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Democrazia diretta, Rivoluzione digitale, Tecnocrazia

L’utopia del tecnostato

Nel Cile di Salvador Allende ci fu un esperimento per migliorare il governo attraverso la tecnologia. In anticipo sulla rivoluzione digitale dei nostri giorni.

Nell’epoca della digitalizzazione si direbbe che spesso il futuro si lanci all’attacco del presente. Chi abita il mondo contemporaneo si sente circondato dalla fantascienza, da visioni che lo teletrasportano in un domani che nemmeno sapeva di sognare così ardentemente. Di recente l’innovatore per eccellenza della Silicon valley, Elon Musk, ha realizzato qualcosa che simboleggia bene questa sorprendente eccentricità. Prefigurando in modo straordinario futuri viaggi su marte, ha sparato in orbita un razzo SpaceX con a bordo un’auto tesla Roadster. Da allora un “astronauta” ruota intorno al globo terrestre in diretta streaming: un misto tra Ritorno al futuro e Guida galattica per autostoppisti. Si aprono prospettive magnifiche: luttuare nello spazio privo di gravità “all watched over by machines of loving grace”, come nella poesia di Richard Brautigan.

Anche al di là di questi fanciulleschi as- salti al cielo siamo costantemente messi di fronte alle potenzialità del futuro. Inquie- tanti alleanze tra le grandi aziende tecnologiche e i governi – un misto di multinazionali, centri studi e istituzioni statali – generano continuamente utopie “inaudite”, con tanto di promesse digitali che ci rimandano a una società smart in modalità “benessere automatico”.

Ma osservandoli da vicino, questi orizzonti fantastici hanno già l’aspetto di seplici cicli che si ripetono. Il luccichio di tante pretese d’innovazione serve solo a occultare un passato pieno di costellazioni di idee che fanno apparire le città e gli stati completamente digitalizzati di oggi come fantasmi tornati vivi e agghindati. Da molto tempo ormai i pionieri della tecnologia non fanno che sognare uno stato reso perfetto dagli strumenti tecnologici. Quindi è più facile valutare gli scenari futuristici di oggi dando uno sguardo alla storia. Per esempio al Cile socialista di Salvador Allende, tra il 1970 e il 1973, un periodo in cui non solo i conini tra fantascienza e scienza erano labili, ma gli ideali erano davvero nuovi.

Tra i protagonisti c’era uno dei perso- naggi più notevoli della storia della cibernetica e allo stesso tempo il suo enfant terrible: lo studioso e consulente aziendale britannico Staford Beer. I suoi scritti non solo misero le ali all’immaginazione scientiica degli anni cinquanta e sessanta del novecento e ispirarono musicisti come David Bowie e Brian eno. Stanno anche tornando alla ribalta. Recentemente, per esempio, Geof mulgan, l’esperto d’innovazione sociale e del centro studi Nesta, ha sottolineato quanto siano ancora attuali la igura di Beer, la sua “teoria grandiosa” e i suoi “brillanti lampi di genio”. Secondo mulgan, ancora oggi Beer riesce a spingere i governi a “creare nuovi collegamenti tra le componenti del sistema e a fare poi il salto verso un nuovo modo di fare le cose”.

Lo stesso Staford Beer oscillava tra due estremi: da un lato era uno spirito inquieto, barba lunga e tendenze socialiste, che dipingeva a olio, praticava yoga e scriveva poesie memorabili, anche sul calcolo costi- beneici. Dall’altro era noto per essere un appassionato di Rolls Royce e sigari, e per chiedere diarie da 500 sterline che, al cambio di allora, corrispondevano a circa 4.300 euro. Fece carriera fino a diventare uno dei consulenti aziendali più richiesti del suo tempo a livello internazionale. Non a caso si arrivò a parlare di lui come dell’uomo che avrebbe potuto governare il mondo.

Questo ambiguo gaudente, però, non deve la sua popolarità all’aura carismatica, se non secondariamente, ma al suo spiccato interesse per le organizzazioni e i sistemi complessi. L’ingegnere con il pallino dei computer seppe applicare eicacemente all’ambito aziendale quello che aveva ap- preso dal matematico Norbert Wiener sulla cibernetica, la scienza del controllo e della trasmissione delle informazioni negli esseri viventi e nelle macchine. Negli anni cinquanta Beer fondò l’istituto di ricerca operativa più grande del mondo, sviluppò sistemi informatici tecnologici per fabbriche fondati sulla logica del feedback. Più avanti scritti come Cybernetics and management e Brain of the irm ne fecero l’inventore della cibernetica per l’amministrazione.

I successi di Beer in campo economico suscitarono l’interesse dei governi per la sua innovativa teoria dell’organizzazione, incoraggiandone le ambizioni. All’inizio degli anni settanta, su incarico del presi- dente cileno Salvador Allende, Beer diventò il padre spirituale del progetto Cybersyn, una macchina per la democrazia diretta. Un progetto in cui non solo si manifestò lo spirito che segretamente avrebbe animato le successive fantasie di controllo dello stato digitale, ma che, senza averne intenzione, riuscì anche a sfiorare il grado zero della politica.

Cybersyn era un’utopia nata dalla necessità: un’“internet socialista” per dare nuovo ordine alla precaria situazione economica cilena che, in seguito alla svolta socialista, aveva afrontato riforme agrarie, nazionalizzazioni di banche e un embargo commerciale da parte degli Stati Uniti. Come ha scritto il teorico dell’informazione Claus Pias, c’era bisogno di una “rivoluzione per mettere ine alla rivoluzione”. ma come poteva funzionare? Da un lato Allende, che si barcamenava tra destra e sinistra, conservazione e progresso; dall’altro Beer, stretto tra eicienza e inefficienza, ordine e disordine. Da un lato Allende, che considerava la libertà un princi- pio regolatore; dall’altro Beer, che la considerava solo “una funzione programmabile dell’eicienza”. eppure, proprio a causa di questi contrasti, il futuro ministro dell’economia cileno Fernando Flores ritenne che Beer fosse la scelta ideale per rendere la complessa teoria dei sistemi una “scienza al servizio dell’uomo”.

L’algoritmo perfetto

Sulla carta politici cibernetici come Karl Deutsch già negli anni sessanta fantasticavano sul governo come sistema autonomo. A partire dalla fine del 1971 in Cile una squadra di designer, ingegneri e programmatori si dedicò a mettere in pratica questa teoria. In quanto condizione della “paciica via cilena al socialismo”, l’impresa avrebbe dovuto rendere possibile addirittura il coordinamento cibernetico della produzione, la mano visibile del mercato. Usando le classi- che formule sintetiche di oggi forse diremmo che si cercava un algoritmo perfetto capace di dare sostegno allo stato.

Per svolgere l’incarico, Beer si lasciò guidare da due idee cardine: quella di un sistema decisionale basato su informazioni trasmesse in tempo reale (la liberty machine) e quella di una struttura di sistemi parzialmente autonomi capaci di adattarsi in modo lessibile a situazioni contingenti (il viable system model). Partendo da questi elementi fu progettato il cosiddetto Cybernet, una rete informatica di telescriventi che connetteva le fabbriche del paese e che – come una sorta di sistema satellitare – trasmetteva via radio i dati della produzione al grande calcolatore centrale a Santiago.

Il pezzo forte di Cybersyn era la sua visione, in anticipo sui tempi, di una centrale operativa futuristica in cui raccogliere, aggregare ed elaborare i dati economici del paese: la leggendaria Opsroom. A guardarla sembra la fusione di una cupola geodetica in stile hippy, dell’astronave Discovery One di Kubrick e della passerella della nave stellare enterprise; mancavano gli extraterrestri, ma in compenso bastavano le sedie tulip rosse a trasmettere ben più di un sentore di futuri felici.

La loro disposizione circolare non era gerarchica ma ugualitaria e i loro accessori – un posacenere per i sigari e un portabic- chiere da cocktail – si adattavano perfetta- mente allo stile di vita lussuoso dell’inventore. Il designer tedesco Gui Bonsiepe, coinvolto nel progetto, parlava con entusiasmo della leggera “atmosfera da salotto” in “bui colori”: nella centrale di comando da cui gestire l’economia di un intero stato non vedeva solo un future panel, ma anche un “bar per il pisco sour e cose simili”.

La massima di questo circolo era: “la forma segue la funzione”. Numero e design delle sette sedie girevoli avrebbero dovuto stimolare la nascita di una “squadra massimamente creativa” (Beer), ofrendo lo spazio necessario all’attività degli spiriti liberi ma soprattutto aprendo una prospettiva a tutto tondo. Ovunque ci si girasse, gli schermi incastonati nelle pareti fornivano

in tempo reale dati sui livelli della produzione, sulla circolazione delle informazioni e sulle interruzioni nella distribuzione. In questo nuovo regime del sapere luido, il burocrate lento e poco trasparente era una sorta di nemico di classe: la carta, scriveva Beer con convinzione, d’ora in poi è “bandita”. La risposta era il lusso di dati.

Con i lussi di dati si voleva ricondurre il caos all’ordine, velocizzare l’amministrazione e condurre il governo in acque più calme e navigabili, nel dolce ronzio dei calcolatori. tutto questo seguendo princìpi progressisti: ogni lavoratore, non solo un’élite appositamente formata, doveva poter dirigere la “macchina delle decisioni” (Beer) usando i dieci bottoni colorati posti nel bracciolo di ciascuna sedia. La trasparenza e chiarezza erano importanti quanto la validità dei dati, e perciò lo stesso design della rete andava incontro all’utente (non molto diverso dallo slogan della Apple let’s make it simple, facciamola semplice), aiutandolo a risolvere i problemi in maniera veloce, pragmatica e quasi intuitiva. Insomma, “decisione e controllo” non era solo il titolo di un libro di Beer, ma anche una buona pratica.

Anche il programma Cyberfolk, vero e proprio predecessore degli attuali feedback in tempo reale come quelli di Facebook, faceva parte di quella dotazione a misura di cittadino che caratterizzava il progetto. Si trattava di uno strumento per misurare gli umori politici che rendeva possibile il “governo psicocibernetico della società” (Pias), consentendo a cittadine e cittadini, per esempio durante un comizio trasmesso in diretta, di comunicare le loro reazioni emotive positive e negative attraverso un tasto sul televisore. mentre le votazioni dell’“assemblea popolare elettrica” venivano mostrate al popolo cileno, i “desideri delle persone” (Beer) sarebbero apparsi in forma matematicamente valutabile anche sullo schermo felice/infelice nella Opsroom. In questo modo lo stato cibernetico, legittimato attraverso la democrazia diretta, si sarebbe potuto dirigere da una metaprospettiva sistemica – cioè comodamente seduti sulle confortevoli poltroncine – e senza neanche dover lasciare il pianeta terra.

La visione a 360 gradi che Beer progettò per la stazione di controllo non doveva mostrare solo gli umori momentanei e i dati sulla produzione. Come indicava già il previsore antiaereo di Norbert Wie- ner, doveva rendere calcolabile anche quello che non c’era ancora, rendere gestibili gli imprevisti. Insomma la cibernetica, che è anche alla base delle attuali stazioni di controllo digitali, è un’arte di governo basata su anticipazioni e interventi quasi impercettibili; è un modo di procedere che mira al dominio dei lussi d’informazione e, se serve, aggiusta i lussi di dati. Di conse- guenza ai controllori nell’Opsroom non si richiedeva l’imposizione autoritaria di quello che era stato pianiicato, ma l’adattamento alle circostanze, la lessibilità in caso di anomalie: rivedere, riprogrammare, migliorare. Lo scopo primario era sempre la tenuta del sistema.

La prova

Nell’autunno del 1972 arrivò il banco di pro- va per la tenuta del sistema di Allende. Cybernet fu usato con successo per la prima volta, ma sarebbe stata anche l’ultima. Decine di migliaia di trasportatori scioperaro- no per settimane mettendo a rischio l’approvvigionamento della popolazione. ma la rete delle telescriventi consentì di coordinare la produzione evitando così il caos no-ziale emancipatorio della tecnica sono rimaste ino a oggi insuperate.

Nella storia di questo “sogno speciale di un socialismo cibernetico” (eden medina), l’ironia sta nel fatto che i semi di Beer porta- no nuovi e discutibili frutti solo nel nostro presente integralmente votato al capitalismo della sorveglianza, in cui davvero tutto è connesso e collegato. È vero che anche oggi ioriscono teorie postcapitaliste sulla “necessità” di una post-work society, una società del postlavoro (Paul mason o Nick Srnicek) o addirittura di un “comunismo di lusso totalmente automatizzato”. ma non sono certo solo le concezioni socialromantiche a sostenere che la raccolta di grandi quantità di dati e gli algoritmi siano una so- luzione catartica, principalmente al “problema” della politica.

Proprio negli ambienti della scienza politica più pragmatica si sostiene spesso che il mondo sia ormai troppo complesso per forme di rappresentanza democratica tradizionale. I dibattiti classici sarebbero trop- po lenti e pressoché incapaci di produrre decisioni. Insomma, non ci sorprende che versioni sempre più ambiziose di uno stato tecnologicamente soisticato si afaccino sul mercato delle idee.

Governo snello

La “tecnocrazia diretta” del consulente po- litico Parag Khanna e lo “stato intelligente” proposto da Beth Noveck, direttrice del centro di ricerche GovLab ed ex consigliera di Barack Obama, seguono gli approcci più rivoluzionari del governo snello: sono concezioni che applicano alla politica le con- quiste del mondo della comunicazione digitale, sposando in toto la tendenza neoliberale per cui i compiti dello stato sono affidati a servizi privati. È vero che la continua intromissione delle multinazionali tecnologiche sul terreno della sovranità degli stati – si pensi a Google, che sta ristrutturando il sistema della scuola pubblica statunitense e ricostruendo secondo le sue necessità un intero quartiere di toronto – continua a provocare una strisciante inquietudine nell’opinione pubblica più critica. D’altra parte chi teorizza uno stato caratterizzato dalla partnership pubblico-privato, ritiene ancora che una piattaforma come Facebook, che ha più di due miliardi di utenti, sia una vivace fonte d’ispirazione per aggiornare Cybersyn in modo intelligente. e ritiene che lo scandalo di Cambridge Analytica sia solo una fastidiosa sbavatura.

Nei suoi modelli Noveck concepisce lo stato stesso come un social network, le cui istituzioni e i cui servizi non solo sono automatizzati, ma possono anche essere valutati direttamente dal cittadino attraverso lo smartphone come “esperienza di governo incentrata sull’utente”.

Come in un negozio online, seguendo la logica delle recensioni si potrebbero aggiungere facilmente stelline, pollici alzati e commenti critici in un esteso sistema di interconnessioni passando per la “macchina decisionale” individuale. Insomma, anche Beth Noveck vorrebbe che, con l’aiuto di social network come Linkedin o twitter, l’individuo avesse finalmente la possibilità di “partecipare al governo”. Le procedure amministrative in questo modo sembrerebbero più trasparenti e aperte e avrebbero maggiore legittimazione. Come imma- gina Khanna per il suo stato ideale, le procedure potrebbero seguire complessivamente i Key performance indicator, gli indicatori di prestazione che si usano nelle aziende.

Dialettica e contrattazione

Se una volta tutti sapevano che la politica implicava dei grandi grattacapi, l’interconnessione globale ha aperto l’epoca della liquidità smart, in cui sembra possibile una postideologica “democrazia senza politica”. Questa condizione permette di governare in modo efficiente e senza attriti, e infatti Khanna non è solo un grande ammiratore della Cina e di Singapore, ma anche della Svizzera, perché lì, dice, gli scioperi creano pochi disagi. È vero che nella “democrazia come dati” di Khanna le elezioni sono ancora previste, ma secondo lui sono “retrograde” e non sono lo “strumento migliore per cogliere l’umore prevalente”. Sarebbero più utili analisi immediate in tempo reale basate sui social network o dati di controllo tratti dall’economia e dalla società, “tendenzialmente più signiicativi” di qualsiasi plebiscito. In ultima istanza, gli “algoritmi intelligenti” sembrano “preferibili ai politici stupidi”, e perciò Khanna, di fronte a fenomeni d’irrazionalità politica come l’elezione di Donald trump, onnipresente su twitter, consiglia la partecipazione diretta al governo da parte di Watson, il supercomputer, una versione ben più potente del predecessore cileno.

Una delle utopie più radicali è stata formulata recentemente dalla star degli inve- stimenti tim O’Reilly, che ha proposto di ridisegnare le “vecchie” istituzioni, del resto nient’altro che “distributori di bevande”, secondo la concezione del “governo come piattaforma”. Negli ultimi tempi idee simili hanno trovato un certo seguito perfino nell’ambito di serissimi congressi specialistici tedeschi: anche qui sono stati illustrati lo “stato come piattaforma per gli ecosistemi” o, ricordando Noveck, “lo svolgimento online delle pratiche burocratiche come esperienza personalizzata”. ma il modello di stato proposto da O’Reilly prevede un sistema operativo più ampio: un meccanismo di algoritmi sul modello di Airbnb, che organizzi e soprattutto gestisca la società intera seguendo le valutazioni e il costante flusso di punteggi che producono. Lo scopo sembra essere una sorta di “magazzino di credito sociale” che, unendo spirito capitalista e controllo cibernetico, sostituisca la democrazia rappresentativa parlamentare e infine la superi.

Se Beer ancora metteva in guardia con insistenza dall’inclusione delle imprese private nel processo politico (dato che non hanno come scopo il bene comune), se i signori seduti nelle sedie tulip dell’Opsroom erano ancora rappresentanti eletti dal popolo, nel nostro presente interamente pervaso dalla merciicazione la sua progettualità cibernetica finisce per tradursi in un nuovo tipo di tecnocrazia: una cabina di regia neocibernetica, dove ad avere voce in capitolo non sono più gli “esperti”, ma la tecnica stessa.

Di fronte a questi deliri efficientisti non bisogna subito pensare agli abissi audacemente distopici della serie tv Black mirror. Eppure il traguardo ultimo dell’interconnessione totale è un decisivo cambio di paradigma che conduce a un ordinamento numerico in cui non c’è spazio per la politica, ma al limite per la logistica: qui le decisioni si prendono usando cicli continui di valutazioni automatizzati. Usando le parole di Khanna, in questa res publica ex machina il motto è “la connettività è destino”.

Questo è lo sfondo che fa del progetto Cybersyn, a discapito di tutte le sue aspirazioni emancipatorie, il primo vero momento di svolta a partire dal quale una convinzione si è inscritta sempre più a fondo nell’immaginario collettivo: l’idea che la tecnica possa fornire le migliori soluzioni ai problemi politici; che, come dice lo slogan “prima il digitale, poi le perplessità”, quel legno storto di cui è fatto l’uomo si

possa raddrizzare solo attraverso un sur- plus di interconnessione, di automatizzazione e di loop di valutazioni.

Da Noveck a O’Reilly, le più recenti narrazioni paradigmatiche sembrano riflettere in maniera stranamente distorta gli ideali di Beer. Sono utopie nel vero senso della parola: non-luoghi che spacciano un’architettura del controllo per democrazia totale, per elettronica elastica della vita quotidiana, a cui, in fondo, può partecipare solo chi si connette condividendo. La politica appare dunque non più pensata a partire dall’individuo, ma a partire dai suoi apparati. e così dipendiamo interamente “dalle creature che abbiamo messo al mondo” (Goethe).

In tutto ciò passa inosservato – e queste linee di frattura si rilettono già nella “fantascienza governativa” cilena (Burkhardt Wolf ) – il fatto che la democrazia non è appunto semplice tecnica organizzativa, non si può concepire come una tirannia delle quantità o come un lusso continuo di like e di clic. La democrazia si oppone a un pensiero che assolutizza l’eicienza, perché rimane fragile e sfugge a qualsiasi calcolo; perché continua a suscitare dibattiti e non si può deinire una volta per tutte. Al centro di quest’ordine politico, che pur essendo deicitario è migliore di ogni altro, dovrebbero rimanere la dialettica degli antagonismi, i processi di comprensione, la contrattazione delle posizioni politiche e la distribuzione del potere, non un mondo 2.0 che deve solo essere amministrato.

In questa prospettiva l’utopia cilena sembra l’ombra di un futuro ormai passato che, per un momento, ha promesso più di quanto non po- tesse mantenere. È una lezione di storia: parafrasando marx si è data la prima volta come tragedia per ripetersi ora come farsa. È una lezione che ci mostra come un ritorno a utopie tecnologiche realmente gravide di futuro sia ben più dificile del ritorno a casa dell’astronauta di Elon Musk. ma forse, alla fin fine, lo scopo di questo spensierato pilota automatico è proprio questo: preferisce fluttuare lontano, godersi la vista della nera assenza di gravità e girare eternamente intorno al sole sulle note di Space oddity, seguendo una traiettoria stabilita sempre in anticipo.

 

Da Republik articolo di Anna-Verena Nosthof e Felix Maschewski

Innovazione, Rivoluzione digitale, Società

Senso civico a punti. Un ranking per tutti. La sperimentazione a Suqian (Cina). Ecco come il Governo cinese controllerà la popolazione.

 

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A Suqian, una metropoli di cinque milioni di abitanti, si sta sperimentando un sistema di valutazione dei cittadini basato sui crediti. E su nuovi strumenti di sorveglianza.

Ha i capelli neri corti che comin- ciano a ingrigire sulle tempie, le sopracciglia spesse e le rughe sulla fronte, e sembra preoccupato. Il giorno della sua foto identiicativa Jiang indossava una camicia a quadri rossi e neri. Il 3 maggio alle 11h 01’ 16’’, all’incrocio tra Weishanhu lu e Renmin Dadao, a Suqian, Jiang ha attraversato con il semaforo rosso. Il giorno dopo il suo volto compariva su schermi di tre metri quadrati sistemati in corrispondenza di decine di incroci della città. La sua foto si alternava a quella di Li e di altri passanti che avevano attraversato con il rosso. Il 3 maggio Jiang e Li, di cui sono stati resi noti solo i cognomi, hanno già perso 20 dei mille punti della loro pagella di aidabilità. Per recuperare i “crediti socia- li” dovranno dimostrare il loro senso civico donando il sangue, distinguendosi come lavoratori modello o compiendo delle “buone azioni”.

A Suqian, una città con cinque milioni di abitanti nella regione costiera di Jiangsu, a nord di Shanghai, si sta sperimentando un sistema di valutazione per migliorare la fiducia tra i cittadini. Dando un voto ai comportamenti, le autorità vorrebbero spingere i cittadini a essere più “civili” e corretti.

Si stanno provando diversi sistemi. Le istituzioni cinesi (banche, assicurazioni, tribunali, aziende di trasporti) sono invitate a stilare liste di persone che hanno viaggiato senza biglietto, non hanno saldato un debito o hanno danneggiato qualcuno; persone a cui è vietato prendere un treno ad alta velocità o un aereo, o alloggiare in albergo. In alcune città anche le imprese devono superare un esame e ricevere una valutazione prima di poter partecipare a una gara d’appalto. Il progetto più inquietante, ma più vago, prevede di estendere il sistema di valutazione a tutti i cinesi.

Limiti legali

La città di Suqian è un ottimo esempio della politica del governo e dei suoi limiti. Il 20 aprile tutti gli abitanti tranne quelli con precedenti penali hanno ricevuto una valutazione su una scala da zero a mille punti in base alle loro azioni. Donare il sangue fa guadagnare cinquanta punti, come anche fare volontariato, ricevere un’onoriicenza da “lavoratore modello” o soccorrere qual- cuno in diicoltà. Al contrario pagare le bollette in ritardo può far perdere tra i quaranta e gli ottanta punti.

A quanto pare avere precedenti penali o aver commesso delle infrazioni costa tra i cento e i trecento punti. Un voto positivo dà diritto a riduzioni sull’abbonamento ai mezzi pubblici, a un accesso prioritario all’ospedale, a ingressi gratuiti nelle strutture sportive della città. Un voto negativo, invece, non cambia niente: a questo stadio il sistema svolge solo una funzione d’incoraggiamento, a diferenza di quello che sembrerebbe affermare la propaganda, anche a Suqian.

All’ingresso del municipio su un grande schermo rosso scorrono slogan in giallo. Uno recita: “Le persone aidabili possono camminare serenamente sotto il cielo, chi non è degno di fiducia non può muovere un solo passo”. È tratto dal documento che presenta il progetto, pubblicato dal consiglio degli affari di stato nel 2014.

La realtà però è più complessa. “Forse a qualcuno del governo piacerebbe avere una sorta di panottico, un occhio in grado di vedere tutto, ma altri si sono resi conto che non sarebbe legale e che i cittadini non approverebbero il progetto”, sottolinea Jeremy Daum, ricercatore specializzato in diritto cinese e autore del blog china law traslate, che si occupa spesso del tema. “Il progetto è dovuto passare al vaglio di giuristi, consapevoli che è impossibile introdurre delle sanzioni senza alcun fondamento legale. Per renderlo conforme alla legge hanno dovuto ridimensionarlo”.

Resoconto di affidabilità

Al municipio di Suqian, un grande ediicio moderno, hanno creato uno sportello unico per le questioni relative ai crediti sociali. Dietro a una scrivania una giovane impiegata sorridente mostra l’app sul suo cellulare: ha 1020 punti. gli utenti sono soprattut- to imprenditori o insegnanti che devono farsi rilasciare il loro “resoconto di affidabilità” per proporsi per un posto di lavoro o avviare un’impresa. ma questo documento, con valore legale, si limita a indicare che è tutto in regola. Le persone intervistate giudicano positivo il sistema e ripetono in coro la propaganda uiciale.

Il sistema non è un po’ intrusivo? “Sono informazioni che l’amministrazione possiede già”, minimizza una quarantenne dai lunghi capelli neri che vuole aprire un salone di parrucchiere. “non vedo cosa ci sia di male, così le persone saranno incentivate a essere più educate e a fare più attenzione”. Lin Junyue, il teorico del sistema dei crediti sociali, respinge ogni accusa: “In cina sono le persone famose, le élite, gli uomini d’affari a chiedere il rispetto della privacy. I contadini e gli operai se ne fregano della vita privata”.

L’aiuto dei big data

In principio il sistema era stato pensato per il mondo dell’economia. La rilessione sul tema era cominciata alla ine degli anni no- vanta, nel mezzo della crisi dei mercati asiatici. Il rallentamento economico aveva fatto emergere dei problemi di fondo, na- scosti ino a quel momento da una forte crescita. “In passato la cina si fondava sul co- munismo, con meccanismi di controllo molto rigidi. ma la rivoluzione culturale ha fatto precipitare il paese nel caos. Dopo il periodo delle riforme e dell’apertura, dal 1978 in poi, la cina è entrata nell’economia di mercato senza stabilire dei criteri di aidabilità. Le persone si sono arricchite, ma la iducia non c’è: secondo una ricerca recente condotta dall’Accademia delle scienze so- ciali cinese, il 70 per cento dei cinesi non si fida dei connazionali né delle istituzioni pubbliche”, precisa Lin Junyue, oggi direttore del dipartimento dei crediti sociali per china market society, un centro studi go- vernativo.

Il padre del progetto, che ci lavora da 19 anni, riconosce i limiti delle sperimentazioni attuali. “Le amministrazioni locali a volte ricorrono a misure eccessive contro chi ha commesso delle infrazioni, per esempio esponendo il suo nome su megaschermi. Questo però ha accelerato il pagamento delle multe in un caso su quattro. con i mezzi legali abituali si sarebbero avuti questi risultati? gli eccessi sono comprensibili, il sistema è in fase sperimentale, serviranno vent’anni, forse cinquanta perché sia messo a punto. nell’attesa, chi pensa di aver subìto un torto può comunque fare causa alle autorità locali”, dice.

Il progetto non ha fatto molti progressi ino al 2012, quando il presidente hu Jintao ha accennato a un sistema di valutazione del livello di aidabilità delle persone, delle imprese e delle amministrazioni locali. nel 2014 è stato pubblicato un piano d’azione e il progetto è stato portato avanti dal suo successore, Xi Jinping, che continua a raforzare l’autorità del Partito comunista e il controllo della società. L’era dei big data, la digitalizzazione e l’abbon- danza di dati disponibili lo aiutano. Il termine “credito” è diventato però anche un concetto alla moda, usato per designare progetti di ogni genere, pubblici o privati, come il “credito sesamo”, rilasciato dal gigante del commercio online Alibaba ai clienti delle sue piattaforme.

I voti alle aziende

A Suqian si valutano anche le aziende. come le società quotate in borsa o gli stati, giudicati da agenzie di rating, le imprese locali che vogliono partecipare a gare d’ap- palto devono prima essere valutate da agenzie specializzate che daranno un voto da AAA a D. Finora una ventina di aziende si sono sottoposte a questo esame, che riguarda sia l’area inanziaria sia la conformità delle loro pratiche alle norme sociali e ambientali. La Suqian Tongchuang credit guarantee è l’unica agenzia di valutazione di stato. Una garanzia di qualità, assicura una giovane impiegata.

Sullo stesso piano dello sportello unico, un altro dipartimento propone prestiti alle aziende. In una stanza c’è una parete coper- ta di schermi che trasmettono in diretta le immagini delle telecamere di sorveglianza installate nelle fabbriche dei clienti. “I prestiti sono garantiti dagli inventari dei nostri clienti. Li teniamo sempre sotto controllo”, spiega un giovane impiegato seduto davan- ti agli schermi. “Se un imprenditore disonesto tentasse di vendere tutto per poi sparire, noi potremmo agire rapidamente”, spiega. Il controllo dei clienti è molto serrato. “Se l’ammontare del prestito è alto, mandiamo anche dei nostri dipendenti nelle fabbriche”. In cina non regna la fiducia.

Da Le Monde, Articolo di Simon Leplatre

Cultura, Economia

Ezra Pound e l’economia

EzraPound
Riscoprire il pensiero economico di Pound è l’unico modo per smettere di adorare la moneta come un dio, abbandonare la finanza e non essere più costretti a far guerre per gli ignobili capricci degli usurai.

In Italia, a dispetto di quello che una certa storiografia vorrebbe farci credere, il periodo che intercorse tra le due guerre fu tra i più fecondi e pregni di confronto ideologico. Pur all’interno di quelle che oggi verrebbero considerate limitazioni inaccettabili delle libertà personali, il dibattito culturale fu animato da una profonda e autentica sete di conoscenza. Tra i vari campi, l’economia spicca sicuramente tra le discipline più approfondite e dibattute. Lo stesso Massimo Finoia, storico del pensiero economico, scrive a chiare lettere: A testimonianza che questi anni non sono un periodo di autarchia culturale basta esaminare i dodici volumi, pubblicati dal ’32 al ’37, dalla -Nuova collana di economisti stranieri e italiani- della Utet, diretta da Bottai e Arena.

Nomi classici dell’economia come Jevons, Menger e Marx, insieme ai più contemporanei Keynes, Shumpeter, Hicks o Frisch volavano di bocca in bocca nell’ambiente economico dell’epoca e senza quel pregiudizio di superiorità a cui gli ambienti accademici-finanziari ci hanno abituato ai giorni nostri. Un confronto autentico che raggiunse il suo massimo nella prima, e ancora libera da implicazioni politiche, apparizione italiana di Ezra Pound. Il poeta americano fu infatti invitato dalla Bocconi di Milano e dalla rivista Rassegna Monetaria ad esprimere il proprio punto di vista riguardo la particolare congiuntura economica del periodo.

L’occhio attento di un cittadino americano di non comune spessore intellettuale non fu di certo disprezzato e il ciclo di conferenze bocconiane insieme agli articoli su Rassegna Monetaria diedero le risposte che il mondo economico italiano cercava in merito alla crisi di sovrapproduzione  del ’29. Nei suoi scritti e nei suoi discorsi, Pound, tratteggia il proprio pensiero economico infarcendolo di visioni poetiche e storiche ravvivando la lugubre scienza con quel calore umano che l’imposizione ortodossa gli ha sempre negato. Giano Accame sottolinea benissimo questo aspetto in un saggio di qualche anno fa:

[…] anche se della lugubre scienza sono intrisi i Cantos, al punto che è impossibile capirli senza conoscere le sue teorie economiche.

Ma andiamo con ordine e analizziamo la base culturale del pensiero poundiano. L’insieme delle tesi, diciamo così, rivoluzionarie di fine ‘800 fanno da sfondo e impalcatura a quelle del nostro e personaggi come gli inglesi Orange e Douglas e l’austriaco Gesell riuscirono finalmente ad attirare l’attenzione del mondo economico. Del primo venne ricordata l’ideazione di un socialismo corporativo e del secondo la differenza tra credito reale e finanziario che insieme al concetto di proprietà popolare della moneta di Gesell stigmatizzano il pensiero economico del poeta.

Pound critica aspramente le divisioni del mondo economico eterodosso, un mondo che, a detta sua, non riuscì mai ad imporsi proprio per la sua enorme litigiosità:

Non insisto sulle marchette. Posso ben vivere senza il piacere di adoperare una seconda varietà di francobolli.

Il riferimento è all’idea di Gesell, che ogni settimana voleva tassare le sue banconote applicandovi una marca per centesimo del loro valore, indubbiamente un tentativo di difficile realizzazione e che distraeva l’attenzione dal vero problema, riportare la moneta al servizio del popolo e non viceversa. Quest’ultima idea fu sempre al centro dei pensieri e della poetica di Pound, come liberare l’uomo comune dal cappio della proprietà della moneta, come liberarlo dall’usura dell’anima?

Domande ardite a cui la netta separazione tra lavoro, o credito, reale con il profitto derivante da attività finanziaria in senso stretto permise di cominciare a rispondere. Il credito reale per Pound è l’insieme della popolazione di una nazione, la sua capacità produttiva ma anche la sua cultura, le sue tradizioni che in nessun modo potevano e dovevano essere contaminate da profitti di origine squisitamente finanziaria, gli interessi sul capitale non sono frutto del lavoro e come tali non esigibili. Del resto il popolo americano aveva più di qualcosa da rinfacciare al mondo finanziario di quel periodo e lasciando parlare sempre Pound è difficile non notare che

[…] il grande inconveniente per la metà del mio popolo è che non può permettersi di acquistare quello che produce l’altra metà […] in un paese dove l’abbondanza affama.

Concetti chiari e netti che non lasciano spazio a dubbie interpretazioni e che non potevano non spostare l’attenzione del loro ideatore sul primo tentativo di renderli possibili. Del resto è impossibile non fare accostamenti tra il pensiero economico/sociale di Pound e quello che l’Italia fascista cercava di inculcare ai vari strati della sua società in quel periodo. Sempre per citare Accame:

[…] la politica economica italiana fu tra le più ricche di interventi originali contro gli effetti indotti della grande depressione; con l’impiego pre-keynesiano dei lavori pubblici come valvola di decompressione della disoccupazione, i salvataggi di banche ed industrie, una notevole inventiva istituzionale nella creazione di enti economici a sostegno dell’azione pubblica.

Pound non fu di certo cieco di fronte al titanico sforzo italiano di liberare l’economia dalle pastoie liberali di inizio ‘900 tanto da presentare il fascismo come la variante più equilibrata ed attuabile del socialismo reale. In un altra sua opera del periodo, Jefferson e Mussolini, possiamo infatti leggere:

Quanto ai costumi finanziari, direi che un paese dove tutto era praticamente in vendita, è stato in dieci anni trasformato da Mussolini in un paese dove sarebbe estremamente pericoloso tentare di compare il governo.

Una scelta di campo ben precisa e che, come è noto, lo porterà ad affrontare con enorme dignità anche la prigionia in manicomio nel secondo dopoguerra. Una scelta di campo dettata dalla visone del fascismo come eticità e ponderazione umana nei confronti del bestiale binomio capitalismo-comunismo. Una scelta di campo per lo spirito e contro la materia, dove per spirito bisogna intendere l’insieme di sentimenti e aspettative di un popolo tutto, non importa se italiano o americano, basta che sia quello del sangue, basta che sia quello che sceglie la tradizione umana a dispetto delle false sirene dell’oro.

…Usura soffoca il figlio nel ventre

arresta il giovane drudo,

cedo il letto a vecchi decrepiti,

si frappone tra i giovani sposi

                                  CONTRO NATURA

Ad Eleusi han portato puttane

Carogne crapulano

ospiti d’usura.

Da l’Intellettuale Dissidente Articolo di A. Scaraglino (qui)

Giustizia

“La verità, vi prego, su chi ha ucciso mio padre”. Le 13 domande di Fiammetta Borsellino

La figlia del giudice che fece tremare la mafia solleva, dalle colonne di Repubblica, tutti gli interrogativi sull’attentato che costò la vita al padre.

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Paolo Borsellino (Foto AGF)

Tredici domande, un dito puntato tredici volte per chiedere, oggi come allora, la verità su uno dei delitti di mafia più ricordati. Ricordata, la strage di via D’Amelio del luglio di 26 anni fa, ma non conosciuta, perché sconosciute restano ancora troppe cose, e Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, l’uomo che fece tremare la mafia, torna a chiedere dalle colonne de La Repubblica che si diano delle risposte certe.

Con tredici dure e dirette domande. Eccole:

1. Perché le autorità locali e nazionali preposte alla sicurezza non misero in atto tutte le misure necessarie per proteggere mio padre, che dopo la morte di Falcone era diventato l’obiettivo numero uno di Cosa nostra?

2. Perché per una strage di così ampia portata fu prescelta una procura composta da magistrati che non avevano competenze in ambito di mafia? L’ufficio era composto dal procuratore capo Giovanni Tinebra, dai sostituti Carmelo Petralia, Annamaria Palma (dal luglio 1994) e Nino Di Matteo (dal novembre ’94).

3. Perché via D’Amelio, la scena della strage, non fu preservata consentendo così la sottrazione dell’agenda rossa di mio padre? E perché l’ex pm allora parlamentare Giuseppe Ayala, fra i primi a vedere la borsa, ha fornito versioni contraddittorie su quei momenti?

4. Perché i pm di Caltanissetta non ritennero mai di interrogare il procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco, che non aveva informato mio padre della nota del Ros sul “tritolo arrivato in città” e gli aveva pure negato il coordinamento delle indagini su Palermo, cosa che concesse solo il giorno della strage, con una telefonata alle 7 del mattino?

5. Perché nei 57 giorni fra Capaci e via D’Amelio, i pm di Caltanissetta non convocarono mai mio padre, che aveva detto pubblicamente di avere cose importanti da riferire?

6. Cosa c’è ancora negli archivi del vecchio Sisde, il servizio segreto, sul falso pentito Scarantino (indicato dall’intelligence come vicino ad esponenti mafiosi) e sul suo suggeritore, l’ex capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera?

7. Perché i pm di Caltanissetta non depositarono nel primo processo il confronto fatto tre mesi prima fra il falso pentito Scarantino e i veri collaboratori di giustizia (Cancemi, Di Matteo e La Barbera) che lo smentivano? Il confronto fu depositato due anni più tardi, nel 1997, solo dopo una battaglia dei difensori degli imputati.

8. Perché i pm di Caltanissetta furono accomodanti con le continue ritrattazioni di Scarantino e non fecero mai il confronto tra i falsi pentiti dell’inchiesta (Scarantino, Candura e Andriotta), dai cui interrogatori si evinceva un progressivo aggiustamento delle dichiarazioni, in modo da farle convergere verso l’unica versione?

9. Perché la pm Ilda Boccassini (che partecipò alle prime indagini, fra il giugno e l’ottobre 1994), firmataria insieme al pm Sajeva di due durissime lettere nelle quali prendeva le distanze dai colleghi che continuavano a credere a Scarantino, autorizzò la polizia a fare dieci colloqui investigativi con Scarantino dopo l’inizio della sua collaborazione con la giustizia?

10. Perché non fu mai fatto un verbale del sopralluogo della polizia con Scarantino nel garage dove diceva di aver rubato la 126 poi trasformata in autobomba? Perché i pm non ne fecero mai richiesta? E perché nessun magistrato ritenne di presenziare al sopralluogo?

11. Chi è davvero responsabile dei verbali con a margine delle annotazioni a penna consegnati dall’ispettore Mattei a Scarantino? Il poliziotto ha dichiarato che l’unico scopo era quello di aiutarlo a ripassare: com’è possibile che fino alla Cassazione i giudici abbiano ritenuto plausibile questa giustificazione?

12. Il 26 luglio 1995 Scarantino ritrattava le sue dichiarazioni con un’intervista a Studio Aperto. Prima ancora che l’intervista andasse in onda, i pm Palma e Petralia annunciavano già alle agenzie di stampa la ritrattazione della ritrattazione di Scarantino, anticipando il contenuto del verbale fatto quella sera col falso pentito. Come facevano a prevederlo?

13. Perché Scarantino non venne affidato al servizio centrale di protezione, ma al gruppo diretto da La Barbera, senza alcuna richiesta e autorizzazione da parte della magistratura competente?

Da Agi qui
Economia, Separazione Bancaria

Il Glass Steagall Act italiano: la legge c’era basta reintrodurla.

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La riforma bancaria del 1936 permise di arginare la deregolamentazione che avviliva il settore creditizio. Deregolamentazione che però ha avuto la meglio.

Analizzare l’eziologia degli odierni squilibri economici è un’operazione complessa. Per tale ragione, sarà impossibile ricondurre gli squilibri ad una causa univoca, sanabile con una altrettanto univoca soluzione. Ritornare ad appropriarsi della leva monetaria e di quella valutaria, infatti,  non significherà godere di una panacea contro i mali economici che assillano il sistema internazionale. Un esempio? Il lungo lavoro che attenderà le generazioni future (ipotizzando che esse siano avverse all’autolesionismo) in materia di regolamentazione bancaria. Non sarà necessario un lavoro ex novo: si è solitamente portati a dire “le leggi ci sono, basta applicarle”, ma in questa specifica fattispecie sarebbe più consono affermare “le leggi c’erano, basta reintrodurle”.

La crisi statunitense del 1929  si abbattè anche in Europa, esacerbata dalla sempre più stretta interdipendenza delle due economie a seguito degli investimenti scaturienti dal Piano Dawes. La giurisprudenza americana rispose con il famoso Glass Steagall Act, legge che impose la separazione delle banche commerciali dalle banche di investimento, in nome della tutela del risparmio e dei risparmiatori. Le banche commerciali dovevano specializzarsi in operazioni di breve periodo, dal basso richio, limitandosi ad erogare credito alle famiglie e alle imprese. Le banche di investimento avevano invece un’ottica di medio-lungo periodo, agendo da intermediari fra i settori in surplus e quelli in deficit; esse erano più avverse al rischio, potendosi garantire una più vasta varietà di titoli e strumenti finanziari. Strumenti finanziari come i derivatitra cui gli illustri credit default swap (CDS) protagonisti di un’altra crisi, quella della 2008. La ring fencing, la separazione delle funzioni all’interno del sistema bancario, si contrappone alla visione tedesca di banca universale, ovvero despecializzata.

In Italia, tre anni dopo il Glass Steagall  Act, fu introdotta una (prima) riforma bancaria che, nonostante l’avversione dei regimi di destra radicale verso le plutocrazie, si indirizzava esattamente nella stessa direzione della norma americana. Vi è da dire che il fascismo fu sempre ostile alla daneistocrazia, prediligendo un controllo pubblico quasi monopolistico della gestione del credito. La riforma, sulla falsa riga del Glass Steagall Act, discerneva fra aziende di credito (banche commerciali) e istituti di credito (banche d’investimento). Si istituì una categoria creditizia sotto la voce di  Banche di interesse nazionale: esse costituivano il concretizzarsi della difesa del risparmio dei cittadini come interesse pubblico. Le banche di interesse nazionale erano infatti regolamentante dal diritto pubblico, erano ovviamente banche commerciali e non di investimento e non potevano fare credito al settore industriale, nè detenere partecipazioni presso aziende. Si può tranquillamente affermare che tale impostazione riuscì a calmierare il sistema creditizio italiano per tutto il dopoguerra, a parte rare eccezioni come lo scandalo del Banco Ambrosiano. La convizionzione che il risparmio dei cittadini sia interesse pubblico apparve però anacronistica, soprattutto a chi trainava le riforme neoliberiste partorite agli albori degli anni 80′ del secolo scorso.

Il sistema era diventato ormai obsoleto e l’integrazione europea, progenie dell’ammodernamento economico e statuale iniziato con la Thatcher, ci chiedeva di cambiarlo. Già, ce lo chiedeva l’Europa. Ecco perchè nel 1993 l’entrata in vigore del Testo unico bancario, abrogava la differenziazione fra banche commerciali e banche di investimento. Dieci anni dopo lo scandalo Mps riempirà i rotocalchi. Negli Usa il Glass Steagall Act fu abolito nel 1999 da un governo democratico, quello Clinton (l’involuzione delle sinistre, a quanto pare, è un fatto globale). Chissà dov’era Clinton alla fine del 2006, quando “esplodevano le bolle”. Gli operatori finanziari sono operatori razionali, non etici: emettere strumenti finanziari dove de facto si scommetteva che i propri clienti non riuscissero a ripagare il mutuo pur di coprirsi dal rischio ne è un esempio lampante. Se il disinteresse pubblico nel settori creditizio è da tutti auspicato, quando si tratta di svuotare le casseforti da titoli più tossici di una copertura di eternit le banche non esitano a sbracciarsi, animatamente, per attirare l’attenzione del salvifico Stato.

Dall’Intellettuale dissidente qui

Cultura

Relativismo culturale e nichilismo dei valori

Relativismo e nichilismo non sono la stessa cosa, se il primo (facendo riferimento a tradizioni di studi antichi) prospetta una sorta di pluralismo culturale, il secondo (estremizzazione del primo), è negazione della cultura stessa.

Quello di relativismo culturale è un concetto filosofico-culturale ed anche antropologico che trova la sua comparsa già in epoca molto antica. Già i sofisti, ed in particolare Gorgia e Protagora, con la loro totale negazione dell’esistenza ontologica di verità certe ed in senso universale, fecero dell’ idea relativista il fulcro del loro pensiero. Il relativismo è, infatti,  quella posizione di pensiero,  opposta all’universalismo che fa della verità un qualcosa di meramente arbitrario , convenzionale e, soprattutto, continente. È una corrente di pensiero molto poco spiritualista , in quanto è proprio in ragione al fatto che gli eventi e la storia non siano altro che il prodotto di concatenazioni materiali e frutto del caso materiale che non può esistere una ragione universale (a perno della storia) che guidi gli eventi. Le teorie relativiste , tuttavia, sono molteplici e racchiuderle in questa definizione sarebbe un’operazione riduttivista. In particolare la forma di relativismo maggiormente nota è quella del relativismo culturale (posizione di pensiero portata avanti, soprattutto, da uno tra i più grandi studiosi di civiltà e società umane del Novecento, Claude Lèvi- Strauss).

Lèvi – Strauss fornì  notevolissimi contributi allo sviluppo degli studi in campo antropologico e sociale sulle civiltà umane (in particolare su quelle primitive) e, ponendosi sulla linea dello strutturalismo, alla concezione delle culture umane come del prodotto di determinate strutture di potere in grado di determinare le tradizioni,  gli usi e costumi, le concezioni religiose ed i comportamenti abituali dei singoli popoli.  Nel  corso del Novecento, il concetto di relativismo culturale,  ha assunto una progressiva e sempre più decisiva attenzione. Il Novecento, infatti  , se vogliamo, può essere per molti versi considerato il secolo del relativismo. Tutti quelli che erano stati i dogmi, i perni, le strutture portanti della società liberal-borghesi (e di tutta l’impalcatura culturale del positivismo), a partire dal secolo breve in poi,  iniziano inesorabilmente a vacillare. Tutte quelle certezze, che dall’ illuminismo in poi, avevano caratterizzato l’ossatura della cultura borghese e della morale di stampo occidentale, divengono sempre più labili,  e la morale stessa diviene sempre più un fatto di contingenza e casualità e non più quel saldo riferimento incontestabile portato avanti dalla cultura di stampo cristiano.

Il Novecento è il secolo dei totalitarismi, della profezia dell’ uomo nuovo che si rigenera confutando i valori del suo tempo e, con essi, della trasformazione radicale della concezione antropologica dell’umanità. Si assiste così all’emergere di fiorenti avanguardie culturali (in grado di mettere in discussione il valore quasi divino di certi assunti dell’epoca), lo sviluppo della teoria marxista  (con l’introduzione dei concetti di struttura e sovrastruttura ) ed il successo continuo della filosofia di Nietzsche (con la sua negazione assoluta della morale cristiana e la sua visione , appunto, relativistica della storia dell’uomo). Il fascismo ed il nazionalsocialismo stessi, se vogliamo , a differenza ad esempio di un certo socialismo più illuminista (per così dire) furono dei perfetti esempio di espressione della nuova tendenza relativista del XX secolo. Alla base della concezione antropologica del fascismo e del nazismo, ed  in particolare,  della loro visione dei rapporti di forza e di potere si può notare una concezione della cultura e dei valori come un fatto di contingenza di causalità. La storia altro non è che un insieme di rapporti di forza,  guidata dallo scontro continuo tra popoli e culture, e determinata dell’emergere di una a discapito di un’altra.

In questo contesto di pensiero,  dunque,  la morale viene  evidentemente ad assumere un ruolo di assoluta contingenza materiale, in quanto se essa non è più il prodotto di un preciso disegno originario e non più la continuazione di una progressiva linearità storica ma, al contrario, il prodotto di casualità materiale (storico-sociali), anche la sua consistenza va ad assumere una natura sempre più  dissolubile e facilmente confutabile. È proprio nel Novecento,  dunque, che il relativismo culturale inizia ad assumere una fisionomia sempre più marcata e che le teorie di determinati studiosi, appartenenti al filone del cosiddetto “strutturalismo” (tra i quali appunto Levi-Strauss), prendono sempre più piede. Dal dopoguerra in poi, in particolare, dopo il periodo della de-colonizzazione, il relativismo culturale si afferma con sempre maggior autorevolezza, ed anche quell’eurocentrismo assoluto (prodotto diretto delle strutture di potere imperialiste) inizia ad assumere un valore sempre più discutibile. Il problema del relativismo è quando sfocia nella sua posizione più radicale: il nichilismo.

Talvolta, il  concetto filosofico di relativismo culturale viene, erroneamente, confuso con quello – più estremo e radicale- di nichilismo. Quest’ultimo,  infatti, rappresenterebbe, per così dire,  un’estremizzazione portata ai massimi livelli del relativismo culturale,  alludendo a quelle posizioni di pensiero che, per l’ appunto, non intravedono alcun senso nelle cose e concepiscono i valori alla stregua di fluide costruzioni mentali prive di consistenza. Confondere il nichilismo (l’assenza assoluta di valori) col relativismo (la presa di coscienza del pluralismo di valori) è un errore dal punto di vista concettuale. Il nichilismo, per sua natura, prospetta una sorta di liberazione totale rispetto a quelle che sono le norme di comportamento, i valori di riferimento, gli indicatori esistenziali d’ogni etica, poggiando le proprie valutazioni sull’idea secondo la quale l’intera realtà sarebbe priva di senso alcuno. Il nostro tempo attuale (per la precisione nell’ambito del contesto occidentale ), sta assistendo ad un vero e proprio eccedere del nichilismo (inteso proprio come assenza di riferimento e consegna della vita degli uomini all’ arbitrario flusso dell’ indefinito e del liberissimo arbitrio scriteriato).

L’esplodere del consumismo di massa, con annesso imporsi del modello culturale unicamente liberista e libertario ha, di fatto, innescato nella società occidentale questa condizione di vuoto esistenziale profondo, rendendo le vite degli uomini sempre più in balìa dell’indifferenza e della passività. La società occidentale attuale, a differenza di quanto una certa analisi contemporanea vuole cogliere, forse , non è preda del relativismo culturale, bensì del nichilismo, inteso come forma estrema di un mondo totalmente svuotato dalla cultura e vittima della mercificazione delle cose. Il male della nostra società è, infatti,  l’assenza totale di riferimenti storici ed identitari, processo storico che la cultura dominante del circuito politicamente corretto  (liberale) tenta di portare a compimento con la negazione e la demonizzazione dei concetti di “nazione “ e “tradizione “, ultimi baluardi in difesa del pluralismo e differenzialismo culturale.

Dall’Intellettuale dissidente qui

Economia, Italexit

Stiglitz (Premio Nobel): “L’Italia deve uscire dall’euro”. Dimon (Jp Morgan): “Al fianco dell’Italia. Uscire dall’euro una catastrofe”. E voi a chi credete?

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Proprio così. Voi a chi credete? A Joseph EugeneStiglitz, economista e saggista statunitense, Nobel per l’Economia nel 2003, che non ha dubbi e dichiara: “L’Eurozona ha bisogno di una riforma radicale, ma visto che questa non ci sarà a causa dell’opposizione della Germania, l’Italia farebbe bene a uscire dalla moneta unica, una mossa sì rischiosa ma che porterebbe vantaggi chiari, lineari e considerevoli”.

Oppure a Jamie Dimon, ceo e chairman di J.P. Morgan Chase & Co., che è stato in visita a Roma nei giorni scorsi, a conferma dell’ «impegno totale» della banca verso l’Italia, i governi, gli imprenditori, le istituzioni finanziarie italiani. «La nostra attività qui sta crescendo», afferma in una intervista sul quotidiano ilSole24Ore. E che non ha dubbi. Non vede vie d’uscita dall’euro senza «catastrofi» ma vede i benefici che l’Unione europea e l’Unione monetaria europea portano e hanno portato agli europei: è favorevole alla Banking Union e a banche paneuropee più grandi e più forti. Insomma J.P. Morgan megafono delle politiche dell’Unione Europea e delle riforme legate a integrazione e sottrazione progressiva della sovranità degli Stati membri a vantaggio delle istituzioni europee prima fra tutte della banca centrale europea. Ultimamente in Italia si è riaperta la discussione sui pro e sui contro di una possibile “exit” dall’Eurozona. Che cosa pensa lei di questo?
Il ceo e chairman di J.P. Morgan Chase & Co., Dimon, è chiaro:Penso che uscire dall’unione monetaria europea sia molto difficile, non è possibile scardinarla senza causare effetti catastrofici. Per come è stata disegnata, l’uscita non è stata prevista. Questo non significa che l’Europa non possa migliorare; ci sono molte problematiche di carattere regolamentare ancora aperte; il fatto che Brexit sia accaduta dovrebbe rendere il dialogo tra i paesi Europei più facile.”.

Facile far notare che se è vero che un referendum sull’Euro, quand’anche fosse possibile, attraverso una legge costituzionale, decretasse la volontà degli italiani di uscire dalla moneta unica, il Parlamento ed il Governo si troverebbero impossibilitati a mettere in pratica l’Italexit proprio per la mancanza nel Trattato dell’Unione di una clausole di uscita. Infatti è solo prevista la clausola di recesso dall’appartenenza all’Unione europea.

Tornando al premio Nobel Stiglitz il consiglio all’Italia, lo mette in forma scritta, sulle pagine web di Politico, in cui commenta le posizioni di Salvini e Di Maio circa la riforma, sempre più necessaria, dell’Europa che, parole sue, “ha fortemente bisogno di essere riformata”, peccato che Bruxelles, invece di attuare questi cambiamenti vitali, “abbia introdotto forti restrizioni su debiti e deficit” che rappresentano ulteriori ostacoli alla ripresa economica. L’economista a stelle e strisce punta il dito contro Berlino, che ritiene primo responsabile dell’attuale impasse europeo: “Il problema è la riluttanza della Germania che blocca ogni cambiamento” chiosa Stiglitz. Da qui l’invito all’Italia di uscire dall’Eurozona e recuperare la propria piena sovranità monetaria per ritornare competitiva.

A chi credere dunque? Al Ceo di una banca d’affari e speculativa o ad un premio Nobel per l’Economia. A voi la decisione.

Economia, Politica

Tria, tetto per tre anni alla spesa pubblica. A rischio stipendi pubblici e pensioni. La Sanità costerà di più ai cittadini.

Dopo aver ‘congelato’ flat tax e reddito di cittadinanza, il ministro dell’Economia svela come recuperare risorse dalla spesa

9 luglio 2018 – Congelamento della spesa corrente primaria nominale, che significa blocco per i prossimi 3 anni delle uscite della Pa a quota 727,7 miliardi di euro. E’ il progetto del ministro dell’economia Giovanni Tria reso noto dal quotidiano Il Messaggero, definito draconiano dallo stesso giornale.

Ma anche nella logica della riforma Ue proposta dalla coppia Macron/Merkel che prevede il superamento del limite del 3% su PIL con un tetto alla spesa.

Gli uffici della Ragioneria – si legge su La Repubblica – avrebbero avuto parecchi dubbi sulle coperture finanziarie di alcune misure, giudicate insufficienti e inadeguate. A cominciare dall’abolizione dell’obbligo dello split payment , un meccanismo tributario mirato a contrastare l’evasione del pagamento dell’Iva quando si ha a che fare con la pubblica amministrazione. Un problema dunque politico, considerato che il decreto è stato rinviato con l’eccezione della parte sul rinvio a gennaio della fatturazione elettronica da parte dei benzinai, che riguarda sia il merito delle misure sia il loro impatto politico.

Il nodo sarebbe l’intenzione da parte di Di Maio, in qualità di ministro del Lavoro, di ridurre il grado di flessibilità e di precarietà del mercato del lavoro. Che evidentemente piace meno alla lega ed al suo bacino elettorale. E del resto anche Confindustria, Confesercenti e Confcommercio hanno protestato contro questa misura. Una protesta, pare, che avrebbe trovato ascolto sia al ministero dell’ Economia che al quartiere generale della Lega.

Il tema del lavoro

Al tema lavoro, infatti, la bozza del decreto dignità dedica parecchio spazio. Per scoraggiare i contratti a termine, sarebbero previste diverse novità rispetto alle attuali regole. Per prima cosa il ritorno del causalone, per cui l’impresa deve motivare la scelta del contratto a tempo determinato in luogo di quello indeterminato. Se confermato, sarà possibile stipulare un primo contratto a termine fino a un anno senza causale, in seguito al quale scatterebbe l’obbligo (a partire dal primo rinnovo, quindi). Si ridurrebbe il numero delle possibili proroghe, da cinque a quattro.

Dovrebbe poi essere abolito lo staff leasing, aumentare il costo della somministrazione a tempo determinato (+ 0,5 punti per ogni rinnovo, a partire dal secondo) ed eliminare quello a tempo indeterminato. Infine, questi contratti di lavoro sarebbero conteggiati per stabilire il limite del 20% di stipule a termine previsto per singola impresa.

Per scoraggiare la produzione fuori Italia, entrerebbero in gioco nuove norme anti-delocalizzazione, vietando incentivi pubblici alle imprese che delocalizzano, anche all’interno della UE: le imprese che utilizzano agevolazioni dovrebbero rispettare una clausola decennale in questo senso.

Per chi non si adegua, scatterebbe la restituzione del contributo incassato, rivalutato con gli interessi maggiorati fino a 5 punti, oltre ad una sanzione. Ma si prevede anche un’altra norma per le imprese, che revoca le agevolazioni alle imprese che riducono l’occupazione nei successivi dieci anni.

Cosa non c’è

Per i lavoratori della gig economy, invece, il Governo ha aperto un tavolo di trattative a parte, senza che vengano inserite misure in un testo di legge (come, ad esempio, il salario minimo orario). Marcia indietro anche sullo split payment IVA (rinunciarci sarebbe un colpo troppo duro per le casse dello Stato). Fuori dal decreto anche redditometro e spesometro (materia di un successivo provvedimento).

Cosa non si vede all’orizzonte

Un primo provvedimento, come si diceva, che ha il compito di adottare le prime iniziative senza troppi impatti sul bilancio dello Stato. Mentre per il futuro non dobbiamo attenderci maggiori risorse dal settore pubblico a quello privato, soprattutto se si adotta la vecchia logica della compressione della spesa pubblica. Un tetto alla spesa che potrebbe essere indistinto, cioè lineare. Non è ancora chiaro se si adotteranno almeno provvedimenti sulla spesa finalizzati a consentire una  rotazione prevedendo  la riduzione della spesa improduttiva a beneficio di maggiore spesa produttiva. Un passaggio di novità, pur all’interno di una politica di bilancio conservativa, almeno per consentire il superamento della vecchia distinzione semplicistica tra la spesa corrente e quella per investimenti. Certamente il ministro Tria, con la sua impostazione conservativa e di rispetto dei vincoli di bilancio europei, non consentirà programmi di piena occupazione o azioni positive per l’occupazione e per il tessuto produttivo che regge il sistema Italia ovvero le micro/piccole e medie aziende.

Federalismo

Il segreto del successo economico svizzero? «È il federalismo»

Uno studio ne svela gli effetti positivi e avverte: «Le tendenze centralizzatrici di oggi ne minacciano il funzionamento»

BERNA – La Svizzera deve il suo successo economico al sistema federalista. Ma oggi, tendenze centralizzatrici minacciano il suo funzionamento. A questa conclusione giunge uno studio commissionato dalla Fondazione ch in occasione dei suoi 50 anni di esistenza.

Diversi studi avevano già messo in evidenza gli effetti positivi del federalismo sulla qualità delle prestazioni pubbliche, in particolare negli ambiti della formazione, delle finanze o del freno alla corruzione. La pubblicazione “Föderalismus und Wettbewerbsfähigkeit in der Schweiz” dei professori Lars P. Feld (Università di Friburgo in Brisgovia) e Christoph A. Schaltegger (Università di Lucerna) restituisce il sistema federalista elvetico sotto una nuova luce.

Lo studio mostra chiaramente che, contrariamente ai luoghi comuni, il numero di gradi istituzionali legati al federalismo non frena gli investimenti esteri. Inoltre, la fiscalità è determinante per il suo successo: fra le 29 collettività che nel mondo praticano un onere fiscale medio inferiore al 20% sugli utili delle società figurano 19 cantoni svizzeri.

La concorrenza fiscale tra i cantoni svolge pure un ruolo preponderante. Secondo lo studio, essa limita da un lato le velleità dello Stato e favorisce dall’altro lo sviluppo economico. La competitività è favorita anche dall’efficienza dei governi e dal fatto che i politici in Svizzera devono in larga misura rendere conto del loro operato agli elettori.

L’economia approfitta inoltre della diversità elvetica e delle sue diverse regolamentazioni, che corrispondono ai bisogni degli abitanti. Secondo i due ricercatori, la Svizzera è un laboratorio di idee che lascia ai cantoni la libertà di sperimentare nuove soluzioni nonostante l’esiguità del territorio.

Stando allo studio, la decentralizzazione contribuisce ad attenuare la ripartizione iniqua dei redditi grazie al sistema della perequazione finanziaria, che consente a un cantone di aiutarne un altro in difficoltà. Questo elenco dei vantaggi dimostra che lo stato del federalismo elvetico è buono e non ha bisogno di essere adattato.

Tuttavia talune evoluzioni – quali la crescente centralizzazione, l’intreccio di compiti che implicano istituzioni federali e il trasferimento degli oneri sui cantoni e i comuni – mettono in pericolo il successo del federalismo “made in Switzerland”.

Per gli autori, occorre preservare l’autonomia dei cantoni per mantenerli concorrenziali e far emergere nuove idee. La Confederazione deve intervenire soltanto in via sussidiaria.

La Fondazione ch per la collaborazione confederale è un’organizzazione intercantonale che promuove lo scambio tra le comunità linguistiche e le culture confederali. Festeggia quest’anno i suoi 50 anni e organizza per l’occasione diversi eventi. Il 26-27 ottobre è in programma una conferenza nazionale sul federalismo a Montreux (VD).

Lo studio “Föderalismus und Wettbewerbsfähigkeit in der Schweiz” è stato pubblicato presso le edizioni NZZ Libro, con un riassunto in francese, italiano e inglese.

Economia, Politica

Deficit, una partita fuori tempo massimo

di Gianmaria Vianova – 7 luglio 2018 (tratto dal sito L’Intellettuale dissidente – qui)

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Il Governo Conte è nato incendiario ma rischia di morire pompiere. Ecco perché la partita sul deficit andava giocata in sede europea anni fa: oggi il rischio è che non sussistano le condizioni per spuntarla. La scelta è tra rispettare i vincoli, stringere complicatissime alleanze sul campo e strappare unilateralmente, ma per le ultime due rischia di essere troppo tardi.

Il Governo Conte è nato incendiario ma rischia di morire pompiere. Ecco perché la partita sul deficit andava giocata in sede europea anni fa: oggi il rischio è che non sussistano le condizioni per spuntarla. La scelta è tra rispettare i vincoli, stringere complicatissime alleanze sul campo e strappare unilateralmente, ma per le ultime due rischia di essere troppo tardi.

C’è un tempo per tutto. Uno per parlare, uno per tacere. Uno per amare, uno per saper andare oltre. Uno per gettarsi nella mischia, uno per capire che è meglio tirarsene fuori. Le tempistiche sono fondamentali. La fisica gira attorno al tempo, l’universo con lei. Le ere hanno una collocazione temporale, persino le partite di calcio girano attorno al dio Crono. Questo, il Governo Conte, lo deve capire. Quando giunge l’estate, la stagione in cui il Mediterraneo si riempie di turisti e crisi migratorie, è il momento giusto per prendere una posizione, riacquistando peso politico, riguardo ad ombrelloni e accoglienza. È anche vero, però, che quando si è un governo giovane, in età preadolescenziale, le estati volano. Le foglie ingialliscono, la maturità incombe e bisogna cominciare a pensare al denaro. L’autunno, le responsabilità. Si vuole raggiungere l’indipendenza, attuare delle scelte. Fuor di metafora: disegnare una manovra economica.

Partiamo da questo presupposto: il contratto di governo costa. È oramai entrata nella storia l’analisi dell’Osservatorio sui conti pubblici guidato dall’onnipresente Carlo Cottarelli: tra i 109 e i 126 miliardi di euro in maggiori uscite. Secondo il primo ministro mancato, il tempo suggerisce di tirare la cinghia e ridurre il debito. Per Lega e Cinque Stelle sembrava invece che l’orologio indicasse più deficit. Una legislatura da incendiari, con la riscoperta di stimoli keynesiani che per l’Europa paiono novecenteschi (per gli Stati Uniti chiedere ad Obama). Poi il Governo Conte è nato: all’economia, da Roma Tre con furore, Giovanni Tria. Ma, inutile nascondersi, per quanto riguarda la posizione nei confronti degli euroburocrati Tria non è Savona, così come Savona non era Bagnai. Sin dalle prime uscite pubbliche il Ministro ha espresso parole di continuità rispetto al precedente esecutivo. Niente voli mirabolanti, gli obiettivi di bilancio verranno rispettati, non attaccheremo Bruxelles, tutto rimandato al 2019. Ok, tempo al tempo, ma pare che il nato incendiario stia stirando la tuta ignifuga e aumentando la pressione dell’autopompa: a morire da pompiere ci vuole un istante.

Secondo i calcoli di Cottarelli il rapporto deficit/Pil andrebbe al 9% comprendendo i moltiplicatori, consci che questi ultimi hanno la stessa affidabilità dei rumor sulla ipotetica reunion degli Oasis

Sia chiaro, se uno volesse applicare in toto il contratto il tempo lo potrebbe trovare. Aprire i rubinetti, invitare amici alle aste del Tesoro e vai di deficit. Sebbene ce lo si racconti da decenni, il deficit non è un peccato religioso, né un crimine perseguibile per legge. Sta ai libri di economia come la salsa di pomodoro alla pizza: è la normalità. È provato che un disavanzo del settore pubblico provochi un avanzo pressoché speculare – ad osservare i trend – nel settore privato. La realtà è una sola, c’è chi la vede mezza piena (stimolo della domanda, maggiore crescita, riduzione del rapporto debito/Pil) e chi mezza vuota (i neonati nascono con più debito sulle spalle). Il fatto è questo: c’è un tempo per leggere un economista “eterodosso” sotto l’ombrellone e un tempo per trovare il modo di sfuggire alle maglie dell’ordinamento europeo.

Bella la magia dei saldi settoriali: se lo Stato spende di più il privato riceve di più

“Fare” deficit – e il verbo fare è pertinente perché comporta un’azione convinta e diretta, prettamente attiva – va contro i dettami di Bruxelles. L’astronave Italia dovrebbe infatti seguire una traiettoria di rientro nell’atmosfera del bilancio in accordo con l’Ue: deficit all’1,6% quest’anno, 0,8% nel 2019 e pareggio nel 2020. Il DEF approvato in aprile dal governo uscente, in questo senso, non è stato ritoccato. Certo, tempo al tempo anche in questo caso, ma dopo un po’ bisognerà cominciare a dire “chi è al governo non aspetti tempo”. Il programma di governo è la sublimazione dell’aggettivo “ambizioso” e ci sono solo due vie per attuarlo in toto: ignorare l’Ue oppure prendere una pala e scavare in giro per il bilancio alla ricerca di coperture, tante coperture. A leggere il DEF, “riconsiderare in tempi brevi il quadro di finanza pubblica nel rispetto degli impegni europei per quanto riguarda i saldi di bilancio 2019-2021”, pare che sia stata scelta la strada europeisticamente più battuta. Conte, Di Maio e Salvini sanno che ai loro sostenitori potrebbe bastare anche solo un assaggio del “contratto del cambiamento”: la base legastellata è per definizione indulgente con i propri vertici e sarà disposta ad ingoiare una discreta quantità di rospi, a meno di clamorosi tradimenti percepiti sin nel profondo (è pur sempre un elettorato deluso, per buona parte ripescato in extremis dall’astensione). Ebbene, se anche si volesse attuare un piano economico gradualmente, bisognerebbe comunque aggredire le clausole di salvaguardia, da disattivare entro il 31 dicembre (costo: 12 miliardi) salvo volersi tirare addosso, masochisticamente, l’ira di ogni essere umano senziente.

Contratto del cambiamento o no, le risorse vanno trovate. Ecco che, manco a dirlo, è tempo di porsi una domanda: c’è la volontà di scardinare il paradigma delle risorse scarse? Se sì, nonostante i segnali discordanti (“uno e Tria”, “uno Tria e centomila” li hanno già usati?) i luoghi chiave non sono più tanto le commissioni bilancio di Camera e Senato, dove albergano Borghi e Bagnai, quanto Strasburgo e Bruxelles. Certo, nulla vieterebbe al Governo Conte di procedere unilateralmente, senza previa consultazione con gli “ufficiosi commissari”: le conseguenze, però, ci sarebbero. Privi di sovranità monetaria e di una classe di tecnici disposti a strappare, la macchina della speculazione si metterebbe in azione. Ad ogni punto di spread un editoriale apocalittico. Ad ogni diretta Facebook fiume ed improvvisata di Salvini e Di Maio (perché le farebbero, eccome) una affermazione estrapolata fuori dal contesto diventerebbe una sentenza. Agenzie di rating, partner europei ed euroburocrati parlerebbero dell’Italia come della Cenerentola che si è illusa un’altra volta. La verità fa male, ma è la seguente: nel regno dell’informazione compulsiva e largamente prezzolata non frega niente a nessuno se sei in avanzo primario da oltre 20 anni, contano solo le apparenze.

Borghi e Bagnai, L’ex uomo di Deutsche Bank e l’ex professore vicino alla sinistra, oramai soprannominati B & B, rappresentano la componente più euroscettica delle forze al governo

C’è un tempo per tutto. Uno per pubblicare pdf del contratto e un altro per buttare giù un piano d’azione. La soluzione più chirurgica ed asettica sarebbe quella di un accordo, reale, in sede europea. Ribaltare, una volta per tutte, il paradigma dell’austerità a tutti i costi, del principio contabile di fronte a quello umano, del tasso di disoccupazione che anche se è altino va bene, perché tende al NAIRU. Con l’avanzare dell’onda “populista” e dell’euroscetticismo ci si potrebbe quindi illudere che questo sia il momento propizio. Il fatto è che no, non solo non è il momento propizio: dichiarare guerra al deficit nel 2018 è un atto fuori tempo. Guardiamoci attorno. In Francia Macron spinge per un Fondo Monetario Europeo, quindi maggiori controlli sulla politica fiscale. In Spagna i socialisti di Sanchez, con il loro governo di minoranza, non hanno la minima intenzione di uscire dal seminato dopo la traumatica opera di deflazione salariale attuata. In Germania una Merkel scricchiolante non sarà mai a favore di politiche espansive. Kurz in Austria men che meno. In una Unione mai così disunita e caotica nei rapporti non bisogna confondere gli interessi nazionali in politica migratoria con quelli di politica economica. Nel 2018, allo stato dell’arte, nessuno ha interesse nell’addolcire i vincoli di bilancio. In altre parole nessuno ha interesse nel seguire l’Italia in questa battaglia, non gratuitamente per lo meno.

Componenti del Pil dell’Eurozona, dall’European economic forecast della Commissione Europea datato maggio 2018

Nello European economic forecast di maggio, la Commissione Europea analizzava la situazione delle varie economie dell’Unione. Interessante il grafico qui riproposto, che spacchetta le componenti della crescita, mettendole in relazione con il tasso reale di variazione del Pil e il famigerato “output gap” (la differenza tra la velocità registrata dell’economia e la sua velocità massima potenziale). Notiamo tre cose: la crescita del Pil si dovrebbe assestare sul 2%, le componenti principali della crescita sono consumo privato e investimenti, l’economia europea viaggia già al pieno regime di equilibrio previsto dalle istituzioni. Traducendo, agli occhi dell’Ue: non è necessario stimolare la crescita, il settore privato si è già messo in moto, ulteriore stimolo in disavanzo potrebbe provocare squilibri, quindi a disattendere i principi fondanti della costruzione europea stessa (ovvero l’anteposizione dell’equilibrio di economia sociale fortemente competitiva e dei prezzi alla piena occupazione).

Anche focalizzandoci unicamente alla situazione italiana, i presupposti non cambiano:

Componenti del Pil Italiano, dall’European economic forecast della Commissione Europea datato maggio 2018

L’output gap dell’Italia è destinato a sconfinare in territorio positivo, quello che per la dottrina amante del libero mercato autoregolatore è il campo dell’irreale: l’economia italiana ha raggiunto un nuovo equilibrio che è necessario preservare e non certo macchiare con politiche non convenzionalmente accettate come “salutari”.

Nelle righe precedenti si è accennato spesso all’importanza del tempo. Ecco, il tempo giusto per sbattere i pugni sul tavolo (ma sul serio, non per gioco) pare essere passato. Laddove i grafici sopra riportati presentavano un’area viola, in corrispondenza dei valori negativi, l’Italia si sarebbe dovuta muovere con forza. Tra il 2011 e il 2016, infatti, tutta l’economia europea viaggiava ben al di sotto delle proprie potenzialità. Allora si sarebbe dovuto lavorare per addolcire i parametri europei, introducendo il concetto di “politiche anticicliche” nelle sedi opportune e piani formali di stimolo, anche nel caso ciò si dovesse ripetere nel futuro. Allora, l’Italia, fu troppo occupata a rientrare in fretta e furia all’interno dei parametri del 3%, sempre per evitare che a Bruxelles si mettessero a rispolverare la VHS di Cenerentola, doppiata nella lingua di Dante.

I deficit fatti registrare da Italia (rossa), Francia (blu) e Spagna (viola) tra il 2007 e il 2017: Roma è rientrata prontamente all’interno dei vincoli di Maastricht, la Francia solo nel 2017

Durante la crisi peggiore dal ’29 (ma rispetto a quest’ultima più persistente) il primo pensiero delle istituzioni sovranazionali per l’Italia fu il rientro dal deficit. Ok, lo fu per tutte. Il Six Pack, i fondi salva Stati, l’indipendenza della Bce. Per Roma, però, il conto fu più salato, unendo l’utile – non nostro – al dilettevole – altrui: il debito pubblico andava contenuto e, allo stesso tempo, bisognava comprimere la domanda interna, le importazioni e riequilibrare la bilancia commerciale. L’Italia si trovava a dover fronteggiare una lotta nell’interesse nazionale con un bipolarismo sghembo. Da una parte un Silvio Berlusconi debole, al quarto mandato, vittima di sé stesso e inseguito dalla giustizia: con una lettera della Bce fu avvisato, con la spallata dello spread fu destituito. Dall’altra il centrosinistra, il Partito Democratico, formazione politica più irriducibilmente europeista forse di tutto il continente, pervasa da una esterofilia tale da spingerla a sostenere Monti e tutte le politiche di Letta, Renzi e Gentiloni, comprese le loro battaglie “che non erano nell’interesse dell’Italia” (come lo stesso Renzi dichiarò su Twitter). Uno scacchiere sterile, durante un caos sotto al cielo. Ecco, proprio per quello la situazione era perfetta, ma il libro di Mao in libreria era finito.

Un tweet che probabilmente non passerà mai di moda

Si sarebbe potuto decidere di operare clandestinamente in deficit, come Francia e Spagna ci hanno insegnato, oppure esporre una visione di lungo periodo. Non fu fatto nulla di tutto ciò. Il risultato, nel 2018, è una congiuntura economica apparentemente migliorata, in cui la crisi è stata debellata nei numeri e i partner europei non sanno neanche più cosa sia la recessione. L’economia italiana, con  la fiacca ripresa all’ 1,4%, vive una crescita senza riduzione della disoccupazione o del tasso di povertà. Com’è possibile? Probabilmente il sistema economico, lasciato alla mano invisibile del mercato, ha raggiunto un nuovo equilibrio, con tasso di disoccupazione naturale superiore al 10% e il 99% dei nuovi lavori a tempo determinato (ce lo dice l’ISTAT).

Non si avrà mai una controprova, ma se l’Italia si fosse uniformata all’andazzo dilagante attuando una politica fiscale espansiva quando opportuno probabilmente lo stimolo alla domanda internaavrebbe potuto giovare nella creazione di situazione di equilibrio più clemente e positiva. Certamente una correzione a base di spesa pubblica si sarebbe rivelata meno dolorosa di quella applicata, dato che nel menù si annoveravano deflazione salariale, bassi tassi di utilizzazione della capacità produttiva e riduzione del potere d’acquisto delle famiglie.

Solo un posto di lavoro dipendente su cento creato tra il maggio 2017 e il maggio 2018 è a tempo indeterminato, secondo l’ultimo report dell’ISTAT

C’è un tempo per tutto, lo si è detto. Era anche giunto il tempo dell’Eurozona, o meglio il tempo di morire. Crisi dei debiti pubblici, deflazione, mancanza di strumenti tali da poter assorbire gli shock. A Bruxelles sapevano, hanno finta di non vedere. Quando i burocrati si sparavano maratone di discorsi della Thatcher, pensando a come raggiungere il nirvana dello Stato minimo senza eliminare il carrozzone pubblico che dà loro un lavoro (senza riuscirci), chiusero le finestre. Liberi tutti, andate e spargete il deficit. Sarebbe bastato far valere il peso del Paese allora, terza economia dell’eurozona, per seguire a ruota e rimandare, come razionalità e scienza economica recitano, l’austerità a momenti di espansione successivi.

Siccome l’Ue lasciava sforare in barba ai trattati, i Paesi “trasgressori” non avevano motivo di svegliare il cane che dormiva, impuntandosi nel voler riscrivere le regole: Roma invece – con la storica volontà e testardaggine che ci ha portati affannosamente nell’Euro (consci dei fallimenti di serpenti monetari e SME) e con quel senso di inferiorità instillato dapprima internamente dall’intellighenzia progressista e solo poi cavalcato dall’esterno – ha voluto fare la prima della classe. Sempre al primo banco, “maestra, maestra!”, sperando in una valutazione clemente alla fine dell’anno. Il problema è che il voto dell’esame di terza media conta come il taglio dei vitalizi dei parlamentari sul bilancio: la frazione della frazione della frazione di una qualsiasi entità avente consistenza.

Letta e Renzi leggono il salatissimo conto della cena consumata il 4 marzo: quella sul deficit era una battaglia che la sinistra poteva e doveva fare propria, invece il Pd si è illuso che gli italiani avrebbero giustificato i sacrifici in un’ottica di coerenza e rispetto verso Bruxelles

Senza politica fiscale espansiva ci siamo affidati a quella monetaria accomodante. Il problema è che, al di là dello storytelling, quella servì primariamente a dare l’ossigeno ad un paziente in stato comatoso. Draghi infatti ha proceduto ad oltranza, ben più della Fed o della Bank of England, per non far saltare tutto e calmierare i tassi, mica per altro. Ora che nel 2019 i rubinetti verranno chiusi (sebbene non si prevede che nel breve termine la Bce dreni la liquidità immessa) cosa ne avremo ricavato? Conclamata flessibilità che si scontra con clausole di salvaguardia automatiche al retrogusto di ipoteca, una Imposta sul Valore Aggiunto che oramai è un essere senziente che cresce per suo conto manco Stranger Things e un obiettivo di pareggio di bilancio che suona come una condanna. C’è un tempo per tutto e quel tempo, con le condizioni ideali s’intende, è passato. Mettersi a sforare unilateralmente, ora, non ha giustificazioni politiche: per farlo bisogna essere pronti a solcare un mare in tempesta e a conservare ogni goccia di lucidità.

I protagonisti della serie Netflix osservano IVA, la creatura misteriosa che non smette mai di crescere

Se il governo vuole davvero operare una forte discontinuità deve agire come un ninja, data la difficoltà aumentata esponenzialmente. Il piano d’azione non può limitarsi al DEF, ma deve scendere nelle piazze e irrorare carta stampata e pagine Html. Va sradicato l’autorazzismo che ci ha sempre spinto ad accontentarci e, altresì, sfatato il mito che vede in un piano B (che sia d’uscita dall’Euro, di fonti di finanziamento alternative o di shock fiscali) una minaccia. Bisogna armarsi negozialmente, studiarsi la teoria dei giochi ed essere consci che in questa battaglia sui vincoli di bilancio l’Italia sarà sostanzialmente sola. Niente più comizi improvvisati sul tema, giro di vite sulle dichiarazioni in ambito economico, bando all’argomento durante dirette improvvisate sui social. Un’opera meticolosa, alla ricerca di margini. Logorante, asfissiante, certosina. Il governo deve sperare che l’Ue mostri il fianco, si riveli spietata e del tutto autoreferenziale. Bisogna essere scaltri, con molte notti insonni e tanti fatti. Ci si chiede se il governo abbia le capacità per attuare questa strategia oramai fuori tempo massimo, ma ancor prima se abbia la volontà di volerla intraprendere. In caso contrario, mano allo Stato sociale e occhio al portafogli.

Economia, Rivoluzione digitale

Occupazione & Disruption: Cosa devono sapere i tuoi figli. Le azioni di governo.

di Paolo Barnard (qui)

Ecco cosa Roma deve immediatamente iniziare a fare. Ma prima due parole essenziali.

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La definizione di Disruption, come già scritto, è di qualcosa che arriva e cambia tutto ciò che è esistito prima. Le politiche di creazione di lavoro in Occidente che i nostri padri e noi abbiamo conosciuto finora, oggi saltano con la Technological Disruption, assieme a tantissimo altro. Ma di nuovo: i contemporanei di un fenomeno epocale di cambiamento sempre faticano a svegliarsi di fronte al nuovo, e questo si traduce in drammi, sempre. Quanti italiani oggi leggono i giornali al mattino cercando ansiosamente notizie sulle politiche del lavoro del Ministro Di Maio per laDisruption? Nessuno. Eppure la leadership mondiale non ha più dubbi sul fatto che essa ribalterà, come mai prima nella Storia, proprio l’occupazione di numeri impressionanti nel globo.

Ma il disinteresse degli elettori si traduce direttamente in un’obbligata mancanza d’azione da parte dei politici e dei media sullo sviluppo dell’Italia nella Disruption. Politicanti e media devono ‘vendere’ in cambio di voti e di audience, e non venderanno mai cose che nessuno cerca nei giornali la mattina. Infatti i politici hanno il vincolo del breve mandato e l’ossessione cieca del voto-subito entro il mandato, per cui non s’impegneranno mai in politiche e dibattiti che all’italiano medio sembrano fantascienza, e dunque rimangono a rimestare sempre la stessa retorica acchiappa voti sui soliti temi. Idem per i media: essi sanno che la Disruption è una news che oggi si può vendere agli italiani solo al 300esimo posto dopo la Casta, la corruzione, il politici-ladri, gli immigrati, le polemiche Tv ecc, e trattano il tema principalmente come folklore da futuristi. Risultato: non un singolo organo di stampa italiano sta davvero informando su come sarà stravolta l’economia, la politica e la fabbrica sociale di ogni Paese moderno per mano della Disruption.

E così si compie un circolo vizioso devastante per l’Italia, che, come sempre accaduto, arriverà arrancando da fanalino di coda mentre Francia, Germania, Svezia, Svizzera, Gran Bretagna, Russia, Cina, Sud est asiatico e ovviamente gli USA si saranno già spartiti l’immensa torta del lavoro e del PIL da Disruption. Risultato: i giovani italiani nel precariato, disoccupazione, e ancora disperatamente dipendenti da quel rivolo che gli rimane del risparmio di nonni e genitori degli anni 70’-90’, prigionieri di un Paese sempre più PIGS. E non ho fatto un errore di battitura: proprio PIGS, Portogallo Italia Grecia Spagna, perché invece l‘Irlanda sta capendo e cavalcando la Disruption, è ha già preso il volo da quell’acronimo infame.

Ma non è destino degli Dei che debba andare così, tutto sta a voi assieme ai pochissimi divulgatori come me che vi mettono nelle mani gli strumenti per capire la Disruption e per sapere cosa farà al PIL e all’occupazione. Quindi ora vi elenco almeno le fondamentali idee su cosa, come elettori, dovete subito pretendere dalla politica come azioni, leggi, e investimenti. Per l’ultima volta: ne va dei vostri figli e dei giovani italiani appena giunti sul mercato del lavoro, ma anche di molti di voi non proprio anziani.

AZIENDA CHIAMA MINISTERO ISTRUZIONE… MA 24 SU 24, 7 SU 7.

Nel capitolo precedente ho riportato con insistenza ciò su cui ogni singolo esperto mondiale è concorde: “Per mettere al riparo i nostri figli, e i giovani già oggi al lavoro, dai maggiori rischi c’è una sola arma concreta: per i primi una formazione scolastica e universitaria più aggiornata possibile che li presenti al mondo del lavoro come appetibili; per i secondi l’impegno di Stato e aziende nella riqualificazione, ma a vita… I governi giocano qui il ruolo principale con interventi generosi nei bilanci”.

Ma ahimè gli analisti ci pongono un altro problema critico: la velocità di sviluppo delle nuove tecnologie per il lavoro è talmente forsennata che è già stato calcolato che diversi skills – così si chiamano le competenze centrali per la Disruption – che vengono insegnati agli studenti oggi, tempo che gli studenti si presenteranno ai colloqui di lavoro in aziende saranno già obsoleti. In parole semplici: mentre tu studi intensamente un’applicazione di Machine Learning per l’edilizia, Machine Learning ne ha scovata una migliore, tu ti presenti al colloquio di lavoro e il datore se ne fa poco di te. Scrive il Massachusetts Institute of Technology Initiative on the Digital Economy: “Le tecnologie cambiano i modelli di business e molto spesso questi si traducono in uno sconvolgimento simultaneo del set di skills che le aziende necessitano. I business leaders sono concordi nel segnalare che già oggi questo gli crea difficoltà nell’assumere”. Questa non è una finezza che colpirà gli super specializzati: sarà un problema enorme proprio sul mercato del lavoro dei giovani, e altrettanto enorme per eventuali programmi di apprendistato, che rischiano di diventare degli autogoal con sprechi di finanziamenti enormi.

Ma la soluzione c’è, ed è la prima azione di partnership fra governo e aziende che va assolutamente chiesta dagli elettori. PROPOSTA 1.

Nel capitolo “DISRUPTING LA POLITICA DOMESTICA COME MAI PRIMA. BIG DATA”, nella seconda parte di questo articolo, davo conto dell’inimmaginabile potere di efficiente governanace che le tecnologie di Big Data possono oggi dare al governo. La stessa Cloud prevista in quel dirompente progetto dovrà essere usata da tutto il sistema produttivo italiano di beni e servizi in un dialogo diretto, proprio in tempo reale, col Ministero dell’Istruzione Ricerca e Università (MIUR), che gli segnali esattamente come sta cambiando la natura degli skills dentro le aziende, gli ospedali, e le varie istituzioni. Il MIUR, come sollecitano gli esperti internazionali, dovrà avere l’elasticità e prontezza di riflessi di trasmettere immediatamente a scuola e università il messaggio dei datori di lavoro, affinché il MIUR stesso in collaborazione con i docenti si attrezzi per cambiare in corso d’opera l’insegnamento degli skills ai giovani futuri dipendenti. Questo è il tipo di ambizioso progetto che un Paese oggi deve essere in grado d’intraprendere se davvero è serio sulla difesa del lavoro. Un salto innovativo in linea con gli attori vincenti nella Disruption. Scrive McKinsey Global: “I governi devono totalmente riconsiderare i modelli scolastici odierni. La questione è urgente, e devono mostrare una leadership di grande coraggio nel riscrivere i curricula. E’ un’elasticità che da decenni il mondo del lavoro attende”.

IL RESKILLING E’ SULLA BOCCA DI TUTTI. MA DEVE ESSERE INTELLIGENTE.

Come detto nel capitolo precedente “L’impresa del reskilling (riqualificazione) di milioni d’italiani non è un optional, è l’aria da respirare, e ogni singolo analista al mondo oggi lo dice chiaro: i governi giocano qui il ruolo principale con un intervento generoso nei bilanci”. Purtroppo su dove l’Italia degli asfittici bilanci dell’Eurozona troverà le risorse per riqualificare masse di lavoratori e per evitarci una vera catastrofe sociale soprattutto fra i dipendenti maturi, non ho la più pallida idea.  Su come procedere strategicamente gli esperti sono chiari. PROPOSTA 2.

Sarà un lavoro di reskilling (o di upskilling) dei lavoratori a vita, per ogni settore che fa PIL italiano. Dovrà essere intelligente, il che significa innanzi tutto che va fatto in partnership con il settore privato dell’Italia, il quale deve saper dimostrare una Vision ben oltre la sua tradizionale e provinciale parcellizzazione. Ma soprattutto le tecnologie di Big Data (di nuovo) dovranno essere usate da governo e datori di lavoro per “better forecasting data and planning metrics”, cioè saper prevedere le svolte e pianificare con largo anticipo la richiesta dei talenti, su cui poi appunto lanciare in tutto il Paese programmi di reskilling (o diupskilling) con chirurgica precisione (come indicato nella PROPOSTA 1).

PUNTARE SU ENABLING, E AVVISARE SU REPLACING.

Dunque l’Italia è alla storica sfida dell’Occupazione & Disruption. Il potere globale di quest’ultima è senza limiti, ma i governi possono governarla per tutelare l’impiego nella colossale tempesta dei cambiamenti, e di questo sto trattando qui. In questo sforzo il governo deve comprendere un aspetto cruciale che distingue le tecnologie della Disruption: esse si dividono in due rami, quelle di tipo Enabling e quelle di tipo Replacing. Come spiegato nel capitolo precedente, la Disruption porterà sia una richiesta di lavori già esistenti riformulati in nuove versioni, che proprio nuove professioni che oggi non esistono. In questo caso essa permetterà– sarà Enabling – vasti bacini di posti di lavoro. Ma è anche vero che essa spazzerà via schiere di mestieri perché le macchine ‘pensanti’ li rimpiazzeranno – sarà quindi Replacing. Ne consegue una scelta politica. PROPOSTA 3.

E’ totalmente futile ed economicamente distruttivo continuare a spendere sia fondi pubblici che fondi privati (delle famiglie) per formare giovani, o per incoraggiare lavori, destinati alla categoria dove le tecnologie saranno di tipo Replacing, poiché significa destinare esseri umani a un suicidio lavorativo certo. Ho trattato in modo esaustivo quali sono i settori professionali più favoriti e quali invece i più condannati dalla Disruption nel capitolo precedente. Occorre dunque una campagna di consapevolezza a carico del governo italiano che sia capillare e immediata nel tempo, così da permettere sia al settore pubblico che alle famiglie di agire cambiamenti in questo senso. Dall’altra parte l’Italia dovrà investire massicciamente nell’adozione del maggior numero di tecnologie Enabling per ovvi motivi di creazione di lavoro, ma dovrà anche essere scaltra nell’incoraggiare quelle che si adattano meglio alla struttura sociale, alla conformazione territoriale e produttiva del nostro Paese. Un esempio concreto: siamo uno dei popoli più longevi del mondo, perciò la cura extra ospedaliera dei nostri anziani arricchita dalle nuove tecnologie Enabling del settore è garanzia di creazione d’innumerevoli mansioni a ogni livello di complessità (settore del Personal Care). Sono mansioni che saranno utili a nuovi impieghi sia per i cittadini meno skilled che per gli specialisti. La medesima strategia va applicata alla nostra struttura architettonica, geografica, energetica et al., per di nuovo generare ampio impiego.

STATISTI, GRANDI IDEE: GLI INVESTIMENTI DELLA VISION NAZIONALE.

Non siamo, purtroppo, una nazione che si è mai distinta nella Storia moderna per la Vision, che è la dote degli Statisti di rilanciare in avanti con grandi idee su investimenti strategici, lungimiranti e dirompenti. Governare un Paese è un compito che comprende in sé migliaia di micro aspetti, micro politiche, micro nomine e un lavoro legislativo che di conseguenza è sfinente fra micro regolamenti, decreti, normative. Ma il vero mestiere del leader è quello proprio di dettare alla nazione le grandi ambiziose direttive, cioè appunto le Vision, che davvero disegneranno il futuro di milioni di cittadini. Oggi con la Disruption l’esistenza di queste grandi ambiziose direttive non è più un fiore all’occhiello per una nazione, al contrario, fa la differenza fra esistere o perire, fra potersi permettere una democrazia compiuta o languire nella servitù moderna. PROPOSTE 4,5,6,7.

Ho già pubblicato nella seconda parte di questo articolo quattro proposte di ampiezza nazionale e dirompenti per l’economia e per l’occupazione dell’Italia che il governo dovrebbe con urgenza considerare. Le trovate coi seguenti titoli:

DISRUPTING LA POLITICA DOMESTICA COME MAI PRIMA. BIG DATA.

DISRUPTING L’INTERO PIL ITALIANO COME MAI PRIMA: L’ESERCITO DEI DEVELOPERS.

DISRUPTING LA STORIA DEL COMMERCIO IN ITALIA: GLI SMART LOGISTIC NETWORKS.

DISRUPTING L’OCCUPAZIONE IN ITALIA: I PUNTI PRECEDENTI E LA SCUOLA DELLA DISRUPTION.

In questi tre interventi a puntate su Occupazione & Disruption ci sono abbastanza chiarimenti, dati, e proposte innovative per tutelare due generazioni d’Italiani a fronte del più dirompente cambiamento occupazionale dal 1775 a oggi. Continuo a ripeterlo: le soluzioni a problemi sistemici devono essere sistemiche, il resto sono truffe vendute da politici cinici a un pubblico stupido, i cui figli poi piangeranno per generazioni.

Economia, Rivoluzione digitale

Occupazione & Disruption: Cosa devono sapere i tuoi figli. Lavoro sì, Lavoro no.

di Paolo Barnard (qui)

PARTE SECONDA

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Riprendo dalla parte precedente. Nel vitale tema di Disruption & Mondo del Lavoro abbiamo già elencato dei fatti chiari.

A): La Disruption sta piombando sul mercato del lavoro con un grande pericolo: una violenta disparità nei redditi fra chi nella forza lavoro la saprà cavalcare e chi meno.

B): Ci sarà un effetto di trasformazione di questi tutte le professioni esistenti, principalmente per l’effetto di Artificial Intelligence (AI) e di Machine Learning, che rappresentano molto di più di ciò che l’arrivo dei personal computers rappresentò per tutte le professioni 40 anni fa. Questa trasformazione farà però nascere lavori che oggi non esistono.

C): Alcune professioni saranno eliminate del tutto. Le più a rischio di sparizione sono quelle caratterizzate da mansioni ripetitive, perché per esse l’AI è un portento.

D): Per mettere al riparo i nostri figli, e i giovani già oggi al lavoro, dai maggiori rischi c’è una sola arma concreta: per i primi una formazione scolastica e universitaria più aggiornata possibile che li presenti al mondo del lavoro come appetibili; per i secondi l’impegno di Stato e aziende nella riqualificazione, ma a vita.

E): L’idea di risolvere ogni problema di esclusione dal mondo del lavoro a causa della Disruption impiegando i Redditi di Cittadinanza è in ogni caso precaria, ma nell’Italia ingabbiata da limiti di spesa pubblica soffocanti (Eurozona), essa è fallimentare.

F): Diffidate di chiunque si esprima su questo tema di Disruption & Mondo del Lavoro in termini in bianco e nero, come chi dice: “Sarà un paradiso di nuovi lavori per tutti” vs “Sarà la fine del lavoro e vivremo emarginati mentre le macchine faranno tutto”.

Capire le tendenze in modo intelligente è ciò che salverà i vostri figli studenti, o i giovani occupati, da enormi incertezze nel mondo del lavoro. E io scrivo per permettervelo. Continuiamo con più dettagli sui quali lavori sono a rischio e quali invece no.

DOVE CADRA’ LA SCURE E DOVE INVECE CI SARA’ RICHIESTA.

Leggendo i grandi studi su Disruption & Mondo del Lavoro delle maggiori Consultancies del mondo, come PwC UK, Deloitte, McKinsey, o Accenture e di alcuni top accademici del settore – loro sono i massimi esperti, avanti anni rispetto ai Ministeri del Lavoro e molto più scientifici – si nota un accordo di tutti su quanto segue. Almeno nella prima fase della Disruption, i settori dove le perdite d’impiego saranno più forti a causa dell’AI, della robotica, e in genere delle nuove tecnologie, sono (in ogni settore cadranno diversi mestieri):

Impiegati, contabili e amministrativi; manifatturiero e manodopera produttiva; costruzioni ed estrazioni; avvocatura e giudici; installazioni e manutenzione; operatori gru e trattoristi; alcune mansioni in agricoltura; meccanici e riparatori; le arti, design, intrattenimento, settore sport e media; alcune mansioni in hotel e viaggi.

Quelli che invece guadagneranno maggior impiego in assoluto sono:

Business e finanza; managers; informatica e matematica; architettura e ingegneria; rappresentanti; istruzione e formazione; farmacisti; infermieri e OSS; assistenti all’infanzia; camerieri; pensatori creativi e manager per la Disruption.

Tutti gli altri settori coi loro mestieri stanno nel mezzo, ma, come già detto, nessuno sarà risparmiato dalle nuove tecnologie. Però attenti, frenate subito.

E’ dunque vero che schiere di persone perderanno il loro lavoro così come l’hanno sempre conosciuto, ma la Disruption anche in questi casi offre possibilità di recupero, nella riqualificazione, nell’aumento di richiesta per certe professioni, e nel fatto che nasceranno lavori che oggi non esistono.

Tutto qui dipende da due fattori in ordine d’importanza: la velocità dei governi nel legiferare misure per cavalcare la Disruption e per favorire la nascita dei nuovi lavori; e l’intelligenza dei datori di lavoro nel capire che l’epoca dell’egoismo del profitto è morta, gli porterà solo fallimenti certi e che invece il futuro digitale impone intelligenza, che significa coordinamento fra aziende, e fra di esse e lo Stato.

E’ per questo che io oggi ‘grido’ a voi elettori/genitori di capire cosa sta accadendo subito, ora, non domattina, e di agire di conseguenza presso i partiti di riferimento e la stampa. Pena lo scempio dell’occupazione giovanile, ma anche di molti altri, in Italia.

RE-IMPIEGO E NUOVE PROFESSIONI.

Entro il 2030 si stima che fino a 375 milioni di posti di lavoro globalmente dovranno essere reskilled, cioè riqualificati. Ad esempio: nel manifatturiero e nella manodopera produttiva, dicono gli esperti, cadranno mansioni nelle mani dell’AI e robotica, ma il lavoratore potrà essere re-impiegato in fasi diverse del lavoro aumentando la produttività. Gli servirà solo un reskilling. Il colosso cinese dell’e-commerce Alibaba ha calcolato che i suoi robot da magazzino risparmiano a ogni magazziniere almeno 50.000 mosse fisiche al giorno, riducendone molto lo stress fisico ma soprattutto liberandogli tempo per aumentare la produttività, e senza lavorare un minuto di più nell’orario regolare. Naturalmente Alibaba li ha reskilled. Quindi l’impresa del reskilling di milioni di italiani non è un optional, è l’aria da respirare, e ogni singolo analista al mondo oggi lo dice chiaro: i governi giocano qui il ruolo principale con un intervento generoso nei bilanci.

Ma una nazione con vincoli di budget al limite del sadismo sociale (citaz. Sapelli) come diavolo farà a riqualificare sul lavoro due o tre milioni d’italiani? Oltretutto gli studi ci avvisano di una cosa: si è detto che il reskilling è l’ordine di scuderia di chiunque, ma va fatto velocemente, perché lasciare languire nella terra di nessuno i lavoratori in transito, significa perderli per strada con danni economici enormi. Vi dico subito fin da ora che addossare questo immane compito ai datori di lavoro, blandendoli con sconticini fiscali e mezze misure come i mini-bot, è prima di tutto ingiusto, ma poi tecnicamente impossibile. Come farà l’Italia soffocata nei bilanci dall’Eurozona, quando, come ho già scritto diverse volte, tutti gli esperti mondiali invocano chiaramente interventi di governo?

Si è detto che esiste un consenso generale degli analisti sul fatto che nasceranno nuove professioni, o vi sarà più richiesta di alcune. Partiamo dalle seconde. Già ora la Disruption, nelle parole di 20.000 imprenditori europei da tutti i settori principali e intervistati dalle Cosultancies, sta imponendo un aumento vertiginoso nella richiesta di alcune professioni, che si prestano per assorbire sia una quota di futuri licenziati (reskilled), che i giovani post laurea. Offro tre esempi rappresentativi di altri per non dilungarmi con trenta, in ordine crescente di complessità:

1) Rappresentanti. I prodotti di domani stanno nascendo in queste ore o sono sconosciuti oggi, oppure saranno gli stessi di oggi ma radicalmente innovati. Occorrono disperatamente venditori che siano formati prima di tutto a spiegare quei prodotti, poi a venderli a privati e governi, ma anche per raggiungere nuove fasce di clienti alle quali l’azienda non è abituata.

2) Gli analisti dei dati. Non occorre un dottorato per questa mansione, ma di certo un buon reskilling anche in assenza di laurea. Le aziende oggi sanno che Big Data è la scoperta nucleare del commercio di prodotti e di servizi, cioè saper analizzare e trarre conclusioni intelligenti dall’immane massa di dati che la Disruption gli mette a disposizione. Il successo si gioca qui, nel terzo millennio. La richiesta di analisti dei dati è destinata a esplodere fra pochissimi anni.

3) Per i laureati brillanti c’è già ora spazio per ricoprire un ruolo dirigente richiestissimo nei maggiori settori di commercio e servizi, cioè il Manager della Disruption. E’ colui che si specializza nel guidare l’azienda (piccola, media, grande), ma anche il settore pubblico, nella tempesta di cambiamenti che l’era digitale porta ogni minuto.

In generale grazie alla Disruption sono previsti globalmente entro il 2030: 130 milioni di nuove assunzioni in Sanità generale e assistenza agli anziani; 50 milioni nelle tecnologie; 20 milioni nel settore energetico.

Le professioni del tutto nuove che si prevede nascano grazie allaDisruption, sono (non chiedete i nomi esatti di questi mestieri perché neppure ancora esistono):

Gli specialisti intra-umani, cioè intelligenza emotiva, capacità di persuasione, gestori delle emozioni umane nel sociale, e i creatori di motivazione; i pensatori creativi in ogni settore, sia scientifico che industriale che amministrativo, poiché  essere super specializzati ma ottuse ‘scatole di dati’ non innova nulla in azienda; gli ottimizzatori delle energie rinnovabili; gli operatori nella lotta al cambiamento climatico.

Come scritto nel riquadro sopra, e non smetterò mai di sottolinearlo, ogni singolo esperto in Occupazione & Disruption esistente ‘grida’ sempre la medesima cosa, che la Consultancy McKinsey&Co. ha espresso nel dicembre 2017 con una frase lapidaria: “La moltiplicazione dei lavori potrebbe più che compensare le perdite a causa dell’automazione. Ma nulla accadrà per magia – richiederà che i governi e il business sappiano creare le opportunità”. E qui non posso che ripetermi: è per questo che io oggi ‘grido’ a voi elettori/genitori di capire cosa sta accadendo subito, ora, non domattina, e di agire di conseguenza presso i partiti di riferimento e la stampa. Pena lo scempio dell’occupazione giovanile, ma anche di molti altri, in Italia. Non fate l’errore di pensare “…dai, c’è tempo, oggi abbiamo ben altro a cui pensare“, equivale a iscriversi come Paese alla classe dei perdenti, e di nuovo: chi piangerà saranno i nostri giovani e giovanissimi.

Fine seconda parte

Economia, Rivoluzione digitale

Occupazione & Disruption: Cosa devono sapere i tuoi figli.

di Paolo Barnard (qui)

PRIMA PARTE

Definizione di Technological Disruption: un cambiamento in tecnologia così potente da trasformare in breve la vita umana sul Pianeta Terra. Nella Storia: il fuoco, l’agricoltura, la matematica, la stampa, le macchine a vapore, l’elettricità. Oggi per Technological Disruption s’intende l’arrivo delle nuove tecnologie digitali potenziate dall’Artificial Intelligence, che stanno cambiando davvero tutto.

INQUADRARE IL PROBLEMA. COSA STA ACCADENDO ALLE NOSTRE VITE.

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Quando nel 1775 lo scozzese James Watt diede vita alla più dirompente Disruption della Storia con l’invenzione della macchina a vapore, ecco cosa accadde alle nostre vite:

La cosa mozzafiato di questo grafico (Brynjolfsson-McAfee, 2014) è il dato sul grado di sviluppo sociale umano, che significa benessere e quindi possibilità democratiche. Per 9.700 anni filati le condizioni di vita del popolo comune rimasero sostanzialmente identiche, a un livello abominevole, spesso peggio degli animali selvatici. Poi arrivò la Disruption di Watt – e delle scienze post Galileo con l’elettromagnetismo di Faraday e di Maxwell – e in Occidente tutto cambiò di colpo, perché cambiò il lavoro, aumentarono i redditi e con essi la rivendicazione dei diritti. E’ vero che la Disruption di allora si portò dietro una buona dose di lacrime e sangue prima di darci la modernità del benessere, che tuttavia furono nulla confronto a 9.700 anni di standard di vita abietti oltre l’immaginabile. Ma l’altra faccia, gloriosa, di quell’esplosione tecnologica fu di fornire alle lotte sociali mezzi tecnologici di diffusione, e quindi di successo, impensabili prima, fino appunto alla moderna civiltà.

Oggi la Disruption delle nuove tecnologie digitali potenziate dall’Artificial Intelligence (AI) sta scatenando un’altra storica impennata dell’umanità, che è però di molto superiore a quella di Watt per l’enorme potere tecnologico odierno. E di nuovo tutto si gioca su come cambierà il lavoro. Entro il 2035, quindi parliamo soprattutto del destino dei nostri figli ma anche dei trentenni di oggi, avremo questo:

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Il grafico c’illustra il grado di penetrazione delle più dirompenti tecnologie della Disruption nel mondo di tutti i giorni, cioè nel lavoro. Davvero tutto sta cambiando, esattamente come tutto cambiò dopo macchina a vapore ed elettromagnetismo, ma mi rendo conto che voi, come i contemporanei di Watt e Maxwell, fate una grande fatica a rendervene conto. Tuttavia il rischio fatale e, non esagero, tragico per l’Italia del lavoro è di rimanere indietro. Significherebbe un prossimo secolo di arretratezza e bassa economia per tutti i nostri giovani e per i loro figli. Nel 2016 Il World Economic Forum lo disse senza mezzi termini:

Con cambiamenti così veloci, la capacità di anticipare la futura richiesta di competenze, di nuovi lavori e i loro effetti sull’occupazione è sempre più cruciale per i governi e per il business… Chi non si prepara affronterà costi sociali ed economici enormi“. Scrollare le spalle da scettici e illudersi che “…dai, c’è tempo, oggi abbiamo ben altro a cui pensare“, equivale ad iscriversi come Paese alla classe dei perdenti, e di nuovo: chi piangerà saranno i nostri giovani e giovanissimi.

L’articolo che precede questo vi ha spiegato l’AI e per un buon motivo: essa cambierà il mondo del lavoro esattamente come la scoperta del linguaggio ha cambiato la storia della specie umana. Perché intelligenza è tutto, muove tutto, interpreta tutto, serve in tutto. Demis Hassabis, CEO di Google DeepMind cioè l’azienda che sta al centro della galassia AI, ha detto:

Il nostro goal è di conquistare l’intelligenza. Poi di usarla per risolvere tutti gli altri problemi”.

INQUADRARE IL PERICOLO: DISRUPTION & DISEGUAGLIANZA DEI REDDITI PER CHI RIMANE INDIETRO.

Il pessimismo delle prossime righe è realismo necessario a capire quale sfida affrontiamo come nazione, ma su di esso è nostro dovere cercare poi i rimedi possibili, ed esistono per fortuna.

Quando si parla di Disruption e AI in relazione al mondo del lavoro, tutti subito corrono a pensare ai robot e agli operai licenziati. Di certo questo sarà un problema, ma non tanto quanto s’immagina. Più avanti ne parlerò. In realtà il vero grande pericolo nella Disruption è che essa, ad oggi, sempre più è sinonimo di questo: un vertiginoso aumento della disparità dei redditi, più che perdita incontrollabile del lavoro.

Il primo campanello d’allarme che deve suonare nelle orecchie dei genitori italiani viene da una serie di dati americani, che come sempre da 60 anni anticipano quelli europei. Nei primi 15 anni di digitalizzazione dell’economia USA, le disparità di redditi fra colletti blu (licenza liceale) e colletti bianchi (lauree) schizzò in alto, perché i secondi grazie alla formazione digitale universitaria poterono approfittare dei nuovi lavori ben pagati, gli altri no e subirono in pieno l’impatto devastante del crash bancario del 2008. Addirittura il fenomeno ha raggiunto un livello di gravità tale che fra i colletti blu in America c’è un’epidemia di suicidi per disperazione, descritti in uno studio del Premio Nobel Angus Deaton e di Anne Case nel 2014.

Vero è che gli Stati Uniti sono un incubo d’abbandono sociale dei deboli, dove il Welfare quasi non esiste, ma l’Europa delle Austerità sta demolendo il suo Welfare ogni giorno di più, e i criminosi limiti di spesa pubblica che impone agli Stati membri escludono in via categorica che i vari schemi di Reddito di Cittadinanza abbiano un potere di fuoco sufficiente a evitare al nostro Paese un’Apartheid fra inclusi ed esclusi nella Disruption. Paradossalmente invece ha senso che negli Stati Uniti, detentori di moneta sovrana e sovrani nel Parlamento, molti economisti dell’era digitale stiano parlando di Universal Basic Income (un tipo di Redd. di Citt.) proprio per salvare gli esclusi: loro se lo potrebbero permettere, noi no.

Per i gravi motivi detti sopra, assolutamente non fatevi ingannare da chi, come questo governo, rassicura milioni di giovani con queste soluzioni. No: finché Eurozona sarà, il realismo mi costringe a dirvi che l’unica arma che rimane ai vostri figli per difendersi dal destino denunciato da Angus Deaton e Anne Case è una formazione solidissima ai nuovi lavori della Disruption (che non sono solo tecnologia, come spiegherò successivamente).

Dunque è chiarissimo il messaggio per genitori e ragazzi, che riassumo:

La seconda ondata di digitalizzazione in corso oggi con la Disruption porta soprattutto con sé il pericolo di un enorme divario nei redditi, oltre a una sostanziale dose di lavori perduti. Questo non solo fra colletti blu e colletti bianchi, ma anche fra i nostri presenti e futuri colletti bianchi, dove chi all’università ha studiato gli skills (competenze) avanzati per la digitalizzazione (non solo tecnici ma anche umani) avrà i lavori migliori, chi ha comunque un laurea ma priva di quel sapere sarà lasciato indietro con forti rischi economici.

Allora diventa prioritario per tutti, genitori e ragazzi, sapere quali sono quegli skills e se le scuole superiori e università italiane sono davvero attrezzate per insegnarli. Dei primi parlerò in altro momento, ma la risposta alla seconda domanda è no.

Il Ministero dell’Istruzione Università e Ricerca (MIUR) ammette oggi a denti stretti, nel rapporto Scuola Digitale, una situazione formativa italiana desolante a fronte della Disruption. Ecco alcuni fatti pubblicati dal MIUR:

– I dati OCSE dicono che ogni quindicenne italiano usa il computer in classe molto al di sotto della media europea, molto meno dei greci, e quasi un terzo del tempo di un australiano.

– Sempre media OCSE: i docenti italiani son in assoluto i meno preparati all’era digitale.

– Nel Digital Economy Index l’Italia languisce al 25mo posto su 28 Paesi, ha lacune dappertutto, e nella velocità di connessione alla Rete è in fondo alla classifica europea con un umiliante 9.2 Mbps, davanti solo a Grecia e Cipro. Nelle aule si soffre moltissimo di questo.

– Il MIUR scrive di suo pugno: “… il processo di diffusione della scuola digitale negli ultimi anni è stato piuttosto lento… azioni spesso non incisive e non complessive”. (si consideri che un Ministero sempre abbellisce la realtà, quindi…)

Sapere è lavoro, ma un buon lavoro oggi, nella Disruption, significa sapere molto. Con una situazione del genere c’è da mettersi le mani nei capelli e di certo le misurette post Job Act tipiche di questo governo, almeno per ora, sono inadeguate alla realtà. E la realtà è questa:

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Questa mappa ci racconta tutto. L’Italia non solo sprofonda nell’economia tradizionale (a causa soprattutto dell’Eurozona), ma colpevolmente i suoi governi degli ultimi 15 anni l’hanno tenuta fuori dalla realtà, cioè dalla Disruption, e infatti siamo gialli, cioè quasi ultimi nell’innovazione, e dunque fra gli ultimi nelle prospettive di lavoro dei nostri figli. Questo è quanto, purtroppo. Le più estensive ricerche sull’impatto delle nuove tecnologie sul lavoro (Deloitte,Accenture, McKinsey&Co., MIT et al.) includono il seguente dato: globalmente da 1 miliardo a 2 miliardi di lavoratori perderanno il lavoro entro il 2030, la maggioranza in Occidente, e molti dovranno essere ri-formati. Con limiti di spesa pubblica drammatici, chi si farà carico di questo? Inoltre viene posto un altro problema: la scuola deve avere una conoscenza avanzatissima della Disruption in continuo aggiornamento, perché è molto probabile che una parte degli skills insegnati oggi saranno obsoleti per il mondo del lavoro nel giro di 5-8 anni in media. Con un ritardo nelle scuole e università italiane di questo genere cosa farà l’Italia? Il presente governo ha piani adeguati nei programmi? Io non li ho trovati.

INQUADRARE QUALI LAVORI SONO A RISCHIO, QUALI MUTERANNO RADICALMENTE.

Il campo qui è vastissimo, perché sappiamo che generalmente un Paese moderno ospita oltre 900 mestieri, e siccome una buona parte delle nuove tecnologie della Disruption stanno sbocciando in queste ore o sbocceranno appena domani, è impossibile davvero essere precisi. Ma una cosa è più che evidente: la tecnologia su cui già ora si possono fare previsioni certe è proprio l’AI di Machine Learning che vi ho appena spiegato qui. Questo perché è una tecnologia perfetta per sostituire i lavori ripetitivi d’ufficio, per far funzionare la logistica aziendale, per far ‘pensare’ i robot nelle industrie, ma anche per sostituirsi all’umano in compiti complessi all’interno di molti mestieri sofisticati.

La MIT Initiative on the Digital Economy per dare al pubblico un’idea del grado di penetrazione praticamente ovunque di Machine Learning, cioè del fatto che davvero saranno pochissimi i lavori di domani che non avranno almeno in qualche segmento una AI a sostituire qualcosa o qualcuno, afferma che il mestiere in assoluto più ‘blidato’ contro la Disruption è il… massaggiatore. All’altro estremo invece le mansioni che sembrano davvero destinate a essere falcidiate sono gli impiegati, i contabili, gli amministrativi in generale. Ma andiamo più nello specifico, perché mentre è scontato che fra i colletti blu tanto dovrà cambiare, molti genitori e studenti ancora non comprendono purtroppo cosa accadrà alle professioni dei colletti bianchi, degli specializzati, che siano medici, avvocati, commercialisti, o persino ingegneri informatici (esempio estremo, ma anche fra loro cadranno teste con l’AI).

Fine prima parte.

Economia, Rivoluzione digitale

Iniziamo con l’innovazione. L’Intelligenza Artificiale sarà sempre più presente. Ecco la grande trasformazione delle economie avanzate.

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CAPIRE L’ARTIFICIAL INTELLIGENCE NON E’ PIU’ UN OPTIONAL. ECCOLA SPIEGATA (dal blog di Paolo Barnard qui)

Nell’educazione politica dei cittadini va oggi inserita come prioritaria la comprensione dell’Artificial Intelligence (di seguito AI).

Così come cinquant’anni fa l’arrivo del personal computer ha cambiato ogni angolo della vita privata, professionale, economica e politica, così è oggi l’AI, solo immensamente di più. Le ‘macchine pensanti’ saranno ovunque e gestiranno quasi tutto, punto. Ma su cosa davvero sia l’AI, e cosa sarà, c’è un’enorme confusione, soprattutto a causa delle fantasie cinematografiche e dell’iperbole nei media. L’AI va quindi capita con lucidità. Ma attenti: date le sue straripanti applicazioni nella politica, economia, istruzione, lavoro e salute, oggi non saperlo non è più un optional.

Dovete iniziare da questa domanda: gli umani già posseggono l’intelligenza, frutto di un improvviso e ancora misterioso salto genetico avvenuto fra 200 e 100 mila anni fa in un ramo di primati; allora perché oggi stiamo ossessivamente cercando di crearne un’altra, quella artificiale?

Esiste solo una risposta: perché quella artificiale dovrà essere molto più potente di quella umana. Infatti non avrebbe senso investire miliardi e lavorare decenni per riottenere delle capacità artificiali pari a quelle naturali dell’uomo. Ma qui ho appena usato un termine che è la chiave di tutta la comprensione della vera AI: “capacità”. Infatti l’attuale AI non ha assolutamente nulla di intelligente, cioè nulla di neppure lontanamente comparabile alle funzioni cognitive del cervello umano; essa ha unicamente delle capacità computazionali prodigiose che gli derivano da istruzioni sempre più sofisticate. Fra capacità artificiali e intelligenza naturale esiste un divario di dimensioni colossali. L’aver usato Intelligence nella locuzione Artificial Intelligence ha portato a un’incomprensione enorme in tutto il mondo, e infatti la locuzione più idonea sarebbe stata Capacità Artificiale, non intelligenza artificiale.

Da più parti, in tema di AI, giungono apocalittici avvisi e scenari che ipotizzano un mondo da incubo dove super macchine capaci di pensieri e sentimenti propri potrebbero schiavizzare la razza umana e dunque conquistare il potere. O peggio: impossessarsi delle atomiche ed estinguerci. Queste sono sciocchezze, che appunto spariscono quando si ha chiara la sopraccitata differenza fra capacità artificiali e intelligenza naturale. Quest’ultima, che appartiene unicamente a noi, è, e quasi certamente rimarrà, irraggiungibile dalle macchine, ed è bene subito chiarirvi il motivo. Purtroppo mi devo soffermare parecchio su questo punto perché se rimaniamo distratti dall’AI fantasy dei film, finiamo per non capire niente del colossale impatto che questa tecnologia davvero avrà sulla politica, l’economia, l’istruzione, il lavoro e la salute degli umani.

SCORDATEVI C-3PO E TERMINATOR.

Prima cosa sia chiara un’altra distinzione: non esiste solo la AI, ma anche la AGI, che è la Artificial General Intelligence. La prima si riferisce a macchine che sotto la totale istruzione e direzione dell’uomo svolgono compiti estremamente complessi, come: tradurre le lingue all’istante; trovare segni patologici invisibili ai medici negli esami clinici; predire i Mercati nelle variabili indecifrabili ai traders; riconoscere miliardi di volti e collegarli senza errore ai conti correnti o ai file di Polizia; interpretare e catalogare migliaia di miliardi di dati in frazioni di secondo per uso e consumo umano, ecc. Quindi si badi bene: stiamo parlando sempre di capacità eccezionali, e non d’intelligenza cognitiva tipica dell’umano. La seconda, l’AGI, è invece il sogno dei tecnologi: le stesse macchine, con le stesse capacità, ma dotate di totale autonomia sia nell’imparare per conto proprio che nel ‘pensare’ per conto proprio alle soluzioni. Cioè che non richiedano più nessuna istruzione e direzione dell’uomo. Di nuovo però, si badi bene: parliamo in questo caso di un passo oltre, ma sempre di tecnologie e nulla a che vedere con l’esatta riproduzione di un cervello umano. Quindi neppure l’AGI rappresenta davvero le futuristiche, anche se emozionanti, fantasie alla Star Wars, Blade Runner e filone successivo.

Che replicare esattamente un encefalo umano dentro un’AGI, cioè creare la cosiddetta Superintelligence, fosse un’impresa pressoché irraggiungibile fu la chiara intuizione del padre dei computers, Alan Turing, il genio matematico inglese scomparso nel 1954. Turing lasciò ai posteri una sfida in questo senso, contenuta nel celeberrimo Turing Test che includeva anche una versione aggiornata col nome di Imitaton Game: in questi test si sarebbe misurato se mai un computer avrebbe ingannato la mente umana mostrando intelligenza superiore (e qui si parla d’intelligenza complessiva, non di abilità agli scacchi o a Go). Fu un primo tentativo di far comprendere quanto lunga in realtà fosse la strada prima di poter davvero decretare che una macchina sa pensare come un uomo, ammesso che quella strada esista in assoluto. Alan Turing lasciò infatti una predizione pessimistica in questo senso, nelle seguenti lapidarie parole: “La questione se le macchine possono pensare è talmente insignificante da neppure meritare una discussione”. I fatti gli stanno dando pienamente ragione a 60 anni di distanza e dopo salti tecnologici giganteschi: la Superintelligence non solo non c’è, ma si allontana sempre di più.

Considerate le seguenti cose, solo quattro punti per far capire, perché davvero dobbiamo sterilizzare il campo dalle fantasie degli esaltati sulla AI, pena il perdere uno dei più importanti treni politici ed economici della Storia, che è la vera AI:

  1. A) Nella Image Recognition, una branca della AI, ancora oggi per ottenere da una macchina ciò che il nostro cervello fa in una frazione di secondo occorrono sforzi tech immensi. Immaginate un numero 9 scribacchiato male: l’occhio e cervello umani dopo pochi istanti, senza alcuno sforzo, sanno capire se si tratta davvero di un 9 o di una g, o di disegni infantili di un girino o di un palloncino attaccato al filo, ecc. Per far sì che un computer arrivi a questo misero risultato, il lavoro di software e di artificial neural networking che gli va insegnato è estenuante. Da qui immaginate cose come la contemplazione di un affresco, e la miriade di stimoli che un cervello umano ne riceve, che vengono capiti all’istante, e che sa poi riprodurre in ogni campo cognitivo in pochi secondi per, infine, produrre azioni di ogni sorta; e di nuovo immaginate cosa ci vorrà per attrezzare un computer ad avere quelle stesse capacità se un 9 scribacchiato male richiede oggi sforzi di decine di ricercatori per farglielo azzeccare.
  2. B) Si fa un gran parlare in AI degli Artificial Neural Networks, cioè imitazioni delle strutture neuronali del nostro cervello messe dentro i computers per renderli più ‘intelligenti’. Sono tecnicamente fondamentali, ma anche qui la realtà è disarmante. Il cervello umano ha 85 miliardi di neuroni interconnessi, e nessuno al mondo oggi sa davvero come funziona neppure un singolo neurone. Alla New York University il luminare delle neuroscienze Rodolfo Llinas ha tentato per anni di capire come agisce il mega neurone del calamaro gigante, cioè come fa ad esempio a fagli distinguere un capodoglio da una roccia, ma è ancora… in alto mare. Perciò quando nella fantasia popolare si parla di AI o di Artificial Neural Networks come se fossimo a un passo dal trovare cervelli umani artificiali perfettamente riprodotti che ci faranno psicoterapia in un ‘Apple consultorio’, o che svolgeranno indagini di polizia, si parla di stupidaggini.
  3. C) Un altro trofeo del nuovo mondo in AI sono i sistemi di navigazione che tutti usiamo in auto e quelli ancor più sofisticati in arrivo per il futuro Driverless di auto, camion, aerei, drones ecc. Cose strabilianti senza dubbio, ma se si parla di esse come fosse intelligenza si va sul ridicolo. Il cervello umano racchiude in pochi cm quadrati delle capacità computazionali simultanee nella gestione dello spazio-tempo e nella sua valutazione cognitiva che nessun computer neppure lontanamente oggi sa riprodurre. Le api hanno appena 800.000 neuroni in un cervello grande come la capocchia di uno spillo, ma posseggono sistemi di navigazione talmente sofisticati che, per riprodurli, a noi occorrono computer giganteschi con l’appoggio di enormi strutture sia terrestri che nello spazio. Anche questo vi dà il senso della distanza fra macchine ‘intelligenti’ e natura davvero intelligente.
  4. D) Hanno fatto molta impressione sul pubblico le notizie delle prodezze di AI come Deep Blue e AlphaGo, cioè dei set d’istruzioni ‘pensanti’ dentro una macchina che hanno sconfitto giocatori-geni umani. Da lì molti hanno immaginato che eravamo a un passo dalla AGI detta Superintelligence, ma assolutamente no. Ciò che non viene fatto capire al pubblico è l’infinita differenza che c’è fra un cervello che impara senza alcuna istruzione su come imparare (l’umano), e un cervello che invece prima di imparare deve essere fornito da un esterno delle istruzioni su come imparare (la AI). Per essere chiari: un infante di 2 anni apprende un codice immensamente complesso come quello del linguaggio e dei suoi contenuti di coscienza senza che nessuno gli infili nel cranio un software su come apprendere linguaggio e coscienza. Invece un’AI prima di imparare il linguaggio e i suoi contenuti dovrà sempre dipendere dall’intelligenza umana che gli sappia ficcare dentro istruzioni sempre più complesse su come E’ vero che si parla di macchine avanzatissime che oggi apprendono alcune cose da sé, tuttavia all’inizio della catena c’è d’obbligo la discrezionalità delle istruzioni umane su come apprendere, cosa che nella biologia umana non accade, noi nasciamo già completi. Ma soprattutto un altro punto.

Come faranno gli scienziati ad arrivare a riprodurre in una macchina i meandri dell’intelligenza se neppure ancora sanno minimamente come questi funzionino in un encefalo biologico? Davvero la Agi con Superintelligence sono ancora fantasie.

E quindi non è un caso che dopo 60 anni dal genio di Alan Turing arrivi proprio oggi una botta di mesto realismo sulla testa della cosiddetta AI Community. Si parla sempre più fra i top esperti di un ‘inverno’ che sta calando sulla AI. Quello che è oggi considerato il Pitagora della AI, Yann LeCun, era stato assunto da Facebook come Guru supremo della loro AI nella speranza di avvicinarsi alla Superintelligence, ma oggi LeCun si sta defilando da Zuckerberg, e sta più nell’ombra.

Tutto questo per dare ai lettori un quadro informato e realistico di cosa davvero s’intende oggi per Artificial Intelligence, quando tutti sparlano di AI come macchine che schiavizzeranno il mondo e di scenari futuri da Isaac Asimov. Non fatevi impressionare dal fatto che Silicon Valley di tanto in tanto riunisca i massimi cervelli in dibattiti sull’etica delle future macchine ‘intelligenti’. DeepMind, che è il centro d’eccellenza sull’AI del colosso Google-Alphabet a Londra, ha lanciato Ethics&Society come laboratorio permanente di studio sulla moralità e sui benefici umani di queste tecnologie. Ma tutto ciò non significa affatto che dietro l’angolo davvero c’è il Terminatorpronto a comparire a schermi unificati nel Pianeta per annunciare la fine dalla razza umana. La discussione sull’uso delle tecnologie e sul loro impatto sull’umanità è, come dire, un contorno che sempre viene servito col piatto principale, e questo fin dall’invenzione della dinamite. Il fatto che le supertech possano finire in networks di controllo politico e di repressione di massa, o addirittura essere usate nelle armi di sterminio della specie, è del tutto vero, ma come sempre sarà la mano dell’uomo a decretarlo, non una Superintelligence che un mattino si sveglia a pigia i bottoni (per i Nerds: tech singularity is a joke, checché ne dica Elon Musk e altri infatuati come Ray Kurzweil).

Spero che siate arrivati fin qua. Ora la parte cruciale invece, perché rimane assolutamente vero che la AI come strumento di gestione comandato dall’uomo nella vita moderna e in ogni campo conosciuto – quindi dalla politica alla Medicina, dalle comunicazioni all’industria, dai servizi alla finanza, dall’istruzione al mondo del lavoro – sia oggi la più grande rivoluzione nelle nostre vite dopo l’arrivo dei computer, ma molto più dirompente, per cui nessuno la deve ignorare, pena rimanere esclusi in una vita da analfabeti ottocenteschi.

Quindi per completare il quadro generale di cosa sia la realistica AI e di come appunto cambierà quasi tutto, vanno descritti i tre pilastri che la compongono e di cui già si sente parlare, ad esempio, nelle offerte lavorative, nella innovation aziendale, e nelle infrastrutture nazionali: MACHINE LEARNING, DEEP LEARNING e gli ARTIFICIAL NEURAL NETWORKS.

MACHINE LEARNING.

Nasce attorno ai primi anni ’80 e la grande innovazione che porta è di sostituire i codici di software scritti a mano dai programmatori con un altro tipo d’istruzioni per i computers affinché… imparino da soli. L’idea fu che se una macchina, invece di dipendere al 100% dal software umano per sapere come svolgere un compito, fosse riuscita a usare il suo enorme potere di calcolo per apprendere, migliorare il proprio giudizio e poi completare quel compito, ovviamente i risultati sarebbero stati mille volte maggiori. Quindi invece di mettere un tradizionale software nel computer (Machine), i tecnici gli permettono d’imparare (Learning) ficcandogli dentro enormi quantità di dati e di algoritmi che appunto gli permettono d’imparare da solo come svolgere quel compito. Cosa accade in pratica dentro al cervello della macchina? Accade che gli algoritmi, che sono in sé istruzioni, studiano la massa dei dati in arrivo, ne traggono insegnamenti, selezionano ciò che è più funzionale, e poi offrono all’uomo un compito finito o una decisione su come fare qualcosa o la previsione di qualcosa.

mighty-ai2Per dare un esempio si consideri l’applicazione oggi più famosa di Machine Learning, che è la computer vision che sarà applicata ai mezzi di trasporto senza autista (Driverless). Il computer usa Machine Learning per dare un senso a oggetti e forme che si trova davanti e per svolgere un compito. Come detto sopra, il suo ‘occhio’ riceve dai tecnici immense quantità di dati su quegli oggetti e forme, impara a distinguerli usando i suoi algoritmi, e di conseguenza svolgerà poi il compito di guidare un’auto in mezzo a essi riconoscendoli e interpretandoli. Non fu facile per i ricercatori all’inizio: prendete un pedone. Prima che Machine Learning sapesse riconoscerlo ed evitarlo, dovette innanzi tutto imparare il concetto di dove inizia la sua forma e dove finisce, ci volle un lavoro computazionale incredibile. Eh sì, sembra assurdo, perché per noi l’idea di dove inizia e dove finisce una figura è scontata, ma non per un computer, che deve imparare anche quello fra miliardi di altre banalissime cose. Ma la velocità dei processori oggi è tale per cui i progressi di Machine Learning sono stati stupefacenti, ed è già in uso in una miriade di applicazioni industriali, aziendali e tecnologiche, la più importante delle quali è nella Medicina diagnostica. Grazie a Machine Learning, un computer sa ‘vedere’ milioni d’immagini nelle lastre, sa razionalizzarle, sa imparare cosa è cosa, e poi usa questo suo sapere su una determinata lastra per trovare ciò che l’occhio del medico potrebbe non aver visto.

DEEP LEARNING & ARTIFICIAL NEURAL NETWORKS.

Sono i gemelli che sempre sentite nominare quando si parla di AI e di Machine Learning. Sono in pratica lo stesso concetto di Machine Learning ma ancor più sofisticato e molto più potente nel funzionamento. Partiamo dai secondi.

Come dice il nome, Artificial Neural Networks, essi sono la riproduzione (assolutamente rudimentale oggi) del sistema dei neuroni del cervello umano ma dentro un computer. In altre parole: non più i codici software, ma una simil-biologia umana per far funzionare le macchine ‘pensanti’. Anche qui l’idea ha circa 50 anni, ma solo di recente è decollata. I ricercatori fanno strati di neuroni artificiali – attenti: non sono micro cosine di plastica e rame, ma algoritmi – che si connettono fra di loro. Queste connessioni, sia chiaro, non sono neppure lontanamente ramificate e capaci come quelle biologiche, poiché sono costrette entro un ristretto numero di possibilità. Ora, per capire cosa succede in un Artificial Neural Network e a cosa serve, passiamo a un esempio diretto.

Il computer dovrà imparare a riconoscere all’istante un volto di un cliente e ciò che egli ha nel cestino delle compere, per abbinare sia il volto che le compere al suo conto corrente mentre se ne esce con la spesa da uno smart-shop, senza più passare per nessuna cassa né estrarre il portafoglio (gli smart-shop sono già realtà). Ecco come i tecnici di Machine Learning fanno sì che un Artificial Neural Networkimpari da solo a svolgere questo compito. Iniziamo dal riconoscimento del volto: l’immagine viene scomposta in blocchi che arrivano al primo strato di neuroni artificiali. Questi valutano emettendo un giudizio chiamato weighting (soppesare), poi il tutto passa al secondo strato che fa la stessa cosa, e così via fino alla fine, dove tutti i weighting messi assieme arrivano a una conclusione ‘pensata’. Cioè: la forma ovaleggiante dell’immagine (cranio-mascella); il fatto che ha due palle colorate parallele (occhi); che ha attorno qualcosa di colorato (capelli); ci sono altre cose bilaterali (narici, orecchie); si muove (muscoli facciali), ecc., tutto questo viene soppesato dai vari strati di Artificial Neural Networks e alla fine la macchina arriva a una conclusione: è un volto.

Dovete immaginare che questa ‘scuola’ viene ripetuta dal computer milioni di volte, e che esso è sottoposto a un bombardamento di milioni di dati tipici dei volti, fino ad arrivare a una velocità istantanea di riconoscimento di un volto. Un Artificial Neural Networkgià esperto in questo abbina poi quella faccia con precisione perché la trova all’istante fra tutti i volti precedentemente caricati, ad esempio, da una banca, e questo serve poi a completare il compito specifico che era appunto il riconoscimento per addebitare il conto corrente relativo. Vi basta ora replicare questa strepitosa capacità in mille altri campi operativi, industriali, sociali, infrastrutturali, per comprendere perché oggi Machine Learning e Artificial Neural Networks sono sulla bocca di tutti.

Se avete capito fin qui, e mi sono spellato il cervello per essere chiaro, allora è facile capire cosa significhi Deep Learning. Non è altro che l’amplificazione della tecnica sopra descritta negli Artificial Neural Networks su scala sempre maggiore e affidando ai computers algoritmi sempre più sofisticati. Fu l’idea dello scienziato Andrew Ng (Baidu), che comprese che per sveltire l’apprendimento delle macchine ‘intelligenti’ – ma soprattutto per permettere loro apprendimenti sempre più astratti, e quindi vicini a quelli del cervello umano – le si doveva dotare di Artificial Neural Networks giganti e le si doveva sottoporre a dosi colossali di dati. Fu proprio Andrew Ng che ingozzando un computer con 10 milioni di video permise al suo Artificial Neural Network di imparare per la prima volta a riconoscere un gatto. Replicare questo metodo per permettere alle macchine di imparare a ‘pensare’ sempre di più e quindi a svolgere compiti sempre più complessi, è di fatto il Deep Learning.

SARA’ DAPPERTUTTO. ADESSO LA CONOSCETE. GIOVANI, COSA FARE.

Ci sono due categorie d’italiani per cui quanto sopra è essenziale, ma in due modi radicalmente diversi: gli adulti e i giovani. Per gli adulti conoscere l’AI, e più in generale la travolgente rivoluzione globale delle nuove tecnologie chiamata Disruption, ha un valore politico imprescindibile. Per i giovani, cioè dai bambini ai ragazzi, si tratta di capire che chi rimane fuori almeno dalla comprensione di base dall’AI e dalla Disruption è oggi identico all’incolpevole italiano che negli anni ’50 non sapeva ancora leggere e scrivere, e mestamente da escluso sociale guardava le lezioni del Maestro Manzi a “Non è mai troppo tardi” alla RAI in bianco e nero, mentre tutti gli altri partecipavano al grande boom economico del dopoguerra con lavori, sicurezza sociale, e un futuro per i figli.

Per capire il valore politico dell’AI non ci vuole un genio. Queste tecnologie hanno un potere di analisi dei dati sconfinato. Oggi l’adesione a Internet di quasi tutti i cittadini, o anche solo il possesso di un cellulare, significa che coloro che gestiscono il digitale ci carpiscono lecitamente (quindi non Cambridge Analytica o la NSA) milioni di dati al giorno su: cosa facciamo o dove siamo, e quando; cosa diciamo o cosa leggiamo di politicamente rilevante; cosa compriamo, e quanto; lo scontento e il malumore sociale, di chi e dove; e moltissimo altro. Fino a pochissimo tempo fa quella mole cosmica di dati era usata dalle classi dirigenti, fa cui i politici, neppure all’1% perché non esisteva la tecnologia per analizzarli tutti e trarne conclusioni utili. Oggi invece l’AI di Machine Learning e del Data Mining ha spazzato via i sondaggisti come le calcolatrici spazzarono via il pallottoliere, e permette a classi dirigenti e politici un potere di predizione e quindi di manipolazione del consenso inimmaginabili. L’essenza stessa dei maggiori partiti esteri è cambiata: l’AI è il primo strumento di cui si sono dotati, e come sempre l’Italia li imiterà. Non capire oggi il nesso fra politica e AI è esattamente come chi negli anni ‘50 si fosse rifiutato di capire il nesso fra l’arrivo della Tv e la politica.

Nell’economia nazionale, che sono i nostri lavori, redditi, pensioni, alloggi, salute, l’arrivo dell’AI significa una cosa semplice: amplificare il potere di tutto. Questo perché qualsiasi sviluppo dirompente che oggi si applica nell’istruzione, nell’agricoltura, nella finanza, nella sanità, nei trasporti, nelle infrastrutture, nell’industria, nell’azienda, sarebbe rimasto uno scatolone vuoto senza una tecnologia che ne sapesse analizzare e capire la cosmica quantità di nuovi dati, per poi suggerire innovazioni. L’AI esiste proprio per questo, e cambierà tutto.

Per i vostri figli piccoli, e per i ragazzi, posso solo ripetere ciò che ho già scritto tante volte. L’AI e la Disruption delle nuove tecnologie sta, in queste ore, ridipingendo il mondo del lavoro come mai nella storia umana. Ne ho già trattato lungamente. Uno può scalciare, può illudersi, e negare la realtà, faccia pure, sarà solo un perdente, come il povero italiano analfabeta che vagava le strade del boom economico del dopoguerra. Seguite il mio consiglio: leggete i pochissimi autori come me che vi stanno raccontando ‘live’, giorno dopo giorno, cosa succede a Disruption & Work e quali capacità (gli Skills) è oggi prioritario acquisire nell’era della Disruption. Ma, genitori dei piccoli e ragazzi adolescenti, io mi spingo ancora oltre: leggeteci, e poi confrontatevi con gli insegnanti, e se li troverete scettici o addirittura impreparati su questi temi fate manifestazioni per pretendere che vi tutelino con gli aggiornamenti, in particolare, ripeto, su Disruption & Work. Perché quando uno dei Signori del mondo di oggi, Google-Alphabet, scrive sulla home la frase che conclude questo paragrafo, un giovane deve schizzare sulla sedia come la dinamite se davvero sogna un lavoro dignitoso, una vita da persona libera: “Il 65% degli studenti di oggi lavoreranno in lavori che neppure ancora esistono”.

Ora sapete tutti almeno le basi, solide e informate, su cosa sai l’Artificial Intelligence, e perché non conoscerla non è più un optional. Ora fate la vostra parte e divulgate questo articolo.

(le immagini sono dei rispettivi proprietari)