, pari suppergiù a un terzo del pil tedesco. Ma in che misura sono pericolosi questi saldi Target 2, e perché esistono?

Gli esperti tedeschi stanno dibattendo su questi argomenti con inusuale durez- za. Alcuni, come l’economista di Colonia Martin Hellwig, negano che i crediti della Bundesbank abbiano una qualche rilevanza. Hellwig parla di un’«isteria del Target» tutta tedesca 9. Invece, per Hans-Werner Sinn (istituto Ifo di Monaco) questa posi- zione è una «mistifcante minimizzazione»: i Target 2, per Sinn, sono infatti una sorta di fdo concesso ad altri paesi, che con questi crediti possono acquistare beni e servizi 10. In compenso, la Germania riceverebbe un credito infruttifero e non ri- vendicabile legalmente verso la Bce. Ne consegue che se l’Italia abbandonasse l’euro, i debiti contratti da Bankitalia (circa 500 miliardi di euro) andrebbero molto probabilmente perduti, almeno in parte.

La nascita dei saldi Target 2 va ricondotta allo scetticismo dominante sia nell’Europa meridionale sia in quella settentrionale: le banche del Nord non vogliono elargire crediti al Sud, mentre numerosi europei del Sud non si fidano dei propri governi e cercano di portare i loro capitali altrove. Se le banche nordeuropee non avessero il grande timore di una crisi fnanziaria, le banche centrali nazionali non dovrebbero colmare questa lacuna.

Naturalmente questi trasferimenti di capitale sono del tutto legali in Europa. Diversamente dai periodi in cui il traffco di capitali era limitato in Europa e in altri paesi dell’Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), compresi gli Stati Uniti, oggi questi movimenti non confgurano illeciti. Ma la storia economica insegna che le crisi fnanziarie spesso si verifcano quando la popolazione non ha più fducia nel futuro del proprio paese. Ne è un esempio l’Argentina prima del 2002: chi poteva, trasferiva soldi in Uruguay o a New York. Il patriottismo dei patrimoni è storicamente un’eccezione.

Finora la Bundesbank ha cercato di placare le crescenti preoccupazioni. Johannes Beermann, che siede nel consiglio di amministrazione, ha ribadito nel luglio 2018 che i saldi Target 2 non costituiscono un problema, almeno fnché l’unione monetaria resta in piedi. Ma questo nessuno lo aveva messo in dubbio. Inoltre, continua Beermann, i crediti della Bundesbank sono verso la Bce, non verso singole banche centrali (11).

Nel 2018 si è proflata una battuta d’arresto nella lunga e continua crescita economica tedesca. La forte dipendenza della Germania dalle esportazioni si sta rivelando un rischio, dato che importanti paesi importatori – in primo luogo la Cina – si trovano ad affrontare un rallentamento economico. L’aspettativa domi- nante è che la Germania dovrà fare i conti con una crescita ridotta. Tuttavia, una grave crisi potrà verifcarsi solo se, contemporaneamente, si dovessero registrare una decisa riduzione del commercio mondiale, un Brexit caotico e un forte protezionismo statunitense.

La domanda è: tutto ciò metterebbe a rischio il sostegno politico all’euro?

Appare improbabile che una crisi economica, da sola, possa generare un rifuto dell’euro da parte della politica e della società tedesche. Ma un altro avvenimento potrebbe far sì che Berlino muti la propria posizione al riguardo: un’eventuale uscita dell’Italia dalla moneta unica.

A ottobre la Bundesbank si è chiesta che tipo di rischio il debito rappresenti per l’economia italiana. L’Italia ha bisogno di aiuti da parte di altri paesi europei? O è un paese in cui vivono cittadini relativamente benestanti, che non hanno bisogno di aiuti esterni? Le risposte fornite da Karsten Wendorff sono chiare: l’Italia non è un paese povero e non ha bisogno di aiuti. Piuttosto, gli italiani benestanti dovrebbero essere obbligati a investire parte del loro patrimonio in titoli di Stato. Con questi «titoli di solidarietà» i cittadini italiani sarebbero in grado di garantire per i debiti dello Stato italiano. Non si tratterebbe di una tassazione dei patrimoni, ma di un indirizzamento degli investimenti (12).

La posizione della Bundesbank rifette quella di numerosi osservatori tedeschi. L’alto livello del debito italiano viene considerato un problema risolvibile internamente. Questi osservatori rifutano perciò eventuali trasferimenti di capitale all’Italia o l’assunzione di rischi di credito. Anche il governo tedesco dovrebbe confrontarsi con queste posizioni, il che ovviamente vale anche per la persona che andrà a sostituire Angela Merkel. Non è chiaro quanto a lungo la cancelliera riuscirà a restare in sella, ma la sua perdita di autorità pare ormai irreversibile. A settembre non è riuscita a far rieleggere Volker Kauder come capogruppo dei cristiano-democratici; il suo successore, Ralph Brinkhaus, non cerca lo scontro, ma in materia di unione monetaria appare un sostenitore della responsabilità indivi- duale degli Stati europei. Probabilmente nel corso del 2019 Merkel dovrà abban- donare la guida del governo e sarà forse sostituita dalla nuova leader della CDU, Annegret Kramp-Karrenbauer. La prosecuzione della sua politica, così legata all’euro da esporre lo Stato tedesco a rischi considerevoli, appare dunque incerta.

Già oggi si discute di eventuali alternative alla rigida gabbia dell’unione monetaria. L’economista francese Jean Pisani-Ferry ha proposto nell’autunno 2018 di abbandonare il dogma di un’«unione sempre più stretta» (ever closer union) per sostituirla con un sistema più fessibile. L’Unione Europea dovrebbe concentrarsi su un’integrazione circoscritta ad alcuni ambiti irrinunciabili, gestiti da diversi «club». Uno di questi dovrebbe riguardare l’euro, il coordinamento fiscale, il controllo dei mercati e il superamento delle crisi fnanziarie (13).

La teoria di un radicale «alleggerimento» dell’Ue non trova ancora in Germania sostenitori di peso. I Verdi, oggi molto popolari, vogliono distinguersi come euro- peisti modello e hanno più volte chiesto un rafforzamento politico dell’Ue. Lo scorso agosto l’ex ministro degli Esteri Joschka Fischer, dei Verdi, ha prospettato due sole alternative: o l’Europa diventa una grande potenza con capacità di azione, mettendosi in tal modo nelle condizioni di affermare i propri interessi a livello globale, oppure è destinata al declino (14).

Finora in Germania non si comprende granché lo scetticismo mostrato da altri paesi rispetto alla politica europea. Il premier olandese Mark Rutte ha respinto nel giugno 2018 l’idea di un rafforzamento politico dell’Ue (15). Senza un’ampia coalizione non vi sarà alcuna spinta verso l’integrazione in Europa. Forse molti tedeschi benintenzionati non sono nemmeno consapevoli che, al di fuori dell’Eliseo e della cancelleria federale, non vi è oggi alcun sostegno di rilievo all’idea di un rafforzamento politico dell’Unione Europea.

La Germania si è ormai abituata all’euro, anche se questo non è divenuto un oggetto di culto come il marco tedesco. Jaques Delors disse che non tutti i tedeschi credevano in Dio, ma che tutti credevano nella Bundesbank. Oggi i cittadini tedeschi non mostrano altrettanta fiducia nella Bce. Una moneta instabile viene temuta ancora da molti quale fonte di turbolenze politiche. Una grave crisi in uno Stato membro e le connesse, eventuali perdite della Bundesbank potrebbero alimentare il consenso alla reintroduzione del marco.

 

Fonte: Articolo di Heribert Dieter traduzione di Monica Lumachi – Limes n. 12/2018.

1. «Mehrheit der Deutschen gegen den Euro», Tagesspiegel, 12/2/1998.
2. Economic Outlook 2011, Ocse, Annex Table 13, p. 235.
3. D. Marsh, «The German Engine is spluttering», Daily Mail, 9/9/2002.
4. H.-W. sinn, «Das deutsche Rätsel: Warum wir Exportweltmeister und Schlusslicht zugleich sind», Perspektiven der Wirtschaftspolitik, 7, 1, 2006, pp. 1-18.
5. Economic Outlook 103, Ocse, maggio 2018.
6. «Europa ist mehr als der Euro», Die Zeit, 31/8/2017, p. 26.
7. A. ritschl, «Wem gehört der Euro?», Neue Zürcher Zeitung, 15/7/2015.

8. Ibidem.

9. M. hellwig, «Wider die deutsche Target-Hysterie», Frankfurter Allgemeine Zeitung, 29/7/2018, p. 20.

10. H.-W. sinn, «Irreführende Verharmlosung: Die Target-Salden bringen Deutschland in Gefahr», Frankfurter Allgemeine Zeitung, 5/8/2018, p. 20.

11. J. BeerMann, «Wenn der Euro unverändert fortbesteht, ist Target kein Risiko», Die Welt, 20/7/2018, p. 15.
12. K. wendorff, «Rom sollte Italiener zur Solidarität verpfichten», Frankfurter Allgemeine Zeitung, 27/10/2018, p. 24.
Criminalità, Debito pubblico, Politica, Unione Europea

La verità sul debito italiano: siamo stati “rapinati” nel 1981

Dal sito libreidee.org (qui) – Spread e debito pubblico: fanno ormai parte delle nostre vite, ne sentiamo parlare continuamente, ossessivamente, tanto da preoccuparcene più della disoccupazione giovanile a livelli inverosimili e di una mancata crescita che ormai ci sta traghettando dalla crisi alla recessione. Eppure l’opinione pubblica ha talmente interiorizzato la narrazione mercato-centrica del mainstream che non sembra credere ad altro: siamo stati spendaccioni e irresponsabili (Piigs) e dobbiamo dunque espiare le nostre colpe con una giusta dose di rigore e disciplina. Dunque l’austerity è la giusta – nonché unica – strada da percorrere, così come vuole l’approccio dogmatico del modello economico neoliberista, il tatcheriano Tina, “there is no alternative”. Abbiamo un debito pubblico intorno al 130% del Pil, secondo in Ue solo a quello della Grecia, per cui meritiamo la condizione di sorvegliati speciali di Bruxelles e di essere dunque defraudati di una nostra politica fiscale autonoma (di quella monetaria siamo già stati privati). È la strada indicata dalla “virtuosa” Germania, esempio di disciplina e rispetto delle regole per noi italiani, così dissoluti e un anche un po’ scostumati. Ma quando si è creato il fardello del debito pubblico italiano? Tutto parte nel 1981, in cui accade un evento epocale, che fa da spartiacque nella storia della sovranità economica italiana: il famoso divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro.

Con un atto quasi univoco, cioè una semplice missiva all’allora governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, Andreatta mette fine alla possibilità del governo di finanziare monetariamente il proprio disavanzo. Rimuovendo l’obbligo Ilaria Bifariniallora vigente da parte di Palazzo Koch di acquistare i titoli di Stato emessi sul mercato primario, la Banca d’Italia dismette il ruolo di prestatrice di ultima istanza. D’ora in poi, per finanziare la propria spesa pubblica, l’Italia deve attingere ai mercati finanziari privati, con la conseguente esplosione dei tassi d’interesse rispetto a quelli garantiti in precedenza. Ma non solo: viene rivisto il meccanismo di collocamento dei titoli di Stato, introducendo il cosiddetto “prezzo marginale d’asta”, che consente agli operatori finanziari di aggiudicarsi i titoli al prezzo più basso tra quelli offerti e, quindi, al tasso di interesse più alto. Ad esempio, se durante un’emissione di 50 miliardi di Btp, 40 vengono aggiudicati a un rendimento del 3%, mentre il restante al 5%, alla fine tutti i 50 miliardi saranno aggiudicati al 5%! Gli effetti sono tanto disastrosi quanto immediati: l’ammontare di debito, che nel 1981 era intorno al 58,5%, dopo soli tre anni raddoppia e nel 1994 arriva al 121% del Pil.

Come riportato dallo stesso Andreatta alcuni anni dopo, questo stravolgimento strutturale era necessario per salvaguardare i rapporti tra Unione Europea e Italia, e per consentire al nostro paese di aderire allo Sme, ossia l’accordo precursore del sistema euro. Quando l’Italia fa il suo ingresso nell’euro non risponde ai parametri del debito pubblico richiesti da Maastricht, ma l’interesse politico e l’artefatto entusiasmo generale per la sua partecipazione hanno la meglio. Sarà la crisi del 2008 a far emergere tutti i limiti e la fallimentarietà di un’area valutaria non ottimale e insostenibile come l’Eurozona: l’Italia, come altri paesi, senza la possibilità di ricorrere alla svalutazione del cambio, non riesce a recuperare terreno. Il debito pubblico, che finora era rientrato in una fase discendente, passa dal 102,4% al 131,8% del 2017. Una crescita notevole, ma di gran lunga Ciampiridimensionata se paragonata all’incremento del debito pubblico di altri paesi dell’area euro, come Spagna, Portogallo e la stessa Francia.

Nello stesso arco temporale, infatti, Madrid ha visto il suo debito pubblico schizzare dal 38,5% al 98,3%, il che significa un tasso incrementale di circa il 150%! La crisi non ha risparmiato neanche il vicino Portogallo, che è arrivato lo scorso anno a un livello del debito molto vicino al nostro (125,7%), partendo da un “contenuto” 71,7% del 2008. Eppure i due paesi iberici hanno sforato ripetute volte il famigerato vincolo del 3% – parametro tanto assiomatico quanto infondato – permettendo così all’economia di tornare a crescere, a differenza di quella italiana che si è incamminata nel percorso distruttivo dell’austerity. Situazione analoga per la Francia, con un valore del debito pubblico allo scoppiare della crisi inferiore del 70% e che oggi si aggira intorno al 100%, ma senza che ciò le abbia impedito di aumentare la spesa pubblica e il deficit di bilancio, Beniamino Andreattaassicurando in questo modo la crescita del Pil.

Dunque, sintetizzando, il nostro famigerato debito pubblico è sì più elevato, ma è partito da una situazione di evidente svantaggio, ed è cresciuto in termini percentuali del tutto in linea con l’andamento degli altri paesi dell’euro a seguito della crisi; anzi, anche meno di altri, come abbiamo visto, e aggravato dalle politiche di austerity, i cui effetti deprimenti sull’economiasono conclamati. Rimane il problema dei tassi d’interesse (da cui il famigerato spread), da noi più elevati che altrove, proprio a causa delle modalità dei meccanismi di collocamento dei titoli di Stato introdotte a seguito dell’epocale divorzio tra i due istituti finanziari italiani. È stato stimato che in trent’anni abbiamo pagato la colossale cifra di 3mila miliardi di interessi sul debito pubblico! In queste circostanze a nulla valgono gli sforzi fiscali dell’Italia, che registra da quasi trent’anni avanzo primario, ossia quella situazione, del tutto antisociale, per cui lo Stato incassa più di quanto spende, esclusi gli interessi sul debito pubblico. Per onorare il costo del debito, ossia quell’assurda creazione del denaro dal denaro, vengono sottratte risorse finanziarie per servizi pubblici e sostegno alla popolazione in difficoltà. Dunque, una redistribuzione al contrario, dai cittadini ai mercati finanziari. Il tempo delle riforme è ormai improcrastinabile.

Fonte: Ilaria Bifarini, “Tutta la verità sul debito pubblico, contro le menzogne di Bruxelles”, da “Il Primato Nazionale” del 10 gennaio 2019.

Diritti fondamentali, Libertà di informazione, Politica

Assange difende la libertà ed è perseguitato. Grillo (2016): “Nessuno tocchi il soldato Julian Assange”. Perchè il M5S oggi tace?

Del caso Assange, in Italia, si parla poco, e male. Eppure la sua vicenda mette in gioco una delle questioni politiche più importanti di questi anni: quella della libertà di informazione, e dei suoi limiti. Assange, come noto, è stato tra i promotori di WikiLeaks, ha reso di pubblico dominio documenti di interesse pubblico, ma etichettati dai governi come confidenziali e segreti (è il caso, del 2010, dei documenti diplomatici statunitensi).

Arrestato in Inghilterra nel 2012 è stato costretto a chiedere asilo politico presso l’ambasciata ecuadoriana a Londra, per evitare il rischio di estradizione negli Stati Uniti. Assange è stato illegalmente trattenuto dal governo britannico senza una specifica accusa, gli sono state negati l’accesso alle cure mediche, all’aria aperta, alla luce del sole. Nel dicembre 2015, il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria ha riferito che Assange era stato «arbitrariamente privato della sua libertà», chiedendo il suo rilascio – cosa che l’Inghilterra si è ben guardata dal fare. La qualità della sua permanenza in ambasciata, del resto, è notevolmente peggiorata con l’entrata in carica del nuovo presidente ecuadoriano Lenín Moreno, il quale ha privato Assange dell’accesso a Internet, impedendogli di avere visitatori e di comunicare con la stampa. Julian Assange è costretto a vivere senza poter comunicare con il mondo esterno. Non vede i suoi figli da 8 anni. Questo è ciò che un uomo sta scontando in nome della libertà di informazione. Ma nessun giornalista italiano sembra averlo capito.

Solo Paolo Barnard si è recato davanti all’ambasciata dell’Ecuador a Londra dal 27 dicembre al 6 gennaio a manifestare per la libertà del giornalismo di usufruire dei whistleblowers senza rischiare la pena di morte o la galera a vita. Inutile dire che nessun giornale italiano ha sinora riportato la notizia. Con lui, il giornalista americano Angel Fox ha rivolto un appello al Movimento 5 Stelle affinché dia asilo in Italia ad Assange.

Come è noto Gianroberto Casaleggio aveva in diverse occasioni preso le difese di Assange e Grillo si era collegato con lui in occasione dell’incontro di Palermo di “Italia 5 stelle”. Nel novembre 2013 una delegazione del MoVimento guidata da Alessandro Di Battista lo aveva persino incontrato a Londra, nella sede dell’ambasciata dell’Ecuador, esprimendogli tutta la solidarietà per la sua battaglia. “Nessuno tocchi il soldato Julian Assange” si leggeva ancora nel blog di Grillo il 5 marzo del 2016.

Ora però che le sue condizioni si sono aggravate e che il M5s potrebbe fare qualcosa di concreto nei suoi confronti nessuno più ne parla. Ma al di là della incoerenza del M5s è uno scandalo che tutti i media italiani – televisioni e giornali – mantengano un assoluto silenzio su un caso che coinvolge direttamente la libertà di informazione: forse che a quest’ultima, in fondo, non tengano affatto, a dispetto dei tanti proclami contro il governo?

Forse è proprio dal governo italiano, che, speriamo, potrà essere fatta la prima mossa. Il Movimento 5 Stelle è nato proprio rivendicando quella trasparenza nell’informazione, quella libertà che l’esempio di Assange rappresenta nella sua più alta espressione. Lui sta pagando di persona, sta dimostrando cosa significhi opporsi davvero a quei “poteri” che il M5S voleva mandare definitivamente a casa. Che cosa aspetta, allora, a cominciare la battaglia in difesa di Assange? Julian Assange è un perseguitato politico. Se c’è un caso in cui dovrebbe essere valida la richiesta di asilo è proprio questo.

Fonte: blog di Paolo Becchi (qui)

Austerity, Europa, Politica

Recessione Europa: decisione politica, firmata Ue e Bce

Dal sito libreidee.org (qui) – I dati sulla produzione industriale che vengono man mano proposti sono sempre più inquietanti e lasciano intravvedere una situazione tutt’altro che positiva. L’area euro segna un -3,3% di produzione industriale, con un picco di -5,1% della Germania. E l’Italia, una volta tanto, fa un po’ meglio della media Ue, con 2,6% in meno. Si prevede un secondo trimestre 2018 con valori negativi per il Pil tedesco. Un disastro che non potrà non avere ripercussioni sull’andamento economico. In realtà tutto questo non è dovuto, per lo meno non ancora, ad una crisi finanziaria: mentre nel 2007-08 la crisi dei mutui subprime Usa portò a una crisi dell’economia reale per l’enorme distruzione di ricchezza finanziaria collegata, in questo caso la causa delle crisi economica sarà la volontà europea di crearla. Anche se l’innesco è stato un calo nei volumi del commercio internazionale, la risposta europea, che ripercorre quella post-crisi del debito interno ex 2011, non fa che accentuare, in modo pro-ciclico, questa variazione.

Dopo la crisi del 2009 l’Europa, terrorizzata dal proprio debito, ha perso il percorso della crescita strutturale in modo permanente. Stretta dalle paure del proprio debito, terrorizzata, guidata da una classe di economisti che, mi dispiace dirlo, inaltri momenti non avrebbero guidato neanche gli assessorati al bilancio di una grossa città italiana, l’Europa, ma soprattutto l’Eurozona, hanno abbandonato un percorso di crescita rischiando di intraprendere un cammino di involuzione e di riduzione della possibilità di crescita economica. La concentrazione unica su obiettivi di deficit invece che di crescita sta portando a un decadimento permanente e strutturale, non recuperabile nel medio periodo, della struttura economico-industriale dell’Euroarea, realizzando al contrario le fauste previsioni fatte dai firmatari del patto di Maastricht.

L’Eurozona si sta sempre di più rivelando come un’area di depressione economica e di conflitto sociale, non di crescita, giungendo al limite della repressione politica come in Francia. Siamo ancora in tempo per tornare indietro? No, senza una profonda revisione ideologica dei fondamenti europei; un cammino veramente difficile, perchè dovrebbe condurre al superamento di pregiudizi intellettuali (e, francamente, razziali) profondamente radicati. Significherebbe, in un certo senso, superare se stessa: e questa è la vera sfida del futuro. Per ora, purtroppo, governano sempre gli assessori provinciali…

Fonte: Guido da Landriano, “La recessione è una decisione politica di Bruxelles e Francoforte”, da “Scenari Economici” del 15 gennaio 2019.

Politica, Società

Quando parliamo di élite

Un invito alla lettura. Di seguito un articolo apparso sul sito Wittgenstein.it

Tra le risposte che Repubblica sta pubblicando all’articolo di Baricco su “popolo ed élite” (diciamo), ha avuto più attenzioni e consensi quella di ieri di Mariana Mazzucato, un po’ perché più polemica, un po’ perché propone letture assai diverse. A me pare che le sue critiche siano legate soprattutto a una diversa idea del significato di “élite” e che i due articoli quindi parlino di cose differenti (succede quando si usano parole semplici per etichettare cose complesse e poi si scivola a parlare delle etichette invece che delle cose complesse): fino a che si dà a élite una connotazione negativa (anzi, lo si usa proprio per disprezzare qualcosa) è ovviamente inutile discutere costruttivamente del ruolo delle élite e anzi – come mi pare pensi Mazzucato – è stupido persino provarci. Qui ne scrive anche Massimo Mantellini. Ma siccome – comunque la si pensi – l’equivoco è ricorrente, visto che se ne parlava su Twitter e visto che ognuno cita un suo libro, riprendo questa parte “etimologica” e logica da Un grande paese. Almeno abbiamo presente di cosa parliamo e perché non ci capiamo: detto che è prezioso provarci e parlarne, e che questo è – merito di Baricco e Repubblica – uno dei rari casi in cui se ne discute cercando di spiegare un cambiamento di cui molti parlano solo con grande vaghezza e povertà di analisi.

Per capire cosa sia successo – in America ma anche in Italia, ci arriviamo – bisogna prendere in considerazione l’uso di una manciata di -ismi, maneggiati da politologi, sociologi e commentatori con significati di volta in volta diversi o che si accavallano: elitismo, populismo, elitarismo, antielitismo, pluralismo, egualitarismo. Cerco di essere sintetico, che questa è la parte noiosa, ma ci sono rischi di equivoci con le parole di cui ci dobbiamo liberare.
Storicamente l’elitismo è stato due cose assai diverse: una teoria «descrittiva» di una realtà oppure un pensiero e un progetto. La prima constata e sostiene che il potere politico sia sempre in mano a un’élite di qualche tipo, a un gruppo di persone che lo detiene per censo o per appartenenza a un sistema, indipendentemente dai procedimenti democratici che glielo hanno consegnato. Quest’analisi può essere neutra, o più frequentemente critica, nelle sue banalizzazioni: spesso diventa sinonimo di «comandano sempre gli stessi», e genera quindi un «antielitismo» (rafforzato da «è tutto un magna magna») che predica la necessità di cambiare questo stato di cose. Però la teoria dell’elitismo può anche essere positiva, e trasformarsi allora in un’idea costruttiva e un pensiero politico: sostenendo che è giusto che a compiti straordinari si dedichino persone di qualità straordinarie a patto che ci sia un ricambio che garantisce la continuità di quelle qualità. Definendo quindi positivamente le élite come contenitori rinnovabili di qualità, merito e competenza.

Come si capisce, lo scarto tra i due modi di intendere l’elitismo deriva dal diverso modo di intendere la composizione delle élite e dai processi storici che le hanno formate: dove, come prevalentemente avviene oggi in Italia, le si ritengano consorterie di potere aliene da punti di merito e chiuse al ricambio, esse divengono un nemico da smantellare, e legittimano gli antielitismi. Se invece si dà al termine un significato più nudo e proprio, che definisce gli «eletti», non solo nel senso democratico (quelli che sono stati eletti) ma nel senso per cui si dice anche «il popolo eletto», ovvero coloro che hanno talenti e qualità eccezionali e superiori rispetto a un compito o un destino, l’elitismo che mira a promuoverli assume una connotazione positiva (migliori risultati nelle scelte delle classi dirigenti si avranno quindi quando gli eletti dalle loro qualità coincideranno con gli eletti dai voti: sintomo della realizzazione di una democrazia informata).

È interessante come l’accezione della parola cambi nelle varie lingue su Wikipedia. La pagina italiana si barcamena ma suggerisce l’accezione negativa:

L’elitismo è una teoria politica basata sul principio minoritario, secondo il quale il potere è sempre in mano a una minoranza. Si fonda sul concetto di élite, dal latino eligere, cioè scegliere (quindi scelta dei migliori). Termini interscambiabili con quello di élite sono aristocrazia, classe politica, oligarchia.

La pagina angloamericana è molto chiara sui due significati, privilegiando quello positivo ma mimetizzando il discutibile «ricchezza» in mezzo agli altri e più apprezzabili «attributi particolari» propri delle élite:

L’elitismo è l’idea o la pratica per cui gli individui che sono considerati membri di un’élite – un gruppo selezionato di persone con capacità personali superiori, dotate di intelletto, ricchezza, competenza o esperienza, o altri attributi particolari – sono quelli le cui opinioni su una materia devono essere prese in maggior considerazione o aver maggior peso; i cui giudizi o le cui azioni sono più probabilmente costruttivi per la società; o le cui straordinarie abilità o saggezze li rendono più adatti al governo. Alternativamente, il termine elitismo può essere usato per descrivere una situazione nella quale il potere è concentrato nelle mani di un’élite.

Al tempo stesso, Wikipedia in inglese ha una pagina dedicata alla «teoria delle élite» che corrisponde di più a quella italiana sull’elitismo.

La teoria delle élite è una teoria che cerca di descrivere i rapporti di potere nella società moderna. Sostiene che una piccola minoranza, formata da membri dell’élite economica e di apparati politici, detiene gran parte del potere indipendentemente dai processi democratici di uno Stato.

Wikipedia francese (elitismo deriva dal francese élite, che a sua volta deriva dal latino eligere) non ha una pagina dedicata all’elitismo, e affronta i possibili equivoci rimpiazzandola accortamente con la pagina «Elitismo in Francia»:

In Francia l’elitismo è l’attitudine a favorire la formazione di un’élite e l’accesso degli individui giudicati migliori ai posti di responsabilità. Si tratta in questo senso di un valore repubblicano riassunto in un motto rivoluzionario – «La carriera aperta ai talenti» – in opposizione alla selezione per nascita. Più recentemente ha acquistato una seconda accezione, di senso negativo, che indica la creazione di una distanza – politica o culturale – tra una classe dirigente e coloro che ne sono governati, in spregio alla volontà di una maggioranza.

«Un valore repubblicano», e «rivoluzionario». Più recentemente, ha acquistato una seconda accezione. Chissà se tra cinquant’anni – laddove si mantenesse la tendenza recente – le definizioni di Wikipedia saranno ancora queste, o se la «seconda accezione» avrà prevalso in tutte le lingue. D’ora in poi, per questo libro che cerca di immaginare una rivoluzione possibile, l’elitismo sarà quello dei francesi (quello per cui non ci vuole un grande pennello ma un pennello grande): «l’attitudine a favorire la formazione di un’élite e l’accesso degli individui giudicati migliori ai posti di responsabilità».

Mettiamoci allora d’accordo di chiamare invece «elitarismo» ciò che i critici dell’elitismo imputano all’elitismo: ovvero la tendenza a mantenere il potere all’interno di cerchie immutabili e prive di reali meriti e competenze, che non si possono quindi definire «elette». «Caste» sarebbe una parola adeguata, non fosse stata sputtanata dal recente periodo di qualunquismo demagogico (per quanto il libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo che l’ha resa popolare abbia molti meriti e non pecchi di qualunquismo). Oligarchie, forse.

Comunque, staccate tutto questo castello di accezioni dal significato del termine elitismo.
«Antielitismo» è il termine che invece indica l’opposizione all’elitismo in quanto tale: è antielitista chi contesta l’idea che a ruoli di potere e responsabilità debbano accedere persone di qualità superiori e straordinarie. Può sembrare sulle prime impensabile che esista una simile opinione, ma invece prospera per diverse ragioni. Una è la repulsione che presso alcuni suscita l’idea che ci siano persone di qualità superiori rispetto ad altre, repulsione dovuta a un eccesso di «correttezza morale», a un malinteso senso di uguaglianza. Dove l’uguaglianza è soppiantata dall’egualitarismo: invece di chiedere pari diritti e pari opportunità che ogni singolo possa sfruttare per ottenere dei risultati, queste persone chiedono che siano sempre pari anche i risultati. Un’altra ragione di adesione all’antielitismo è il meno leale fastidio nei confronti di qualunque élite a cui non si appartenga (le élite sono minoranze, i loro critici maggioranze anche se fingono di no): i sentimenti di invidia, frustrazione, competizione sono umani, e ancora di più lo è la percezione di una superiorità esibita e di una mancanza di umiltà da parte delle élite, per quanto capaci e competenti siano (parlo dopo della nostra difficoltà ad accettare le qualità altrui che non abbiamo, e ancora di più ad accettare «lezioni»). Un’altra spiegazione ancora è un equivoco «antielitarista», a cui sfugge la differenza tra le élite e le caste, soprattutto quando le seconde prevalgono e trascinano nelle loro indegnità tutto e tutti, spingendo a buttare l’acqua pulita assieme ai bambini sporchi (lo so, l’idea che i fallimenti di certe presunte élites non mettano in discussione l’elitismo somiglia molto alla tesi di quelli che dicevano che il fallimento del comunismo si dovesse alla sua mancata realizzazione, mentre il progetto era buono: ma la differenza è invece vistosa, in termini di successi storicamente dimostrati o no). Alcuni commentatori propongono che il contrario dell’elitismo sia il populismo, e si può dire in effetti che il populismo comprenda l’antielitismo. Ma nell’uso del termine populismo c’è anche un forte riferimento ai modi con cui il messaggio politico è trasmesso, principalmente attraverso la demagogia, ovvero l’assecondare (soprattutto a parole) le aspettative dei cittadini per ottenerne consenso, qualunque esse siano. Tanto è vero che oggi nel dibattito politico e giornalistico la parola populismo è usata spesso come sinonimo di demagogia. Ma un’altra accezione importante del termine populismo è quella che si riferisce all’esaltazione del mondo popolare e a tutto ciò che ne viene, in contrapposizione a ciò che è prodotto dalle élite. Quando gli esponenti politici di sinistra che hanno appena denunciato il «populismo» di Silvio Berlusconi dicono che bisogna imparare a recuperare il consenso, stare più a contatto col «territorio» e con la «gente», il loro è ugualmente populismo: che può anche essere una buona cosa (in teoria, in una democrazia, ciò che fa appello alla volontà di una maggioranza potrebbe essere buona cosa) a patto che il popolo sia informato, presupposto della democrazia.

Occhio che questo è lo snodo principale di tutti gli equivoci che si sviluppano intorno alle esaltazioni della democrazia, sincere o strumentali che siano. Una democrazia è un sistema di funzionamento delle comunità auspicabile, efficace e giusto perché consente che le opinioni e le scelte di tutti pesino, ma lo è solo se quelle opinioni e scelte sono informate, se nascono da dati sufficientemente completi e non falsi. Altrimenti è solo un sistema giusto, ma fallimentare e controproducente: una democrazia disinformata genera mostri maggiori di una dittatura illuminata, per dirla grossa. Funzionano bene le democrazie in cui i cittadini sono informati correttamente, e male quelle in cui non lo sono. Come diceva Goffredo Parise, «Credo nella pedagogia insieme alla democrazia, perché non c’è l’una senza l’altra». Frequente nel populismo è invece l’appello alla volontà popolare coordinato con un investimento deliberato sulla disinformazione dei cittadini.

Per completezza: spesso in relazione con questi -ismi si parla anche di pluralismo, ovvero della condizione tipica di molte società occidentali moderne in cui il potere non è concentrato ma diffuso in un ampio numero di luoghi e gruppi e comunità. Il pluralismo non è quindi in conflitto con l’elitismo, e anzi ne è complementare, nel senso che ho descritto finora.

Fonte: Wittgenstein.it (qui)

Europa, Politica

Ashoka Mody: “L’euro: un’idea insensata”

Intervistato da Tim Black di “Spiked”, Ashoka Mody – professore di economia a Princeton e già dirigente presso il Fondo monetario internazionale – conferma quello che gli economisti sanno, ma la stampa spesso nega: l’euro è stata fin dall’inizio una pessima idea sia economica sia politica. La rigidità intrinseca dei tassi di cambio, le folli regole fiscali, il dominio delle nazioni forti che impongono regole riservate a quelle deboli, creano i presupposti per la divergenza economica e l’inimicizia politica tra le nazioni, anziché promuovere prosperità e pace come propagandano i sostenitori del progetto europeo. Non sono quindi i populisti a essere euroscettici: sono gli euristi che vivono in una bolla di irrealtà, ignorando i più elementari ragionamenti economici e politici.

“Si è trattato di uno sforzo un po’ solitario”, dice Ashoka Mody – professore di economia presso l’Università di Princeton, e già vicedirettore del dipartimento europeo del Fondo monetario internazionale (Fmi) –  parlando di ”Eurotragedia: un dramma in nove atti”, la sua brillante, magistrale storia della Ue e dello sviluppo dell’eurozona. “La gran parte dell’establishment europeo” continua Mody “o ha tentato di ignorare o ha contestato quelli che mi sembrano principi e dati economici assolutamente basilari”.

È facile capire perché l’establishment europeo potrebbe essere stato incoraggiato a farlo. Eurotragedia è un atto d’accusa all’intero progetto europeo postbellico, una dissezione meticolosa e abrasiva di tutto quello che è caro all’establishment europeo. Ed è anche un attacco allo stesso establishment, al pensiero di gruppo dei suoi membri, ai loro deliri, alla loro arroganza tecnocratica. Inoltre, tutto questo viene dal principale rappresentante del Fmi in Irlanda durante il suo salvataggio dopo le crisi bancaria post-2008 – una persona cioè che ha visto dall’interno  i meccanismi fiscali della Ue.

Spiked ha intervistato Mody per capire meglio la sua analisi critica del progetto europeo, i difetti fatali dell’eurozona e perché l’integrazione europea sta dividendo i popoli.

Spiked: Lei pensa che il suo lavoro su Eurotragedia sia stato solitario perché, dopo la Brexit e altri movimenti populisti, l’establishment Ue è al momento molto arroccato sulla difensiva?

Ashoka Mody: Sono sicuro che in parte la ragione è questa. Ma penso che la natura dell’intero progetto sia molto difensiva. Pensate alla dichiarazione di Robert Schuman del 9 maggio 1950, che mise le basi per la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio due anni dopo – disse che una fonte comune di sviluppo economico doveva diventare il fondamento della federazione europea. Questa idea di una federazione europea è stata screditata molto velocemente, ma i leader europei hanno continuato a corteggiarla in diverse maniere – “unione sempre più stretta”, “unità nella diversità”, nonché quella frase particolarmente priva di senso che usa il presidente francese Emmanuel Macron: “Sovranità europea”. L’intero linguaggio è problematico e mistificatorio.

Ma la questione più seria è il concetto di sviluppo economico comune come base per l’Europa. Questo è stato vero per un breve periodo dopo il trattato di Roma del 1957, che ha aperto le frontiere, ma lo slancio si è esaurito nel giro di due decenni. Puoi aprire le frontiere, ma una volta che le hai aperte, non c’è molto altro che tu possa fare. Perfino i vantaggi del cosiddetto mercato unico sono molto limitati al di là di un certo punto, ogni economista lo capisce.

Riguardo all’euro, non c’è mai stato alcun dubbio sul fatto che fosse una cattiva idea. Nicholas Kaldor, economista dell’Università di Cambridge, scrisse nel marzo 1971 che quella della moneta unica era un’idea terribile, sia economicamente che politicamente. E Kaldor ha avuto ragione molte volte.

Ma l’intero establishment europeo ignora semplicemente ogni ennesimo avvertimento proveniente da economisti di grande fama, e produce contro-narrazioni difensive. Per esempio, sento spesso dire che l’Europa ha bisogno di tassi di cambio fissi per avere un mercato unico. Perché mai? La Germania commercia con la Polonia, l’Ungheria e la Repubblica Ceca, che sono all’interno del mercato unico, ma hanno differenti monete. Queste fluttuano, ma il commercio prosegue. Non c’è bisogno di un’unica moneta per avere un mercato unico.

Spiked: Quando è emersa la sua critica al progetto europeo? È stato durante il suo coinvolgimento nel salvataggio dell’Irlanda?

Mody:  Quando il mio lavoro al Fmi è finito, progettavo di scrivere un libro sull’eurocrisi. E ho iniziato a scriverlo come farebbe un economista del Fmi – cosa è successo prima del crash, la bolla, l’esplosione della bolla, il panico, il fatto che non fu gestito bene, e così via. Ma mi sono presto reso conto che qualcosa non andava.

E così ho passato due anni a ricostruire la storia dell’euro, ponendomi una domanda: cosa ha portato all’esistenza dell’euro nella sua forma attuale? Capite, il problema non è solo che esiste l’euro. C’è l’euro, che è una moneta unica, in una unione monetaria incompleta, con un apparato di regole fiscali che sono evidentemente ridicole sotto il profilo economico – e nessuno mette in dubbio il fatto che siano economicamente ridicole, che manchino di un necessario paracadute fiscale e della necessaria unione fiscale. Perciò, perché l’euro esiste?

In quel momento ho iniziato a scrivere, in effetti, uno storia postbellica dell’Europa,  un compendio, se vogliamo, del libro di Tony Judt: ”Dopoguerra: storia dell’Europa dal 1945”. Ecco quando ho compreso che l’euro non era solo una cattiva idea economica, ma anche una cattiva idea politica. Non solo era chiaro che avrebbe causato divisioni politiche, ma non c’era nemmeno alcun piano su come rimediare a queste divisioni, come reagire ad esse. Quindi è nata questa mitologia dell’euro, che lo ha trasfigurato in uno strumento di pace, un mezzo per unire gli europei, una necessità per il mercato unico. Tutti questi aspetti della mitologia sono nati sopra e intorno al progetto europeo per sostenere quella che è, effettivamente, un’idea insensata.

Spiked: Lei ne parla quasi come del trionfo di un’illusione politica. Che cosa ha spinto i suoi architetti? Che cosa ha permesso loro di portare avanti un progetto che molti economisti consideravano una follia?

Mody: Scrivendo il libro, ho imparato due cose riguardo alla storia. La prima è che nella storia esistono momenti critici, in cui un individuo diventa eccezionalmente potente, e ottiene un potere esecutivo sproporzionato alle sue abilità. In secondo luogo, un simile individuo ha anche il potere di creare una narrazione, una favola, una mitologia. Ed è la combinazione delle due cose che ha creato l’euro. Ecco perché Helmut Kohl è così importante, non solo perché ha guidato questo progetto fino alla sua realizzazione, [ma anche perché] ci ha lasciato in eredità un linguaggio che ha giustificato l’euro fino a oggi. Penso che se Kohl non fosse esistito, o se non fosse rimasto cancelliere negli anni ’90, questo non sarebbe successo – non ci sarebbe stato l’euro.

Spiked: Quello che è sorprendente è che durante questo processo di integrazione lungo decenni solo raramente coloro che ne erano a capo interpellavano gli elettorati nazionali. Se li interpellavano, poi semplicemente ignoravano la risposta che veniva data, così come fecero fin dal 1992, con i referendum in Danimarca e in Francia sul trattato di Maastricht. Lei pensa che questo sia uno dei difetti fatali del progetto europeo – il fatto che esso prosegue, a dispetto delle opinioni dei cittadini?

Mody: Assolutamente, si tratta di un difetto fatale. Fino al 1992 e al trattato di Maastricht c’è stata l’idea del tacito assenso. Questa idea prevedeva che i leader europei dovessero prendere le buone decisioni in nome dei popoli dell’Europa, che non erano proprio in grado di capire la complessità del governare. Si fidavano dei leader, perché loro sapevano la maniera giusta di andare avanti. E alla fine sarebbero stati validati e legittimati dai frutti che avrebbero portato.

Ma questo tacito assenso stava già cadendo a pezzi mentre veniva firmato il trattato di Maastricht. Come hai detto, abbiamo avuto il referendum danese, e specialmente quello francese del 1992. Il referendum francese, in particolare, ha un’importanza storica, perché il popolo (49 per cento) che votò contro Maastricht è lo stesso che oggi protesta con il gilet giallo. Pensateci. Per un periodo di circa trenta anni, un gruppo consistente di persone continuavano a farsi sentire, dicendo che c’era un problema. Dicevano che il vero problema era in casa, che il popolo veniva lasciato indietro e che tu, governo, sembri non avere idea di ciò che vuole il popolo.

Il fatto che i cittadini europei volessero o meno più Europa non è stato mai veramente discusso in una qualsivoglia forma significativa. Non è mai stato chiaro a che cosa servisse l’euro. Di sicuro non ha portato maggiore prosperità. E la mancanza di consultazione del popolo ha creato un’ansia ribollente, di segno opposto nelle diverse nazioni. In Germania l’ansia è legata alla possibilità che i tedeschi potrebbero ritrovarsi a dover pagare i debiti di altre nazioni. In gran parte del Sud Europa la gente è ansiosa perché la Germania è diventata troppo dominante, e perché, nei periodi di crisi, il cancelliere tedesco potrebbe diventare di fatto il cancelliere europeo.

Non esiste alcun meccanismo elettorale che garantisca responsabilità e legittimazione. Pertanto l’intero processo è intrinsecamente antidemocratico – la gente che viene colpita dalle decisioni non può votare per rimuovere coloro che prendono queste decisioni.

Spiked: Alcuni sostengono che l’eurozona ha creato un certo grado di prosperità, certamente a partire dalla fine degli anni ’90 fino a metà degli anni 2000. Lei pensa che questa fosse un’illusione di prosperità, sostenuta nel caso dell’Europa dalla bolla bancaria?

Mody: Certo, assolutamente. È un vero peccato che quei dieci anni siano stati completamente travisati in due modi. Il primo è che, quando i tassi di interesse sui debiti pubblici sono scesi, questo fu celebrato come un’integrazione finanziaria, mentre era in effetti un problema, perché i paesi che beneficiavano di questi tassi così bassi stavano permettendo il formarsi di una bolla di debito.

In secondo luogo, l’altra cosa che è avvenuta, specialmente tra il 2004 e il 2007, è che il commercio mondiale era in una fase di boom. In primo luogo, perché l’America stava spendendo troppo, e quindi stava importando largamente merci dal resto del mondo, e in secondo luogo, perché la Cina stava entrando nel mercato del commercio globale in grande stile e, diventando un esportatore di grande rilievo, diventava anche un rilevante importatore. Pertanto negli anni tra il 2004 e il 2007 si è avuta una crescita del commercio globale più alta che in qualsiasi periodo nella memoria recente. E quando il commercio globale aumenta, il commercio europeo cresce rapidamente.

Quindi la combinazione della convergenza dei tassi di interesse, che diede l’impressione dell’integrazione finanziaria, e la crescita del commercio globale, che diede alla gente un’impressione di prosperità, ha portato alcuni a concludere che sì, la cosa aveva funzionato. Quindi nel giugno 2008 abbiamo Jean-Claude Trichet, l’allora presidente della Banca Centrale Europea, che dichiarava che l’eurozona era un grande successo. Quello era in realtà il momento in cui la crisi dell’eurozona stava per colpire forte. Solo che la Bce non se ne rendeva conto.

Come disse George Orwell su quello che veniva riportato della Guerra Civile Spagnola, che la storia veniva scritta come si pensava che dovesse andare, e non come andava realmente: questa è la maniera in cui il primo decennio dell’eurozona è stato raccontato.

Spiked: La crisi inizia a farsi sentire nell’eurozona dal 2009. Perché lei era così contrario alle politiche di austerità che la Troika impose a Grecia e Irlanda?

Mody: Io comprendo che se un paese ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità debba stringere la cinghia. Non voglio contestarlo. Quello che contestavamo io e altri, e continuiamo a contestarlo nel caso dell’Italia, è il momento di inizio e la velocità del consolidamento fiscale. Quando un’economia sta sprofondando in una recessione, l’austerità fiscale rende peggiori le cose. Le tasse imposte dal governo aumentano mentre i consumi diminuiscono, e quindi la recessione si approfondisce. Non è certo un mistero.

Quindi la mia posizione è che, sì, la Grecia aveva chiaramente bisogno di un certo grado di austerità, ma bisognava applicarla a un ritmo inferiore. Se un paziente con un trauma entra in un reparto di chirurgia, non gli viene chiesto di correre intorno all’isolato un paio di volte come gesto di buona volontà prima dell’intervento. È un discorso semplicissimo. L’austerità perciò ha reso il problema greco infinitamente peggiore.

Spiked: È sorprendente che la Ue sembri così attaccata a regole fiscali e di budget stringenti, sicuramente lo è stata nel caso della Grecia. Perché lei pensa che ciò accada?

Mody: Vorrei essere in grado di dare una risposta semplice. La mia risposta storica è che la Ue non è poi così attaccata alle regole. Quando le regole non fanno comodo a quelli che comandano, le regole vengono violate, e per buone ragioni. L’abbiamo visto nel 2002 e nel 2003 quando la Germania, nel mezzo di una recessione, ha fatto “marameo” alle regole fiscali per evitare di peggiorarla. Il ministro delle finanze tedesco Hans Eichel, per giustificare la decisione, scrisse sul Financial Times un editoriale che Yanis Varoufakis avrebbe dovuto avere il buon senso di recitare quando sosteneva la necessità di un allentamento delle regole di bilancio per la Grecia.

Le regole vengono tirate fuori solo quando la bilancia del potere si sposta in direzione opposta, e allora  vengono usate come strumento per rimettere in riga le nazioni cosiddette ribelli, che sia la Grecia o l’Italia.

Spiked: Lei definisce l’Italia la “linea di faglia” del progetto europeo. Perché crede che sia così importante?

Mody: Non c’è dubbio che l’Italia sia e rimanga la linea di faglia dell’Europa, per molte ragioni. In primo luogo, è una nazione grande – il suo Pil è otto o nove volte quello della Grecia; e i suoi asset finanziari sono dello stesso ordine di grandezza di quelli della Germania o della Francia. Inoltre, l’Italia ha una crescita della produttività cronicamente bassa – da quando è entrata nell’eurozona, la produttività e scesa di qualcosa tra il 10 e il 15%. Ora, non tutto è colpa dell’eurozona. La bassa produttività in Italia è, in larga parte, un problema italiano, dovuto a una grande mancanza di slancio all’interno dell’economia italiana, e a una serie di governi incapaci di affrontare il problema.

Ma un paese con bassa crescita della produttività ha bisogno dell’aiuto di occasionali svalutazioni della moneta. Questo nessuno lo mette in dubbio. E nessuno contesta il fatto che, se non sei produttivo, diventi meno competitivo, e, se sei meno competitivo, hai bisogno di deprezzare il tuo tasso di cambio. Ma l’Italia è in trappola. Non può svalutare il tasso di cambio contro il marco tedesco perché le due valute sono rigidamente fissate all’interno dell’eurozona, e, poiché la politica monetaria della Bce rimane relativamente stretta, l’euro non si è deprezzato contro il dollaro Usa rispetto a venti anni fa. Pertanto la lira, essendo incorporata nell’euro, non si è svalutata contro il marco tedesco o contro il dollaro Usa negli ultimi venti anni, durante i quali la produttività ha continuato a scendere. Pertanto, come farà questo Paese a ripagare il grande ammontare del suo debito, senza crescere?

Ecco il cuore del problema italiano. La produttività italiana ha bisogno di un investimento generazionale in scuola, in ricerca, nel riportare a casa le persone che sono emigrate, per costruire un nuovo senso di autostima, che in questo momento manca enormemente.

Spiked: Quando sono stato in Italia, recentemente, sono stato colpito dal numero di graffiti anti-tedeschi. Pensa che una delle più grandi ironie di questo progetto, che avrebbe dovuto portare integrazione economica e politica, sia che esso ha in realtà favorito l’inimicizia tra le nazioni europee, piuttosto che l’unità?

Mody: Come ho detto, Nicholas Kaldor predisse esattamente questo nel 1971. Disse che una moneta unica avrebbe amplificato le divergenze economiche e, se lo avesse fatto, avrebbe aggravato le divisioni politiche. Citò persino Abraham Lincoln: “Una casa divisa al suo stesso interno non può stare in piedi”. Il fantasma di Kaldor perseguita oggi l’eurozona.

Spiked: Lei pensa che ripristinare un certo grado di sovranità nazionale per le nazioni europee potrebbe effettivamente riunire insieme i popoli europei?

Mody: Sì, lo penso. Mi chiedo: cos’è che unisce i popoli europei? Qual è la ragione fondante per gli europei di pensarsi come europei? Quasi settant’anni fa, Schuman chiese che il fondamento comune per creare una federazione fosse lo sviluppo economico. L’idea di uno stato federale è morta, così come il concetto di un fondamento sullo sviluppo economico. Pertanto, dobbiamo ritornare all’altra affermazione di Schuman: gli europei hanno bisogno di stare uniti nell’interesse della pace. In senso moderno, questo può essere esteso alla protezione e conservazione della democrazia, e alla promozione dei diritti umani. Gli europei devono chiedersi se credono ancora in questi valori – i valori di una società aperta – e sono disposti a lavorare per la creazione di una società aperta in cui la pace, la democrazia e i diritti umani vengono promossi. Se non è questo lo scopo dell’Europa oggi, allora non mi è chiaro quale sia lo scopo dell’Europa.

Fonte: vocidallestero.com (qui) Articolo di Ashoka Mody, 2 gennaio 2019

Politica, Terremoto

Terremoto, Rosato in tv sbaglia i numeri: “Ad Accumoli già aperti 2mila cantieri”. Ma sono solo tre, la ricostruzione è ferma

Uno sguardo unico e tragico dopo il sisma proprio dentro la zona rossa. Accumoli uno dei paesi più devastati dal terremoto.

“Da sindaco di Accumoli posso garantire che qui non abbiamo 2mila cantieri ma tre e tutti privati”. Il primo cittadino Stefano Petrucci non usa giri di parole: “L’onorevole Rosato dà i numeri, forse ha preso i dati dei comuni di tutto il cratere, francamente non so. Ma quella uscita in diretta tv è suonata come l’ennesima presa in giro da parte di chi meglio d’altri dovrebbe conoscere la situazione, almeno meglio di chi si incontra per strada”. Petrucci, al telefono col fattoquotidiano.it, si unisce così ai concittadini della cittadina laziale colpita dal sisma del 2016 che da mercoledì sera riversano il loro sdegno all’indirizzo del vicepresidente della Camera, Ettore Rosato, reo di aver difeso in tv l’operato del precedente governo Pd con numeri campati in aria.

Rosato era ospite della trasmissione “Stasera Italia” dedicata alla ricostruzione post sisma. In collegamento alcuni residenti che denunciano lo “stato d’abbandono” in cui versano case e famiglie nonostante promesse e impegni assunti sin dal precedente governo e mai mantenuti. Rosato è stizzito e risponde alle polemiche, numeri alla mano: “Solo ad Accumoli – scandisce leggendo alcuni fogli – ci sono 2mila cantieri aperti e 402 immobili privati già ricostruiti, nei quali sono tornate le famiglie”. Solo che i numeri non sono certo quelli di Accumoli e lasciano i residenti del cratere con l’amaro in bocca. Stridono per giunta con i dati in possesso dei comitati civici nati subito dopo il sisma, che dichiarano: “Solo il 10% delle pratiche per la ricostruzione sono state approvate”.

“Qui non c’è ricostruzione, qui non ci sono case ma solo bungalow. Qui non c’è lavoro, qui gli anziani vivono isolati dentro casa senza neppure una linea telefonica fissa. Rosato venga a prendersi un caffè da noi. Ma ben coperto, qui le temperature arrivano a -12. E purtroppo rischia di stare senza riscaldamentovisto che a causa del freddo i boiler si bloccano e di camini… non ne abbiamo”, dichiarano Sabrina Fantauzzi e Rita Marocchi del Comitato Illica Vivecommentando l’epic fail del vicepresidente di Montecitorio. “Siamo sinceramente tramortite. Informiamo Rosato che i fogli che leggeva in trasmissione contengono falsità”. Sulla bacheca del deputato Pd fioccano reazioni indignate: “Quando parla dei terremotati in televisione si rende conto che la sentono dire eresie?”. Rosato non replica sul punto, non chiede scusa, al cellulare non risponde.

Composta, ma non meno ferma, la reazione del sindaco Petrucci, al terzo mandato in scadenza a maggio. “Rosato è caduto sui numeri, un lapsus diciamo. Lo scivolone è però indice della poca cura di chi, promettendo di aiutarci, ci ha poi lasciati soli spingendoci verso il baratro”. Pur avendo patito danni enormi, Accumoli è rimasta a lungo in ombrarispetto ad altri comuni e lo stallo in cui si trova da tempo sta compromettendo il tentativo di arginare lo spirito di resa tra gli abitanti. Questa la fotografia della situazione. “Sono tornate qui circa 200 famiglie in case provvisorie, le agibilitàsi contano sulle dita di una mano, cinqueo sei di qualche azienda agricola realizzata recentemente”.

E la ricostruzione? “Sono stai rilasciati tre decreti della ricostruzione privata, lo sgombero macerie è al 60-70% ma le attività propedeutiche alla ricostruzione si devono cominciare da zero”. L’incaglio è tra norme e fondi, e questo sarà oggetto del confronto con il neodelegato alla ricostruzione Vito Crimi che lunedì sarà in visita nel comune reatino. “La speranza è che almeno lui ci ascolti. Da 15 mesi abbiamo finanziati circa 35 milioni di opere pubbliche formalmente impegnati dal precedente governo ma nulla si muove, ma se non ci sarà uno snellimento normativo non saranno mai spesi. Chiaro poi che se il vicepresidente della Camera va in tv a dire che tutto va a gonfie vele la ricostruzione di Accumoli sarà difficile”.

Fonte: ilfattoquotidiano.it (qui)

Banche, Politica

Carige, Giorgetti: “Nazionalizzazione è possibilità concreta”

Di Maio: “Unica strada, il popolo sovrano si riappropria delle banche. Chiederemo elenco dei debitori”. Modiano frena: “Ricapitalizzazione non è sul tavolo, ma solo ipotesi residuale”

La nazionalizzazione di Carige è una possibilità concreta. Lo ha detto il sottosegretario alla presidenza Giancarlo Giorgettirispondendo a una domanda sul possibile ingresso nel capitale dell’istituto ligure da parte dello Stato. “Sì”, ha replicato a chi domandava se fosse concreta la posisbilità che l’istituto venga nazionalizzato in seguito alla ricapitalizzazione precauzionale prevista dal decreto appena varato. “La nazionalizzazione è un’eventualità prevista dal decreto se non si verificano alcune condizioni, quindi se nessun privato ci mette i soldi arriverà la nazionalizzazione”, ha aggiunto Giorgetti in un secondo momento. “L’obiettivo è salvarla sotto lo Stato. Se ci saranno utili ci guadagnerà lo Stato”. ha rimarcato invece Matteo Salvini.

Messaggio analogo dal vice presidente del consiglio Luigi Di Maio: “Quel che posso dire – ha spiegato all’Adnkronos – è che crediamo nella nazionalizzazione, l’unico intervento che si può fare, l’unica strada percorribile per il M5S. Il popolo sovrano si riappropria delle banche: questo è il primo caso in Europa in cui ci riprendiamo” un istituto di credito “per dare prestiti alle imprese e mutui più agevolati alle famiglie”. “Nelle prossime ore – ha aggiunto successivamente –  scriveremo al commissario straordinario di banca carige per chiedere gli elenchi dei debitori, li pubblicheremo e vogliamo vedere se ci sono legami particolari degli amministratori delegati di questi anni, chiederemo di promuovere un’azione di responsabilità contro chi ha fatto il buco di bilancio” DI Maio ha spiegato che “saranno puniti i banchieri, vedremo chi c’è lì dentro che ha avuto favori, gliela faremo pagare”.

Fonte: repubblica.it

Elezioni, Politica, Sondaggi

Elezioni Piemonte sondaggi, Lega boom. Tracollo del Pd. Forza italia perde oltre un terzo dei voti. FDI e M5S stabili.

Elezioni Piemonte 2019 sondaggi, M5S regge. Forza Italia sotto il 10%. Ecco le prime cifre.

Il 2019 è l’anno di importanti elezioni, un test sia per il governo gialloblu sia per le forze di opposizione. Il prossimo 26 maggio, però, non si voterà solo per il rinnovo del Parlamento europeo ma le urne si apriranno anche in due Regioni (dopo Abruzzo e Sardegna a febbraio): Basilicata e soprattutto Piemonte. Ed è su quest’ultima che si concentrano soprattutto gli occhi dei politici anche perché, salvo colpi di scena, è destinato a cadere l’ultimo baluardo della sinistra e del Partito Democratico al Nord (Emilia Romagna esclusa).

Vediamo i candidati. Il governatore in carica Sergio Chiamparino, dopo una titubanza iniziale, ha annunciato la sua disponibilità a ripresentarsi. Il Movimento 5 Stelle invece ha individuato il candidato Governatore tramite il consueto voto online: sarà l’attuale consigliere regionale Giorgio Bertola che si è nettamente imposto rispetto agli altri candidati. Per quanto riguarda il Centrodestra, che si presenterà unito nonostante le divisioni a Roma, il candidato spetta a Forza Italia. Ed è sempre più probabile la scelta di Alberto Cirio, anche se la la Lega ha non pochi dubbi e spinge affinché gli azzurri trovino un altro candidato. Altro candidato ufficiale è Valter Boero. Docente universitario, ex consigliere comunale a Torino e presidente per il Piemonte del Movimento per la Vita, correrà per il Popolo della Famiglia.

Sondaggi sulle Regionali non ci sono ancora ma, estrapolando il dato sul Piemonte dalla media dei sondaggi nazionali (aggiornata a poco prima di Natale), emerge chiaramente che, salvo colpi di scena, il Piemonte sarà l’ennesima del Pd. Il Centrodestra infatti apparre nettamente in testa con percentuali tra il 46 e il 49% (aveva ottenuto il 22,1% nelle elezioni regionali del 27 maggio 2014). In particolare è la Lega a fare la parte del leone, prima forza regionale vicina al 35% (7,3% nel 2014). Forza Italia poco sotto il 10%  (15,5% nel 2014) e Fratelli d’Italia intorno al 3-4% (3,7% nel 2014).

Centrosinistra lontanissimo. Unito non supererebbe al momento il 25% (vinse le elezioni nel 2014 con il 47,1% ed elesse l’attuale Presidente della Regione Chiamparino) con il Pd in caduta libera sotto il 20% (36,2% nel 2014). Il M5S si conferma non decisivo al Nord e debole alle Regionali tra il 20 e il 22% (20,3% nel 2014). Gli altri candidati e le altre forze insieme tra il 6 e il 7%.

Se questi numeri venissero confermati, al di là del risultato delle Europee, dal Piemonte arriverebbe un duplice segnale. Governo sempre più a trazione leghista anche nella Regione del Nord dove in passato (Roberto Cota a parte) il Carroccio aveva avuto maggiori difficoltà. E, per quanto riguarda le opposizioni, crisi profonda per il Pd che si prepara a perdere l’ultima roccaforte in Val Padana.

Fonte: affariitaliani.it (qui)

Territorio bresciano

Gridò Allah akbar alla messa di Natale a Maclodio, il marocchino Esselham espulso.

Ricordate il caso di Maclodio?

«Allah Akbar». Per quel grido nel cuore della messa di Natale a Maclodio un 35enne marocchino è stato espulso dall’Italia. Il via libera all’allontanamento dal nostro Paese è stato firmato ieri durante l’udienza per direttissima nella quale Mohamed Esselham, difeso in aula dall’avvocato Lino Gallo, doveva rispondere di turbamento di funzioni religiose e resistenza a pubblico ufficiale.

Per il primo reato è stata disposta la restituzione degli atti alla Procura per una nuova valutazione mentre per la seconda accusa è stato condannato ad un anno e due mesi con pena sospesa. Il giudice ha accolto la richiesta del sostituto procuratore Marzia Aliatis e ha deciso per l’espulsione.

L’uomo aveva seminato il panico durante la messa di Natale nel paese della Bassa bresciana. Entrato in chiesa durante l’omelia aveva ripetutamente gridato «Allah Akbar» con una mano dietro alla schiena facendo temere ai fedeli presenti che potesse nascondere un’arma. In realtà era a mani nude. A placcare il delirio del 35enne, visibilmente ubriaco, ci avevano pensato alcuni giovani presenti oltre ad un agente di Polizia fuori servizio che stava assistendo alla funzione.

Dopo essere scappato lo straniero si era nascosto in un cespuglio vicino all’oratorio, ma venne bloccato e consegnato ai carabinieri.

Fonte: giornaledibrescia.it (qui)

Banche, Governo, Politica

Carige, Paragone (M5s): “Governo vuole fare come Renzi o come gilet gialli? Non finisca come i casi precedenti”

“Questo caso di Carige non può finire come tutti i casi trattati dai governi precedenti, con una soluzione abbastanza simile. È mai possibile che nessuno nel governo del cambiamento stia chiedendo a Bankitalia di rendere conto delle sue responsabilità? Vogliamo farla questa benedetta commissione d’inchiesta (sulle banche, ndr)? Sarà realmente operativa? Sono incazzato, sono un gilet giallo, non volevamo esserlo?”: Così il senatore M5s Gianluigi Paragone in un video su Fb. “E per evitare che il mio governo faccia un autogol facciamo i gilet gialli. Dobbiamo dimostrare di essere forti, il governo del cambiamento, vicini alla gente – dice -. Abbiamo deciso che il 560 non si tocca, l’articolo (del codice di procedura civile, ndr) scritto da Renzi e dalla Boschi sotto dettatura delle banche, non può essere smantellato? Allora facciamo delle case popolari, qualcosa che consenta agli sfrattati, alla gente a cui viene tolta la casa pignorata dalle banche, di avere un riparo immediatamente. Diamo ai piccoli imprenditori delle risposte. Io voglio essere questa cosa qua”.

Fonte: ilfattoquotidiano.it (qui) e facebook

Banche, Politica

Carige, il governo vara il decreto: “Le norme approvate sono in favore di risparmiatori e correntisti”. Ma quando la separazione bancaria?

Il decreto Tutela risparmio prevede la possibilità per Carige “di accedere a forme di sostegno pubblico della liquidità” e “viene prevista la possibilità di accedere – attraverso una richiesta specifica – a una ricapitalizzazione pubblica a scopo precauzionale”. Conte e Di Maio: “Le norme approvate sono in favore di risparmiatori e correntisti”. Forza Italia: “In linea con governi precedenti”.

L’ennesimo provvedimento successivo, una pezza dovuta per tutelare famiglie e imprese, risparmiatori e correntisti, che in caso di risoluzione dell’istituto bancario genovese si vedrebbero aggrediti i propri fondi, sopra la soglia dei 100.000 euro. Ancora una volta è necessario sollecitare anche in Italia il ritorno della separazione bancaria. Obbligare le banche a svolgere le funzioni commerciali, ovvero quelle tradizionali quali la raccolta degli impeghi e l’erogazione dei finanziamenti a famiglie e imprese, rispetto alle funzioni speculative tipiche delle banche d’affari. Tale distinzione consentirebbe di garantire la tutela del solo risparmio depositato presso le banche commerciali. In tal caso il risparmio versato nelle banche speculative, proprio per l’alto rischio degli investimenti, non sarebbe tutelato. Oggi le banche che si trovano in difficoltà sono prevalentemente colpite da crediti non esigibili di grandi dimensioni erogati a clienti legati alla governance degli istituti o grandi imprese, concessi travalicando le maglie ristrette che invece vengono applicate alla famiglie o alle piccole e medie imprese. Oppure da operazioni speculative non andate a buon fine che hanno incrementato il depauperamenteo del capitale finchè gli azionisti di controllo, non essendo più in grado di immettere nuova liquidità, optano per lasciare che l’istituto di credito venga commissariato e si avvii la procedura di amministrazione straordinaria prima e di risoluzione nei casi più gravi. Il tutto con notevole dispendio di risorse pubbliche. Nel caso della Banca Carige non si stente parlare di indagini. La magistratura non sempre ancora intervenuta. Attendiamo di sapere chi ha ucciso l’ennesima banca.

Il governo si muove per risolvere la questione di Banca Carige. E con un decreto approvato durante un Consiglio dei ministriconvocato appositamente e durato appena dieci minuti, l’esecutivo Conte ha stabilito di fornire una garanzia stataleper i bond emessi dall’istituto bancario, commissariato dalla Banca centrale europea dopo il mancato aumento di capitale da parte dell’azionista di maggioranza lo scorso 22 dicembre. Il decreto Tutela risparmio prevede la possibilità per Carige “di accedere a forme di sostegno pubblico della liquidità che consistono nella concessione da parte del ministero dell’Economia e delle Finanze della garanzia dello Stato su passività di nuova emissione ovvero su finanziamenti erogati discrezionalmente dalla Banca d’Italia“. Le misure, comunica Palazzo Chigi, sono state prese “in stretto raccordo con le Istituzioni Comunitarie” e “tali garanzie saranno concesse nel pieno rispetto della normativa in materia di aiuti di Stato“.

Non solo, perché il decreto prevede anche la possibilità di un vero e proprio intervento pubblico. In considerazione degli esiti del recente esercizio di stress cui la banca è stata sottoposta, spiega ancora Palazzo Chigi, “viene prevista la possibilità per Carige di accedere – attraverso una richiesta specifica – a una ricapitalizzazione pubblica a scopo precauzionale, volta a preservare il rispetto di tutti gli indici di patrimonializzazioneanche in scenari ipotetici di particolare severità e altamente improbabili (cosiddetti scenari avversi dello stress test)”. Un’ipotesi ritenuta “residuale” da fonti finanziarie, ma comunque ‘predisposta’ dall’esecutivo. E che porta Forza Italia a parlare di un provvedimento “del tutto simile a quelli dei governi precedenti“.

“Ci riserviamo di esaminare e valutare compiutamente il decreto legge assunto, come sempre senza alcuna interlocuzione con il Parlamento, dal Consiglio dei ministri per il sostanziale salvataggio di Carige”, spiega la capogruppo al Senato di Fi, Anna Maria Bernini. “Notiamo, non senza sorpresa, che il cosiddetto governo del Cambiamento a trazione grillina, che finora ha rappresentato le banche alla stregua di autentici nemici del popolo – attacca Forza Italia – assume provvedimenti in loro favore del tutto simili a quelli dei governi precedenti. È sempre più latitante quel cambiamento su cui il M5s ha chiesto ed ottenuto consensi: l’ennesimo specchietto per le allodole di un governo che continua a tradire se stesso e i suoi elettori”.

Per il premier Giuseppe Conte, il governo grazie all’approvato del decreto “interviene a offrire le più ampie garanzie di tutela dei diritti e degli interessi dei risparmiatori della banca Carige, in modo da consentire all’amministrazione straordinaria di recente insediata di perseguire in piena sicurezza il processo di consolidamento patrimoniale e di rilancio delle attività dell’impresa bancaria”. Mentre il vicepremier pentastellato, Luigi Di Maio, parla di una norma che “tutela i risparmi dei cittadini che hanno scelto la banca Carige”. “Le banche italiane – aggiunge – pagano il prezzo di un sistema di vigilanza della Bce che va dotato di strumenti rafforzati di controllo e di intervento. Saremo sempre dalla parte dei risparmiatori e dei correntisti, sempre”.

In mattinata i commissari nominati dalla Bce per gestire la banca genovese avevano incontrato il ministro dell’Economia, Giovanni Tria. Sul tavolo c’è la gestione di una grossa fetta di crediti deteriorati (attualmente ammontano a 2,8 miliardi di euro) grazie a un intervento di Sga, la partecipata del Tesoro già intervenuta come ‘bad bank’ del Banco di Napoli. Il commissario Raffaele Lener, in un’intervista ad Affari e Finanzadi lunedì mattina, aveva spiegato che l’opzione è ritenuta valida da Tria e Matteo Salvini mentre troverebbe l’opposizione di Luigi Di Maio. Si tratterebbe, secondo Lener, di una “soluzione non onerosa e vantaggiosa per tutti“. A dicembre, Carige non aveva effettuato l’aumento di capitale da 400 milioni di euro e il salvataggio è stato effettuato con un prestito del fondo interbancario.

Il decreto Carige approvato dal Consiglio dei ministri, si legge ancora nel comunicato diffuso dopo l’approvazione, è “in linea di continuità con il provvedimento di amministrazione straordinaria recentemente adottato dalla Bce” e mira a consentire ai commissari “iniziative utili per preservare la stabilità e la coerenza del governo della società, completare il rafforzamento patrimoniale già avviato con l’intervento del Fondo Interbancario dei Depositi, proseguire nella riduzione dei crediti deteriorati e perseguire un’operazione di aggregazione che consenta il rilancio della banca, a beneficio della clientela”.

Fonte: ilfattoquotidiano.it (qui)

Montichiari, Velodromo

Ciclismo, Velodromo di Montichiari tempi lunghi, le manifestazioni pubbliche potranno tornare non prima del 2021.

Prove di carico ok: bando Coni per la copertura con un nuovo telo, lavori pure sul legno della pista. Treviso apre tra un anno.

Vediamo la fine del tunnel. E le otto ore in auto, nella bufera di neve del passo Gottardo in Svizzera, del c.t. Marco Villa con Ganna e Consonni per andare ad allenarsi sul velodromo di Grenchen, resteranno un ricordo. La pista bresciana di Montichiari (di proprietà del Comune) sarà salvata grazie a un intervento rapidissimo dei tecnici di Coni Servizi, che hanno accelerato l’iter per poter utilizzare l’impianto, chiuso dal 24 luglio dalla Commissione di Vigilanza di Brescia per le infiltrazioni di acqua dal tetto. Positive le prove di carico, la struttura metallica è solida: solo in caso di nevicata, con accumulo, ne verrebbe vietato l’ingresso.

I tecnici Coni stanno redigendo il bando con procedura d’urgenza: il tetto del velodromo, intriso d’acqua nell’intercapedine di lana di roccia, verrà coperto e ingabbiato completamente con uno speciale telo plastico. Tempi: 60 giorni. «E saranno fatti lavori di pulizia, stuccatura e levigatura della pista, rovinata dalle infiltrazioni d’acqua, e installate lampade per il riscaldamento — spiega Renato Di Rocco, presidente Fci —. Così entro giugno potremo usare di nuovo la pista per allenarci. Senza pubblico e senza eventi, ma a noi interessa salvare l’avvicinamento all’Olimpiade di Tokyo 2020. Sui costi, siamo tra 400 e 600 mila euro, e con lo stanziamento di 1,8 milioni grazie all’impegno del sottosegretario Giorgetti sul capitolo Sport e Periferie, e alla Regione Lombardia, copriremo sia questo intervento sia il completo rifacimento del tetto che effettueremo non appena aprirà il nuovo velodromo di Spresiano (Treviso): previsioni febbraio 2020. Potremmo così avere due piste per finalizzare la preparazione per i Giochi. Solo dopo, verrà chiuso Montichiari: per rifare completamente il tetto servirà almeno un anno».

Fonte: gazzetta.it (qui)

Anniversari

Tricolore, 222 anni fa nasceva la prima bandiera italiana, in realtà un po’ francese.

 BANDIERA TRICOLORE. Il tricolore italiano, verde bianco rosso, è ritenuto una variante della bandiera della Rivoluzione francese. Adottato da Napoleone per le legioni lombarde e italiane (ott. 1796), poi dalla Repubblica Cispadana (Reggio Emilia, 7 genn. 1797) e da quella Cisalpina (9 luglio 1797). Le altre Repubbliche democratiche sorte tra 1797 e 1799 a Venezia, Genova, Roma e Napoli, non potendo fondersi con la Cisalpina, dovettero invece escludere il verde e adottare altri colori. Il tricolore passò quindi alla Repubblica Italiana(1801) e al Regno Italico (1805-14). Riapparve nei moti carbonari del 1821 e del 1831, divenne la bandiera della Giovine Italia e fu portato in America da Garibaldi. Nel 1848-49, sventolò in tutti gli Stati italiani in cui sorsero o furono desiderati governi costituzionali. Il 23 marzo 1848 Carlo Alberto proclamò il tricolore b. nazionale facendovi inserire, bordato di blu, lo scudo dei Savoia. Tale bandiera rimase poi quella dello Stato sardo, per divenire, nel 1861, la bandiera del Regno d’Italia. Dopo il referendum del 2 giugno 1946 e la proclamazione della Repubblica, lo scudo dei Savoia è scomparso dalla bandiera italiana.

Fonte: treccani.it (qui)

CISALPINA, REPUBBLICA. – Il 29 giugno 1797, il Bonaparte fondava la Repubblica Cisalpina, composta di gran parte dell’antico ducato di Milano, del Bergamasco, del Cremonese, del Modenese. La costituzione della repubblica fu redatta da un comitato composto da elementi di varie tendenze: fu un lavoro che tradiva la fretta con cui era stato fatto, cosicché non si riuscì a fondere i diversi sistemi vigenti e a rendere la nuova costituzione adatta ai bisogni e all’indole delle popolazioni.

Il territorio era stato diviso in dipartimenti denominati dai monti e dai fiumi che attraversano le varie regioni; il potere sovrano risiedeva nei cittadini, che avevano raggiunto i vent’anni, i quali, a mezzo delle assemblee primarie distrettuali e delle assemblee elettorali, concorrevano alla nomina del Gran consiglio, in cui risiedeva il potere legislativo, composto dei seniori e degli iuniori, mentre il potere esecutivo spettava al Direttorio, formato di cinque membri. La giustizia civile era affidata ai tribunali dipartimentali e ai giudici di pace, la penale ai tribunali suddetti col concorso della giuria e dell’accusa pubblica. Un’alta corte di giustizia veniva chiamata a pronunciarsi sulle accuse ai membri del Corpo Legislativo e del Direttorio. La forza armata era costituita dalla Guardia Nazionale e dalle truppe assoldate per arruolamento volontario. Veniva ammessa la professione di ogni culto, senza particolare riconoscimento di quello cattolico.

La costituzione cisalpina, modellata su quella francese del 1795, riuscì pertanto inadatta allo scopo e la giudicò tale lo stesso Bonaparte, che, alla vigilia di promulgare la Costituzione, fuse la Repubblica Cispadana con la Cisalpina, formando così uno stato di circa due milioni e mezzo di abitanti che fu solennemente inaugurato a Milano il 21 messidoro dell’anno V (9 luglio 1797) e Bonaparte ne formò il Direttorio chiamandone presidente il Serbelloni. La Cisalpina accresciuta, col trattato di Campoformio, del Bresciano, del Mantovano e della Valtellina, costituiva uno stato indipendente con leggi proprie e con proprio esercito; ma era di fatto sotto il dominio della Repubblica francese, a favore della quale veniva imposto un esoso trattato d’alleanza. Nel Corpo Legislativo avevano predominio gli elementi più accesi. Ne nacquero gravi malcontenti e disordini, specie nelle campagne; si rendeva perciò evidentemente necessaria una riforma della costituzione. Il Direttorio francese, che intendeva di favorire gli elementi più temperati, inviò a Milano il Trouvé per attuare i suoi propositi, ma questi a nulla riuscì. Violente agitazioni sconvolsero la Cisalpina, le quali culminarono, quando nell’imminenza della guerra fu decretata una leva di novemila uomini, in tumulti, specialmente fra le popolazioni rurali. Intanto gli Austro-Russi, sconfitti il 27 aprile 1799 i Francesi a Cassano d’Adda, entrarono il 28 in Milano, dove s’iniziò la reazione. Venne abolita la Guardia Nazionale, ordinata la consegna delle armi, si rincrudirono le imposte, si decretarono confische, s’imprigionarono i giacobini non emigrati, come il Reina, il Sangiorgio, il Moscati. Fu invocata di nuovo la Francia. Rovesciato a Parigi il Direttorio e subentrato il Consolato, il Bonaparte, accintosi alla riconquista dell’Italia, dopo la vittoria di Marengo ripristinava la Repubblica Cisalpina, che col trattato di Lunéville del 9 febbraio 1801 riacquistava l’autonomia perduta, ma restava in dominio dei Francesi. Rinacquero le contese fra i varî partiti: i demagoghi ricominciarono da capo nelle lotte contro la religione e le tradizioni del passato.

A togliere il disordine e l’indisciplina che regnava tra le truppe, il Teulié, ministro della guerra, cercò d’introdurre serie riforme, ma con scarso esito; invece di procedere a una più equa e razionale distribuzione dei pesi pubblici, si decretarono enormi ed arbitrarie imposte, prestiti forzosi e requisizioni ingiuste da parte dei commissarî di guerra francesi. La seconda Repubblica Cisalpina volgeva così a rovina e si sarebbe sfasciata se non fosse intervenuto il Bonaparte, convocando i deputati cisalpini in Lione: il 14 febbraio 1802 veniva inaugurata in Milano la Repubblica Italiana.

Bibl.: F. Cusani, Storia di Milano, Milano 1861; G. De Castro, Milano e la Repubblica Cisalpina giusta le poesie, le caricature ecc., Milano 1879; C. Cantù, Corrispondenza di diplomatici della Repubblica e del Regno d’Italia, Milano 1884; Le assemblee del Risorgimento, Roma 1911, I, pref. di C. Montalcini.

Fonte: treccani.it (qui)
Politica, Sicurezza, Sinistra

Nordio: “Il rispetto della legge non ammette vecchi show”

La decisione del sindaco Orlando di non applicare il “decreto sicurezza” sull’iscrizione dei migranti nel registro dei residenti, si colloca in quel filone di matrice sofoclea, già inaugurato dal sindaco di Riace, per il quale quando una legge confligge con le proprie idee è cosa buona e giusta violarne la lettera e lo spirito. Naturalmente Sofocle non c’entra nulla, perché Antigone, l’eroina che antepone le norme della sua coscienza a quelle vigenti, non solo si trova davanti un tiranno, ma accetta le conseguenze fatali della sua nobile disubbidienza. Mentre Orlando e gli altri sindaci che lo stanno seguendo non solo hanno di fronte la legge di uno Stato democratico, approvata secondo la procedura prevista dalla Costituzione “più bella dl mondo”, ma invece di dimettersi intendono, come tutti hanno capito, trarre un ipotetico vantaggio politico. 

Non crediamo affatto che questi presunti buoni sentimenti siano stati ispirati dal discorso di Capodanno del presidente Mattarella. Semmai ne offrono una interpretazione faziosa e distorta. Perché il Capo dello Stato, com’era suo dovere, ha ricordato che – nel pieno rispetto delle leggi – esistono doveri di solidarietà, fratellanza e umanità. Il che non gli ha affatto impedito di firmare il decreto che Orlando e compagni intendono disapplicare. 

E questo ci induce a due riflessioni di ordine giuridico. La prima, banale, che il rispetto delle leggi non è la volatile opzione di moralisti sospetti, ma un obbligo vincolante e positivamente sanzionato. La seconda che il giudizio di anticostituzionalità, che giustificherebbe – sempre secondo Orlando – la loro disapplicazione, non solo è prerogativa dell’apposita Corte, ma costituisce una mancanza di rispetto proprio nei confronti di Mattarella che, a rigor di norme, è il primo a delibare sulla loro conformità alla Costituzione. Arrogarsi questo compito, come pare stiano facendo questi sindaci, non è dunque solo un atto giuridicamente illegittimo, ma anche un atteggiamento politicamente offensivo verso la massima carica istituzionale.

Il fatto è che, come la politica non ha sentimenti, così la spregiudicatezza di chi ne maneggia gli strumenti non conosce confini. Perché la “tirade” di questi sindaci sembra proprio l’estremo sussulto di una sinistra sbandata e incerta che cerca annaspando, di riconquistare opinabili consensi e precarie simpatie. Il decreto sicurezza infatti non solo allarga le loro competenze, ma risponde a istanze che da tempo i responsabili delle amministrazioni cittadine hanno, con buone ragioni, avanzato. Mentre la gestione dei migranti ha sollevato, e continua a sollevare, problemi immensi di natura finanziaria e gestionale che le varie Autorità stentano a risolvere per mancanza di mezzi, di coordinamento e di programmazione. Orbene, soltanto la strumentalizzazione ideologica di una falsa solidarietà può evocare lo spettro di una discriminazione razziale, quando è sotto gli occhi di tutti che i Comuni soffocano sotto le difficoltà di una redistribuzione ragionevole di questa massa di stranieri approdati – senza un criterio selettivo – nel nostro Paese.

E qui arriviamo al paradosso più bizzarro. L’unico ad aver capito la gravità del problema, o comunque il primo ad aver provato se non a risolverlo, almeno a contenerlo, è stato il ministro Minniti, fino a ieri candidato a dirigere quel partito democratico che ora, nell’affannosa ricerca di raccattar proseliti, sembra intenzionato a seguire Orlando e De Magistris in questa incauta e rischiosa avventura. Non sappiamo se sia una scelta pagante in termini elettorali. Ma sappiamo che la prossima volta che questi signori sfileranno per le vie cittadine in nome della legalità subiranno l’ennesima derisione dell’irriverente Beppe Grillo e la perfida ironia dell’irruento Salvini. Ed è doloroso dire che se le saranno pienamente meritate. 

Fonte: il messaggero.it (qui)