Centrodestra, Lega, Politica

Giorgetti preoccupato: fondi Lega? Se il 5 settembre ci condannano il partito chiude

Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio alla festa del Fatto Quotidiano ha parlato della sentenza attesa dopo il 5 settembre che deciderà sui conti leghisti.

PIETRASANTA – «La sentenza sui fondi della Lega? Se il tribunale del Riesame conferma la condanna, il 6 settembre il partito chiude». Quindi i problemi con la Guardia costiera che sul caso Diciotti non ha rispettato gli ordini, ma anche le promesse di Matteo Salvini che sui 500mila respingimenti «l’ha sparata grossa». Infine l’annuncio della presentazione del ddl Anticorruzione in consiglio dei ministri «forse già la prossima settimana». Giancarlo Giorgetti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, è intervenuto dal palco della Festa del Fatto Quotidiano in Versiliana. E intervistato dal direttore Peter Gomez per «La Confessione» ha affrontato tutti i temi caldi sul tavolo del governo Lega-M5s al rientro dalle vacanze estive. A partire dalla sentenza attesa dopo il 5 settembre, quando il Tribunale del riesame di Genova si esprimerà sul sequestro dei conti leghisti dopo la condanna per truffa ai danni dello Stato di Umberto Bossi e Francesco Belsito. Una data non ancora stabilita (potrebbe il tribunale prendersi qualche giorno per decidere) che, secondo alcune ricostruzioni di stampa, potrebbe far saltare l’esecutivo e riaprire la strada all’ipotesi elezioni anticipate.

Senza soldi non si va avanti

Giorgetti, rispondendo alle domande del direttore de ilfattoquotidiano.it, ha spiegato perché il Carroccio contesta l’eventuale intervento della magistratura: «Avrebbe una conseguenza definitiva, la chiusura del partito, senza che quel processo sia finito. Se tutti i futuri proventi che arrivano alla Lega vengono sequestrati, è evidente a quel punto che il partito non può più esistere, perché non ha più soldi. E’ ovvio che se il 6 i giudici decidono cosi, noi siamo finiti. Arrivasse dopo una sentenza della Cassazione io non avrei niente da dire». Maglietta maniche corte e toni informali, Giorgetti è l’uomo che più di tutti dall’avvio della legislatura ha tessuto le trame della nuove alleanza tra Carroccio e 5 stelle. E, intervistato da Gomez, pur avendo negato di essere il Gianni Letta del governo giallo-verde o il nuovo Richelieu, ha smentito ipotesi di crisi o elezioni anticipate. «Se la Lega avesse voluto staccare la spina», ha chiuso, «il giorno dell’avviso di garanzia a Salvini nell’ambito dell’indagine sulla Diciotti avremmo avuto un buon motivo. Non lo abbiamo fatto, abbiamo cinque anni davanti per salvare il Paese dal disastro».

«Diciotti? C’è un problema con la Guardia costiera»

Giorgetti ha parlato a lungo del caso della nave Diciotti e della decisione del governo, la settimana scorsa, di tenerla bloccata nel porto di Catania con 150 migranti a bordo. «In questo caso era coinvolta la Guardia costiera italiana, non una ong», ha detto Gomez. «Ha ragione», è stata la replica del sottosegretario leghista. «Siccome l’Italia è stato sovrano, resta da spiegare come sia possibile che la nave Diciotti sia entrata in acque maltesi visto che di solito i militari rispondono agli ordini». «Quindi lei non ha capito perché hanno agito in questo modo?», ha continuato Gomez. «No, mi risulta che le autorità maltesi abbiano protestato per questo sconfinamento. E’ un avvenimento che resta da chiarire. Il povero Toninelli si sta chiedendo questo e molte altre cose su come funziona la catena di comando». Quindi, alla domanda del direttore Gomez, «abbiamo dei problemi allo stato attuale con la Guardia costiera?» «Sì», è stata la risposta. «Tanto è vero che questo è un governo di cambiamento che vuole cambiare le cose anche su questo». Giorgetti ha anche parlato dell’indagine della procura di Agrigento sul ministro dell’Interno, l’inchiesta che ipotizza cinque reati tra i quali il sequestro di persona: «Io credo che il magistrato volesse in qualche modo indagarlo. E a Salvini non dispiacesse essere indagato». Quindi, ha commentato ridendo: «Ora sono contenti sia Salvini che il magistrato».

«Salvini? Sa quando deve frenare. Ma sui 500mila respingimenti l’ha sparata grossa»

Il sottosegretario leghista ha quindi parlato del leader del Carroccio e di questi primi mesi al governo con i 5 stelle. «C’è un pericolo che la gente si stanchi dal suo continuo rilanciare?», ha chiesto Gomez. «Sì c’è», ha risposto. «Per guidare bene un’auto di Formula 1, bisogna sapere anche frenare, non solo accelerare, se no vai fuori strada alla prima curva. Anche la politica è così. Salvini sa tenersi tarato sulla pancia dell’elettorato, confido quindi che quando sentirà che la pancia dell’elettorato gli segnalerà che è il momento di frenare, frenerà». A questo proposito, nel merito dei 500mila respingimenti promessi in campagna elettorale da parte del segretario: «L’ha sparata grossa», ha commentato. «Mi accontenterei che non arrivassero più».

«Non abbiamo le risorse per inglobare Forza Italia»

Per il Carroccio rimane sempre aperta la questione del rapporto con gli ex alleati di Forza Italia, un fronte caldo che potrebbe riaprirsi anche in vista delle Europee. «Se portiamo via elettori a Forza Italia, o ad altri partiti, non è colpa nostra, ma loro», ha detto Giorgetti. Che ha però anche aggiunto: «Non abbiamo risorse per inglobare Forza Italia. Ma le idee di Salvini sono più attraenti di quelle di Tajani. Il fatto che la Lega cresca e gli altri diminuiscano crea di fatto la Lega come partito di riferimento del centrodestra, anche se secondo me non esistono più le categorie centrodestra e centrosinistra. Se portiamo via elettori, non è colpa nostra, ma colpa loro». Giorgetti ha dato quindi una visione ottimista sul futuro del governo, dicendo che lui e Conte sorridono alle ricostruzioni sugli scontri interni tra i due partiti: «L’unico problema per metterli d’accordo», ha tagliato corto Giorgetti, «è trovarli insieme. Uno sta in Cina, l’altro in diretta Facebook. Quando riesci a trovare un giorno per chiuderli un’ora in una stanza con il presidente Conte l’esperienza dice che le soluzioni si trovano. A settembre hanno finito di fare i loro giri e troveremo le soluzioni». Insomma, ha chiuso con una battuta: «Pd e Forza Italia non riescono a portare avanti idee di nessun tipo, l’opposizione non esiste. Facciamo tutto noi: il governo e l’opposizione. Ogni tanto litighiamo per dare soddisfazione alla gente».

«Autostrade? Il primo obiettivo è la revoca della concessione»

Tra i dossier più importanti in discussione sul tavolo del governo in autunno ci sarà sicuramente quello di Autostrade, dopo la tragedia del crollo del ponte di Genova. «Il primo obiettivo», ha detto Giorgetti, «è la revoca della concessione alla società Autostrade, poi discuteremo politicamente come procedere», ma «la responsabilità di Autostrade appare evidente, e la vedo difficile pensarla diversamente». Giorgetti ha però anche precisato: «Io dico rimettiamo a gara la concessione. Poi chi partecipa vince. Non esiste la regola aurea meglio il privato o il pubblico». Dopo «ci sono due possibilità: decidere di fare le cose in casa e nazionalizzare e utilizzare Anas o non so bene cos’altro per gestire le autostrade. Dubito però che Anas abbia le strutture tecniche» adeguate in questo momento. La seconda possibilità e’ fare «una nuova gara con modalità diverse su tariffe e manutenzione». Quindi Gomez ha chiesto come mai è stato votato in Aula nel 2008, anche con i voti a favore del Carroccio, il cosiddetto «salva Benetton»: «Quel decreto nasce dal governo precedente. E’ stato poi ereditato da quello successivo e venduto come un accordo che permetteva di rilanciare e fare ulteriori tratte. Io non c’ero, ma se ci fossi stato, l’avrei votato perché la Lega» nel 2008 «aveva un vincolo di maggioranza. E’ stata un’operazione di clamoroso lobbismo».

«Sforare il 3 per cento? Sì, se necessario»

Il rientro dei lavori in Parlamento, significherà anche tra le altre cose, discussione sulla prossima manovra finanziaria. «Quello che è certo è che non siamo assolutamente soddisfatti di come sta andando l’economia», ha detto Giorgetti. «Abbiamo ambizione, qualcuno dirà la temerarietà, di portare l’Italia a un tasso di sviluppo sopra il 2-3%. Soltanto con lo sviluppo dell’economia si può affrontare il rilancio dello Stato». Quindi si prende in considerazione l’ipotesi di sforare il limite del rapporto deficit pil al 3 per cento? «Se è necessario per mettere in sicurezza il Paese, anche sì. Credo che sia interesse anche dell’Europa». Infine sulla pace fiscale, una delle proposte centrali del programma del Carroccio, ha assicurato: «Non ci sarà senza una seria lotta all’evasione».

«Salvini permaloso. Bossi? Per lui ero troppo buono, ora sono troppo cattivo»

Nel corso de la Confessione, Giorgetti ha parlato anche dei colleghi del partito e dei rapporti costruiti nel corso degli anni. Qual è un difetto di Salvini?, gli ha chiesto Gomez. «Bisogna stare attenti a come si fanno le critiche. Ci sono delle tattiche per fargliele arrivare». Quindi il leader del Carroccio è permaloso? »Sì», ha chiuso il sottosegretario. Per quanto riguarda Umberto Bossi invece, ha detto: «Mi ha insegnato tutto in politica e mi diceva che ero troppo buono per fare politica, forse ora sono diventato troppo cattivo…». Infine, Gomez ha fatto una domanda anche sul rapporto tra Giancarlo Giorgetti e Gianpiero Fiorani, l’ex banchiere della Banca popolare di Lodi che nel 2004 si presentò nel suo ufficio con 100mila euro in contanti: lui li rifiutò senza denunciare. «Sapevo che c’erano soldi dentro il pacco», ha chiuso Giorgetti. «Ma avevamo un rapporto tale che non sapevo quali fossero le sue intenzioni. Era un reato oppure no? Non lo so».

Fonte: diariodelweb.it (qui)

Inchieste

Ponte Morandi, Autostrade: “Rispettato gli obblighi”. Toninelli: “E’ indecente”. Di Maio: “Farebbero meglio a tacere”

Il cda della società si è riunito in mattinata per rispondere al Mit che vuole revocare la concessione: “Confermato il proprio convincimento in merito al puntuale adempimento degli obblighi concessori da parte della Società”. Anche Di Maio attacca: “Farebbero meglio a tacere”

Autostrade per l’Italia resta convinta di aver rispettato gli obblighi prescritti dalla concessione che la lega al Ministero delle Infrastrutture, anche per quanto riguarda il tratto genovese del Ponte Morandi, tragicamente crollato a metà agosto con la morte di 43 persone. Lo mette nero su bianco una nota al termine del consiglio di amministrazione della società. Immediata la replica proprio del ministro delle Infrasttture, Danilo Toninelli: “E’ incredibile sentir parlare di ‘puntuale adempimento degli obblighì dopo una tragedia con 43 morti, 9 feriti, centinaia di sfollati e imprese in ginocchio. Siamo all’indecenza”, twitta il titolare del Mit.

A stretto giro passa all’attacco anche il vicepremier Luigi Di Maio: “Autostrade dice di aver fatto ‘un puntuale adempimento degli obblighi concessorì previsti dalla convenzione con lo Stato. Me la sono riletta tutta attentamente. Far crollare il ponte causando 43 morti non era nel contratto”, scrive sul suo profilo Facebook. Dai Benetton – prosegue il ministro – ci aspettiamo solo le scuse e i soldi per la ricostruzione del ponte, che non faranno loro. Per il resto consiglio ad Autostrade di tacere. Gli italiani non ne possono più delle loro dichiarazioni fuori luogo”.

Il botta e risposta è arrivato al termine di una mattinata caratterizzata dal doppio consiglio di amministrazione di Autostrade e della holding Atlantia, cassaforte delle partecipazioni della famiglia Benetton attive nel business di strade ed aeroporti. Il board che si è riunito sotto la presidenza di Fabio Cerchiai aveva sul tavolo la lettera del Mit che ha avviato l’iter per la revoca della concessione. Autostrade “ha preso atto degli elementi di confutazione alla lettera del Ministero delle Infrastrutture datata 16 agosto 2018 predisposti dalle strutture tecniche della Società ed ha confermato il proprio convincimento in merito al puntuale adempimento degli obblighi concessori da parte della Società”. Autostrade non ha specificato oltre sulla natura della risposta che verrà recapitata alla struttura di Toninelli, se non che “la lettera di riscontro ed i relativi allegati saranno inviati al Ministero nel termine assegnato”, ovvero domani.

Al termine della riunione, una nota ufficiale ha fatto presente che i consiglieri si sono aggiornati – “nelle more degli esiti degli accertamenti in corso relativi al crollo del viadotto Polcevera” – sulle iniziative per la popolazione. “In particolare, gli aiuti alle famiglie colpite che hanno interessato più di 200 nuclei familiari, le iniziative di ripristino della viabilità cittadina, le ulteriori iniziative di agevolazione del pedaggio e l’avanzamento del progetto di demolizione e ricostruzione del ponte”. Autostrade ha sottolineato che “il Consiglio ed il Collegio Sindacale hanno rinnovato il proprio cordoglio per le vittime, il dolore per i feriti e la vicinanza all’intera comunità genovese ed alle Istituzioni”.

Come detto, la replica del ministro Toninelli – via Twitter- non si è fatta attendere:  “E’ incredibile sentir parlare di “puntuale adempimento degli obblighi” dopo una tragedia con 43 morti, 9 feriti, centinaia di sfollati e imprese in ginocchio. Siamo all’indecenza. Rimetteremo le cose a posto e ridaremo sicurezza e servizi ai cittadini che via viaggiano”, ha attaccato.

Soltanto ieri i vertici delle Autostrade avevano incontrato il commissario Toti e le istituzioni liguri per fare il punto sul piano di demolizione e ricostruzione del viadotto Polcevera. Un progetto nel quale potrebbero rientrare Fincantieri per la parte di realizzazione del nuovo ponte d’acciaio e Renzo Piano come super-architetto in grado di “donare” la rinascita dell’area alla sua città. Il governatore ligure ha detto ieri che la demolizione avverrà “entro 30 giorni” e chiesto una legge speciale al governo, mentre i vertici della società hanno detto di avere più opzioni per la riscostruzione, intanto hanno esteso la gratuità dei pedaggi nell’area. In particolare, ha precisato oggi Autostrade, rispetto alla prima area di esenzione già operativa per chi viaggia sulle tratte Genova Bolzaneto-Genova Ovest-Genova Est e Genova Pra’-Genova Pegli-Genova Aeroporto, si prevede l’esenzione dal pagamento per l’intera tratta Genova Pra’-Genova Pegli-Genova Aeroporto anche per chi proviene dalle entrate autostradali a ponente fino ad Albisola e Ovada inclusi. Le esenzioni dell’intera tratta Genova Bolzaneto-Genova Ovest-Genova Est si applicheranno anche a chi proviene dalle tratte di A7 e A12 comprese tra i caselli di Vignole e Sestri Levante.

Del caso aveva parlato in mattinata il sottosegretario Giancarlo Giorgetti, durante la festa del Fatto Quotidiano: “Sulla revoca delle concessioni bisogna andare dritto per dritto. C’è una procedura già avviata, a tutti si concede il diritto di difesa, avranno pochi giorni per rispondere e poi si deciderà”. Nonostante quel che sostiene Autostrade, per Giorgetti quello che è accaduto a Genova “è talmente eclatante che, a mio giudizio, non capisco come non possa essere ritenuta responsabile anche la società Autostrade, oltre a chi doveva vigilare”. Divergente dal M5s invece l’opinione sulla nazionalizzazione: “Onestamente esprimo dubbi che l’Anas abbia le strutture tecniche e le capacità per fare cose del genere”.

Fonte: laRepubblica.it Articolo di A. Cassinis del 31 agosto 2018 (qui)

Cronaca, Territorio bresciano

Brescia, 12enne autistica scomparsa: la Procura apre un fascicolo contro ignoti

La bambina era scomparsa a Serle lo scorso 19 luglio. “Sono passati già 40 giorni, dove è mia figlia? Io voglio sapere cosa è successo. Le hanno fatto del male? Voglio risposte”, così alle emittenti locali Mdliton Gazi, il padre della piccola, convinto che si tratti di rapimento

La Procura di Brescia ha aperto un fascicolo contro ignoti, secondo quanto riportano Il Corriere della Sera e Il Giorno, per poter indagare a 360 gradi  sulla scomparsa della piccola Iuschra, avvenuta lo scorso 19 luglio a Serle. “Sono passati già 40 giorni, dove è mia figlia? Io voglio sapere cosa è successo. Le hanno fatto del male? Voglio risposte”, così Mdliton Gazi, il padre della 12enne autistica alle emittenti locali. La bambina è scomparsa mentre era in gita con altri ragazzi disabili e con gli operatori della fondazione Fobap, sull’altopiano di Cariadeghe a Serle, nel Bresciano.

Le ricerche della piccola sono iniziate il giorno stesso della scomparsa: oltre 1.500 operatori tra cui forze dell’ordine, Vigili del fuoco, soccorso alpino, protezione civile e volontari hanno lavorato incessantemente per dieci giorni, senza ottenere risultati. Il 29 luglio una battuta d’arresto, con lo stop ufficiale alle ricerche, riprese poi qualche settimana fa. Una quarantina di persone, infatti, insieme a delle unità cinofile sono tornate su alcune delle zone già monitorate in precedenza, probabilmente sulla base di nuove informazioni. Per il padre della bambina, che non si è mai allontanato da Serle durante i giorni di ricerca intensa, la figlia potrebbe essere stata rapita.

Nel periodo in cui le ricerche sono state sospese, Mdliton Gazi ha proseguito la perlustrazione del territorio in autonomia, assieme ad un gruppo di volontari della zona. In quota invece è sempre rimasto un presidio fisso pronto a raccogliere eventuali segnalazioni da parte di escursionisti e turisti di passaggio. La famiglia si è sempre opposta alla sospensione delle ricerche, tanto che il 5 agosto era scesa in piazza per una manifestazione organizzata assieme alle autorità, associazioni locali e conoscenti per chiedere chiarezza sulla scomparsa della bambina. Il titolo di reato dell’indagine sarebbe lesioni colpose.

Fonte: ilfattoquotidiano.it (qui).

Democrazia diretta

Democrazia diretta: la chiave del benessere della Svizzera.

La Svizzera è uno fra i paesi al mondo in cui si gode di maggiore benessere economico. Certamente questo livello di benessere è anche dovuto alle “ricadute” delle importanti attività bancarie nel paese, ma è anche vero che la Svizzera è un paese mediamente ben governato, che garantisce stabilità agli investitori. Il buon governo del paese è quindi una delle condizioni per cui, nonostante l’alto costo del lavoro, molti investitori da tutto il mondo si rivolgono a questo paese. Se la Svizzera non fosse ben governata, non sarebbe mai diventata il paese di riferimento per investitori e multinazionali. Il segreto del successo svizzero deve quindi essere cercato nei fattori che garantiscono a quel paese di avere mediamente delle buone leggi e dei buoni governanti. La prima chiave del successo sta nella democrazia diretta. Ovvero: il popolo svizzero è il primo organo legislativo, a livello federale, cantonale e comunale. Così come in Italia il Parlamento ha diritto di legiferare su qualsiasi materia, in Svizzera il popolo ha diritto di dire la sua su qualsiasi materia. Le proposte di legge referendarie possono essere di qualsiasi tipo: abrogazione totale o parziale di una legge esistente (consentita in Italia); un nuovo testo di legge (non consentito in Italia); su questioni fiscali (non consentito in Italia); recessione da una ratifica di un trattato internazionale (non consentita in Italia). Il popolo può opporsi legittimamente a qualsiasi atto governativo o amministrativo. Ad esempio si può opporre al permesso di costruire di un edificio concesso dall’ufficio tecnico del proprio Comune. Per presentare un quesito referendario è necessario raccogliere 50.000 firme nell’arco di 100 giorni. Avendo la Svizzera 8,4 milioni di abitanti, facendo una proporzione è come se in Italia si dovessero raccogliere 357.000 firme. In Svizzera, quindi, serve un numero minore di firme. Le firme possono essere raccolte da chiunque, su dei modelli messi a disposizione dalla Cancelleria Federale. Non è necessaria la validazione delle firme da parte di una persona abilitata, come invece avviene in Italia. Questo fatto facilita enormemente la raccolta di firme a sostegno di un quesito referendario. Naturalmente le firme raccolte vengono sottoposte a controllo di verifica di validità da parte della Cancelleria Federale, analogamente a quanto avviene in Italia da parte della Corte di Cassazione. La conseguenza di queste premesse è che in Svizzera si formano molti comitati, con e senza il supporto dei partiti, per promuovere quesiti referendari di ogni tipo, che nessun organismo pubblico ha il potere di impedire che vengano sottoposti a votazione, se il numero di firme valide necessario è stato raccolto e depositato. Il popolo svizzero viene chiamato a votare 3-4 volte l’anno. Il materiale informativo con le posizioni a favore o contro il quesito viene distribuito gratuitamente a tutti i cittadini. La televisione pubblica, senza influenze dei partiti, tratta a fondo i temi referendari, dando ampio spazio alle parti contrapposte, affinché ciascuno presenti le proprie ragioni agli elettori. Votare è facile: oltre al voto classico nei seggi elettorali, moltissimi svizzeri votano per corrispondenza. E’ allo studio anche la possibilità di votare tramite Internet, ma al momento non sono ancora stati trovati degli standard di sicurezza ritenuti sufficienti per evitare manipolazioni del voto da parte di hacker informatici. Non esiste un quorum da raggiungere che possa invalidare il voto: chi vuole votare, vota. Chi non vuole votare, accetta il responso delle votazioni.

Anche se il popolo svizzero si ritrova a votare 3-4 volte l’anno per dei referendum, la grandissima maggioranza dei provvedimenti legislativi viene comunque votata dal Parlamento ovvero tramite la democrazia rappresentativa, come avviene in tutti i paesi democratici. Tuttavia tutti i politici eletti devono “fare i conti” con il primo organo legislativo, ovvero con il popolo, il quale potrebbe votare in un referendum contro quanto deciso in Parlamento. In sostanza: un politico eletto svizzero ci pensa 1000 volte prima di votare a favore di un provvedimento legislativo che sa che non sarebbe accettato dal popolo. Nel caso in cui si arrivasse ad una bocciatura referendaria del provvedimento (cosa storicamente avvenuta centinaia di volte) la fine della carriera di quel politico sarebbe cosa certa e senza appello. L’esistenza di un robusto sistema di democrazia diretta, quindi, incentiva la produzione di provvedimenti legislativi il più possibili vicini al volere del popolo. Questo non significa che il popolo non si possa sbagliare, ma significa che è il popolo a decidere. Nei casi storici in cui il popolo si rese conto di essersi sbagliato, ritornarono a votare e il referendum consentì di modificare il precedente provvedimento legislativo. Siccome la prima preoccupazione dei parlamentari eletti è quella di ascoltare le richieste del popolo, le richieste del partito di appartenenza cadono in secondo piano.

Naturalmente esiste una “coerenza ideologica” con le posizioni del partito di appartenenza, ma non è mai tale da diventare una “disciplina di partito”, in quanto i deputati sono liberi e si sentono responsabili delle proprie scelte innanzitutto di fronte agli elettori. Questa “debolezza” dei partiti ha creato nel tempo una “consuetudine” all’interno del Parlamento. Il Consiglio Federale, ovvero il governo della Confederazione, non è mai l’espressione di una maggioranza politica “blindata”. I 7 membri del Consiglio Federale (i ministri) vengono nominati applicando una sorta di “manuale Cencelli” in modo da rappresentare le principali forze politiche. Tutti i consiglieri federali raccolgono la fiducia della maggioranza del Parlamento. Di conseguenza, se un partito “di destra” intende proporre un suo esponente come membro del governo, proporrà una personalità stimata per le sue competenze e capace di dialogare con “la sinistra”. E viceversa. Il Consiglio Federale che viene a formarsi, quindi, è un “governo debole”, in quanto è chiamato a dare attuazione ai provvedimenti legislativi presi dal popolo (tramite referendum) e dal Parlamento. Non esiste il concetto di “governabilità”. Il governo esegue la volontà del Parlamento, il quale vota le leggi formando maggioranze variabili, caso per caso.

Pochi di voi sapranno che l’attuale presidente del Consiglio Federale svizzero si chiama Alain Berset. I nomi non sono importanti. Importanti sono le competenze dei ministri e la loro capacità di saper rappresentare non una parte politica, ma l’intero Parlamento e l’intero popolo svizzero. L’alternanza di governo tanto evocata in Italia come una “conquista di democrazia” in realtà porta una forte instabilità del sistema, in quanto ogni 5 anni sono possibili dei drastici cambiamenti nelle politiche economiche. In Svizzera, invece, i cambiamenti di fondo avvengono molto lentamente, in quanto nessuna “maggioranza di governo” può imporsi sulla minoranza. Questa stabilità politica è la condizione fondamentale affinché imprese multinazionali ed investitori finanziari scelgano di insediarsi nel paese, potendo fare una programmazione a medio-lungo termine delle loro attività. Le stesse condizioni di stabilità politica favoriscono la crescita delle piccole e medie imprese, che sono certe di non doversi attendere improvvise e spiacevoli sorprese da parte del governo del paese.

Non è tutto rose e fiori. Anche nel sistema svizzero esistono delle zone grigie. Prima di tutto le leggi non prevedono che i partiti dichiarino la provenienza dei propri finanziamenti. La conseguenza è che ci sono alcuni partiti, in particolari quelli “borghesi”, che dispongono di ingenti capitali per fare propaganda più di altri partiti, sia per le elezioni politiche, sia nelle campagne referendarie. Il consenso ottenuto viene utilizzato per votare dei provvedimenti legislativi in favore delle principali lobbies del paese: le banche, le assicurazioni (specie del settore sanitario), le multinazionali. In occasione delle votazioni referendarie, coloro che dispongono di più capitali hanno la possibilità di condizionare maggiormente la popolazione puntando su ragioni “di pancia” e utilizzando al meglio le moderne tecniche del consenso. Un’idea latente e persistente nei mass media italiani è che l’esercizio della democrazia sia “un costo” per il paese. Sarebbe un costo in quanto il popolo non sa decidere, mentre i politici e i “tecnici” (alla Mario Monti o alla Carlo Cottarelli, per intenderci) sanno decidere molto meglio del popolo su cosa sia bene per gli italiani. Le stesse votazioni sono ritenute “un costo” che sarebbe meglio evitare al paese, magari “per ridurre il debito pubblico”. Ma chiediamoci: quanto ci costa “non votare” in termini di decisioni politiche prese negli interessi di poteri privati e ai danni del popolo italiano? Gli svizzeri, proprio votando con frequenza e senza impedimenti (come invece avviene in Italia), ottengono una migliore qualità delle leggi e dell’azione di governo. Oggi la Svizzera ha un tasso di disoccupazione al 2,4%. Possiamo concludere dicendo che gli investimenti in democrazia diretta hanno portato dei buoni frutti.

(Davide Gionco, “La democrazia diretta e il successo economico della Svizzera”, dal blog “Attivismo.info” del 20 luglio 2018).

Economia, Imprese, Innovazione

Capitani d’impresa: sempre meno giovani al comando delle aziende italiane

Sempre meno giovani al comando delle imprese italiane. Tra marzo 2013 e marzo 2018 le cariche di amministratore nelle imprese del nostro Paese sono cresciute di circa 48mila unità, ma continuano a diminuire i giovani coinvolti nelle ‘stanze dei bottoni’ dell’Azienda-Italia. Complessivamente, infatti, nei 5 anni considerati la percentuale di amministratori con più di 50 anni è passata dal rappresentare il 53,3 al 61% del totale delle cariche, con una perdita invece di 7,7 punti percentuali per quella degli under 50.

Questo, in sintesi, il quadro che emerge dall’elaborazione Unioncamere-InfoCamere sulle persone con carica di amministratore nelle imprese italiane negli ultimi cinque anni. Al 31 marzo di quest’anno gli amministratori di imprese in Italia sono 3,8 milioni, quasi 50 mila unità in più rispetto alla stessa data di cinque anni fa. Un aumento che, però, segnala un forte movimento tra le classi di età a tutto vantaggio per quelle degli over 50 rispetto ai più giovani. Tra il 2013 e il 2018, gli amministratori tra i 50 e 69 anni sono aumentati di 194mila e in quella degli ‘over 70’ di altre 125mila, per una crescita complessiva di 319mila unità per l’insieme degli over 50. A questa espansione ha fatto eco una forte contrazione degli amministratori con meno di 50 anni di età: a fine marzo di quest’anno erano 1,5 milioni con una diminuzione totale di oltre 270mila unità negli ultimi 5 anni (il 15% in meno rispetto al 2013), dei quali 251 mila nella classe tra i 30 e i 49 anni e 20 mila in quella under 30.

Sul versante territoriale, ancora una volta i dati rivelano un’Italia divisa in due: da una parte, nelle ripartizioni del Centro e del Mezzogiorno, si assiste complessivamente ad una crescita nel numero degli amministratori (79mila in più nei 5 anni in esame, di cui 30mila al Centro e 49mila al Sud), Dinamica opposta nelle circoscrizioni settentrionali, con una riduzione più lieve nel Nord-Est (-8mila unità, -1,0%) e più rilevante nel Nord-Ovest (-24mila unità, -2,0%).

Lo spostamento della distribuzione per età della popolazione verso le classi più anziane interessa invece tutte le aree geografiche dello stivale. Rispetto al 2013, in tutte le ripartizioni si evidenzia una riduzione del numero di amministratori nelle due fasce di età più giovani e un aumento marcato per quelle oltre i 50 anni: il processo d’invecchiamento dei capitani d’impresa appare più accentuato al Sud e Isole sia in termini assoluti (+102mila unità) che relativi (+20,9%) di quello riscontrato nelle regioni centro-settentrionali, dove il»grigio» dell’età si fa largo soprattutto al Nord-Ovest (+82.500 unità quanto ai valori assoluti) e al Centro (+17,6% in termini relativi).

La tendenza si conferma pienamente anche su base regionale: in tutte le 20 regioni italiane, sia per la classe di età 50-69 anni che per quella over70, si registrano variazioni in aumento nel quinquennio esaminato. Particolarmente significativa la performance del Molise, che primeggia in termini di crescita relativa in entrambe le classi (rispettivamente +28 e +47%) e della Calabria (+24 e +42%). Guardando ai settori produttivi, nei cinque anni considerati il fenomeno dell’invecchiamento degli amministratori caratterizza tutte le attività, con incrementi di quasi il 30% nella classe 50-69 anni e superiori al 40% in quella degli over 70 nei due settori dell’alloggio e ristorazione e dei servizi alle imprese.

Sul fronte opposto, la riduzione degli amministatori under 50 incontra pochissime eccezioni, tra cui vanno segnalate quella degli amministratori under 30 dell’agricoltura (aumentati di oltre 2.000 unità) e dei servizi di informazione e comunicazione (+463). Poiché i dati sulle cariche riflettono da vicino l’evoluzione dello stock di imprese, la lettura per tipo di attività evidenzia una contrazione nei settori che, nel periodo esaminato, hanno visto ridursi in modo più sensibile il numero di imprese: manifatturiero (-19mila amministratori), costruzioni (- 17mila) e attività immobiliari (-4.600).

Fonte: diariodelweb.it (qui)

Inchieste, Politica

Ponte Morandi: L’inchiesta mette sotto tiro 28 persone. E punta su Delrio.

L’inchiesta sul crollo del ponte Morandi punta anche su Delrio – la Finanza sequestra documenti al ministero che era gestito dal leader renziano (fu prodiano) – in totale sotto tiro 28 persone – gli investigatori non si sono presentati solo al Mit di Roma, ma anche al provveditorato delle Opere pubbliche della Liguria e alla Spea Engineering Spa, una società del gruppo Atlantia.

Altra trasferta romana degli uomini del Primo gruppo della Guardia di finanza di Genova.

 

Delrio

Dopo quella di mercoledì scorso, nella sede di Autostrade per l’ Italia, ieri le fiamme gialle, guidate dal colonnello Ivan Bixio, hanno fatto breccia nel ministero delle Infrastrutture e trasporti di fronte a Porta Pia e al monumento al bersagliere. Accolti da questo tweet del ministro Danilo Toninelli: «Sono ben felice che si faccia chiarezza su quanto successo in passato. Il ministero è a totale disposizione delle autorità che stanno indagando sul crollo del ponte Morandi. Buon lavoro a Gdf e magistrati».

Nel decreto di sequestro (il fascicolo penale è ancora senza indagati) si legge che gli investigatori si sono presentati al dicastero, che nel periodo sotto osservazione era guidato da Graziano Delrio, per acquisire «ogni documentazione di natura tecnica, amministrativa e contabile, appunto, nota o simili» relativa al ponte, «redatta da, o pervenuta a, qualsiasi ufficio, centrale o periferico (provveditorato alle opere pubbliche per la Liguria, ufficio ispettorato territoriale)» del ministero. Gli investigatori avevano il compito di sequestrare anche la documentazione digitale e la posta elettronica del personale «avente competenza sulla materia delle autostrade in concessione».

Gli investigatori non si sono presentati solo al Mit di Roma, ma anche al provveditorato delle opere pubbliche della Liguria e alla Spea engineering spa, una società del gruppo Atlantia (che a sua volta controlla Autostrade per l’ Italia) a cui è stato affidato il progetto di messa in sicurezza del viadotto Morandi che sarebbe dovuto partire a settembre. La Spea ha 650 dipendenti, 8 filiali estere e una controllata brasiliana, la sede principale negli uffici dell’ Aspi a Roma e un’ altra a Milano.

Gli uomini delle fiamme gialle hanno quindi fatto dei sequestri anche nel capoluogo lombardo e lavorato sui server di posta elettronica della Spea a Firenze. Alle Spea si sono occupati di portar via soprattutto i report trimestrali sulla sicurezza redatti sulla salute del ponte. Al termine della giornata di sequestri gli investigatori hanno fatto copia forense di 13 computer e altrettanti smartphone in uso dalle figure più coinvolte. Un numero a cui bisogna sommare i 15 dirigenti di Autostrade già privati di pc e telefonini la settimana scorsa.

In pratica, in vista dell’ incidente probatorio irripetibile, la Guardia di finanza sta cercando tutte le informazioni che sono circolate sullo stato del viadotto e sta ricostruendo la catena di comando che ha avuto contezza dell’«ammaloramento» degli stralli del Morandi e che poteva prendere provvedimenti.

Un ulteriore focus riguarda l’ attività svolta dalle strutture di vigilanza e controllo, ossia provveditorato e Mit, dove è stato acquisito un carteggio interessante con Autostrade sul ponte. Tutti i possibili responsabili di una sottovalutazione del rischio potrebbero essere iscritti sul registro degli indagati in vista dell’ incidente probatorio, in modo da dar loro la possibilità di difendersi e di nominare un consulente di parte.

I primi dirigenti su cui si sono concentrate le indagini preliminari sono quelli di Autostrade e in particolare Paolo Berti, responsabile centrale delle operazioni di Aspi, l’ architetto Michele Donferri, a capo dell’ ufficio Manutenzione e interventi, il direttore del tronco di Genova, Stefano Marigliano, e il responsabile dell’ ufficio Affari regolatori e concessori, Amedeo Gagliardi.

Al centro degli approfondimenti anche i membri del consiglio d’ amministrazione presieduto da Fabio Cerchiai e dall’ amministratore delegato, Giovanni Castellucci, che hanno approvato i lavori. Dopo il via libera, la stesura del progetto viene affidata alla controllata di Autostrade, Spea engineering. Per questo le fiamme gialle hanno acquisito pc e cellulari dell’ amministratore delegato, Antonino Galatà, del responsabile del progetto, Massimiliano Giacobbie e dell’ autore del piano sicurezza, l’ ingegner Massimo Bazzarelli. I passaggi successivi del progetto coinvolgono altri manager e tecnici.

Il primo febbraio il progetto viene presentato al comitato tecnico del provveditorato del ministero delle Infrastrutture, davanti a dieci commissari con diritto di voto e 17 esperti. L’ architetto Roberto Ferrazza, provveditore interregionale da 155.000 euro l’ anno, lo promuove a marzo con alcuni rilievi.

Il 28 aprile Autostrade pubblica il bando di gara, con procedura ristretta, per un appalto da 20.159.344,69 euro, (24,6 milioni con Iva), a cui segue una preselezione. La durata prevista per i lavori è di 784 giorni «dall’ aggiudicazione dell’ appalto». Ossia più di due anni, evidentemente per non rallentare troppo il traffico e gli affari. Il responsabile unico del procedimento è l’ ingegner Paolo Strazzullo di Autostrade, che è chiamato a valutare le proposte.

L’ 11 giugno è il termine ultimo per la presentazione delle offerte e lo stesso giorno Vincenzo Cinelli, a capo della direzione generale per la vigilanza sulle concessioni autostradali del Mit (poltrona conquistata grazie a un decreto del presidente del Consiglio dei ministri firmato da Marianna Madia in vece di Paolo Gentiloni), ha dato il via libera definitivo al progetto. Ma Cinelli è laureato in Scienze politiche e si è certamente consultato con il responsabile della Prima divisione del Mit (Vigilanza tecnica e operativa della rete autostradale in concessione), l’ ingegner Bruno Santoro, con un passato al Consiglio superiore dei lavori pubblici, il massimo organo tecnico e consultivo dello Stato, e successivamente destinato a incarichi di minor prestigio.

Santoro è stato nominato da Cinelli responsabile della Prima divisione a marzo e nella stessa infornata è diventato capo dell’ ufficio ispettivo territoriale di Genova l’ ingegner Carmine Testa. Tutti esperti che non sono riusciti a prevedere il collasso del Morandi e a cui i finanzieri hanno clonato pc e telefoni. Gli investigatori hanno anche spulciato con cura gli uffici della Divisione analisi e investimenti, guidata da Giovanni Proietti.

In attesa delle prossime mosse della Procura, i reperti del ponte, catalogati dai consulenti, saranno custoditi in un hangar dell’ Amiu, la municipalizzata dei rifiuti. «Come è stato fatto per la tragedia di Ustica», ha puntualizzato il procuratore Francesco Cozzi.

C’ è da sperare che in questo caso la verità affiori prima.

Fonte: dagospia.it (qui) su Articolo di G. Amadori (LaVerità)

Africa, Globalizzazione, Immigrazione

Migranti. Con il microcredito delle Ong gli africani fuggono in Europa. Ecco il business dei predoni globalisti che condanna l’Africa. E Attali…

Esiste un nesso fra crescita demografica, povertà ed emigrazione? La popolazione africana sta subendo una vera e propria esplosione demografica: mentre, infatti, nel 1960 si attestava intorno ai 300 milioni di abitanti, oggi è di circa 1,2 miliardi e raggiungerà i 2 miliardi e mezzo entro il 2050. L’Africa si trova intrappolata in una spirale nefasta, nota come “trappola malthusiana”, che rende impossibile adeguare l’aumento della produzione e delle risorse alimentari in modo da compensare il forte incremento della domanda legato a una crescita esponenziale della popolazione. L’emigrazione viene percepita dagli africani come unica opportunità per migliorare le proprie condizioni di vita e uscire dallo stato di miseria. Essa in realtà non fa che peggiorare i problemi economici del Continente, che viene privato così della sua forza lavoro più giovane e intraprendente. Il vaso di Pandora delle Ong è molto difficile da scoperchiare, a causa della fitta trama di interessi economici, politici e finanziari. In particolare esiste una grossa Ong, la più grande al mondo ma poco conosciuta dai media, di nome Brac, che svolge attività di “microcredito per l’emigrazione”. Essa è nata ed è particolarmente attiva in Bangladesh, dove ha finanziato l’imponente emigrazione dei cittadini verso altri paesi ma, come dichiara esplicitamente nel suo sito, fornisce prestiti per l’emigrazione (migration loans) anche in altri paesi, in particolare quelli dell’Africa.

Esiste poi la Ong francese Positive Planete (prima Planet Finance), fondata dal francese Jacques Attali – colui che ha scoperto Macron – e dal bengalese Yunus, padre del microcredito, che si prefigge di “combattere la povertà in Africa attraverso lo sviluppo della microfinanza”. Un sodalizio, quello tra finanza, Ong ed emigrazione, molto redditizio e ben occultato. Tutti i paesi che si sono sviluppati l’hanno fatto avviando un piano di sviluppo economico basato sulla protezione dell’industria locale nascente e su politiche pubbliche di tipo keynesiano. Nell’Africa postcoloniale questo non è stato possibile, poiché le forze economiche internazionali hanno imposto il loro modello neoliberista, fatto di massima apertura al commercio estero, liberalizzazioni, privatizzazioni dei servizi pubblici e tagli alla spesa dello Stato. Ciò ha impedito qualsiasi possibilità di sviluppo dell’economia africana. Ogni tentativo in tale direzione è stato represso nel sangue, come nel caso di Lumumba in Congo e di Sankara in Burkina Faso. Questo è esattamente il modus operandi dell’attuale modello unico economico su scala globale: “keynesismo per i ricchi e neoliberismo per i poveri”, utilizzato come strumento di depredazione dei paesi.

Mentre sappiamo molto della storia coloniale, quello che è accaduto in Africa con la decolonizzazione è poco conosciuto ai più e distorto da una narrazione mistificatrice che imputa ai vecchi imperi coloniali la causa dell’attuale e persistente stato di sottosviluppo del Continente Nero. Con la nascita degli Stati indipendenti in Africa, come in gran parte del Terzo Mondo, si stava avviando un percorso di crescita economica e di sviluppo locale. I paesi africani avevano adottato la cosiddetta politica di “industrializzazione per sostituzione”, secondo la quale le merci importate venivano sostituite con la produzione interna per tutelare le economie e le industrie nascenti dalla concorrenza internazionale. Questa politica, in aggiunta al riconoscimento da parte del Gatt del “diritto alla protezione asimmetrica” per i paesi in via di sviluppo (1964), generò in molti paesi dell’Africa subsahariana un periodo di crescita e relativo benessere. Ma le ingerenze esterne non tardarono a farsi sentire da parte dei grandi interessi economici internazionali.

Con lo scoppiare della crisi del debito del Terzo Mondo nel 1982, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale imposero definitivamente le loro politiche macroeconomiche, che non favorivano lo sviluppo locale, non prevedevano alcun investimento nell’economia nazionale, ma incentivavano gli Stati a importare ingenti quantità di beni di consumo e a destinare la propria produzione all’esportazione per il pagamento del debito. Attraverso la previsione di “condizionalità” legate ai prestiti concessi, si venne a realizzare una nuova forma di imperialismo globale, il colonialismo del debito, da cui banche e prestatori di denaro hanno tratto enormi profitti, congiuntamente alle grandi multinazionali, che hanno depredato il Continente del suo ricco patrimonio di risorse naturali, inibendo ogni possibilità di sviluppo economico locale.

La chiusura che incontro è più ideologica che scientifica. Purtroppo non si può parlare di neoliberismo e del fenomeno migratorio senza incorrere in divisioni ideologiche e pregiudizi. Dimostrare che il modello economico imposto dalle grandi istituzioni internazionali in Africa, che è lo stesso a distanza di decenni attuato ora in Italia, sia la causa del suo sottosviluppo lascia sconcertati. Sostenere poi che l’emigrazione non è una soluzione, ma anzi aggrava i problemi del continente africano, arricchendo solo chi specula sulla mercificazione degli esseri umani, suscita contrarietà da parte dei fautori acritici dell’accoglienza illimitata. Rompere dei tabù e dei luoghi comuni non è mai semplice, ma sto riscontrando anche molto interesse e consenso da parte di chi conosce e vive in prima persona la realtà africana. Da parte dei media sapevo, quando ho intrapreso questo percorso, iniziato col mio primo libro sottotitolato “Storia di una bocconiana redenta”, che non sarebbe stato per nulla facile rompere il muro nel mainstream. Tuttavia, l’interesse mostrato nei miei confronti da alcuni programmi televisivi e radiofonici è andato oltre le mie aspettative.

Credo che, seppur con grande difficoltà, ci sia un piccolo spiraglio per chi affronta temi scomodi in modo serio e supportato da evidenze scientifiche. Il Decreto Dignità proposto da Di Maio? L’attuale modello economico è basato sulla precarizzazione del lavoro e, di conseguenza, della vita umana. Il Decreto Dignità ha il grosso merito di riportare al centro il lavoratore e i suoi diritti. Mettere un limite alla durata e al numero di rinnovi dei contratti a termine, aumentare la tutela e l’indennità del lavoratore nei casi di licenziamento, sanzionare le imprese che delocalizzano dopo aver usufruito di aiuti di Stato, nonché avviare una dura lotta alla ludopatia sono tutte misure che operano in questa direzione. Lo Stato in questo modo torna a occuparsi del cittadino e del lavoratore, ripudiando il ruolo di servitore dei mercati e degli interessi transnazionali, come vorrebbe il modello neoliberista universale, perfettamente rappresentato dall’attuale Unione Europea.

(Ilaria Bifarini, dichiarazioni rilasciate a Marina Simeone per l’intervista “I coloni dell’austerity” pubblicata da “Il Pensiero Forte” il 25 luglio 2018. Economista attiva anche sul proprio seguitissimo blog, laureata alla Bocconi, scrittrice di libri coraggiosi e di successo sul neoliberismo, dopo la risonanza ottenuta dal primo lavoro “Neoliberismo e manipolazione di massa (storia di una Bocconiana redenta)”, Ilaria Bifarini ha presentato “I coloni dell’Austerity. Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”).

Innovazione, Tecnologia

Apple presenterà i nuovi iPhone il prossimo 12 settembre

Apple ha diffuso gli inviti per un evento che terrà il prossimo 12 settembre a Cupertino, in California. Come ogni anno in questo periodo, la società presenterà i suoi nuovi modelli di iPhone e probabilmente qualche altra novità legata ai Mac e agli Apple Watch. Non ci sono informazioni ufficiali sui nuovi prodotti, ma da qualche settimana si parla di tre nuovi iPhone: un aggiornamento degli iPhone X, ma non nel design, e qualcosa di più radicale per i modelli classici, che potrebbero ereditare alcune caratteristiche dagli iPhone X. Le altre novità potrebbero riguardare gli iPad Pro, i MacBook Air e i Mac mini. L’evento di settembre è di solito il più importante per Apple, perché porta alla messa in vendita delle sue ultime novità in vista della stagione degli acquisti natalizi.

Fonte: ilpost.it (qui)

Politica

Non chiamiamoli populisti: contro questa destra estrema è l’ora di una nuova sinistra

L’ex segretario del Pd interviene nel dibattito sulla costruzione dell’alternativa: “Il momento è pericoloso, non si ha la percezione dei rischi che corre la democrazia”

Luciano Gallino, intellettuale di sinistra – definizioni che sembrano diventate brutte parole – scrisse più di venti anni fa l’introduzione a un libro nella quale diceva “la distruzione di una comunità politica, la fine della democrazia, è sempre possibile… Oggi come allora gli avversari della democrazia circolano numerosi tra noi, ma stanno anche dentro di noi, nel perenne conflitto, che è a un tempo sociale e psichico, tra bisogno di sicurezza e desiderio di libertà”. Il volume era Come si diventa nazisti di William Allen, uno storico che si incaricò di raccontare come una piccola comunità dell’Hannover si trasformò da città storicamente di sinistra a feudo del nazismo, in cinque anni passato dal 5 per cento al 62,3. Allen scrive che “il problema del nazismo fu prima di tutto un problema di percezione”. Non esiste evidentemente in Italia e altrove un pericolo nazista, anche perché la storia non si ripete mai nello stesso modo. Ma la mia angoscia, l’angoscia di un uomo che ha dedicato tutta la sua vita a ideali di democrazia e progresso, è che non si abbia la “percezione” di quello che sta accadendo. Che non ci si accorga che parole un tempo impronunciabili stanno diventando normali.

Non mi interessa qui la miseria della polemica politica quotidiana che ha perso la dignità minima. Sembrano tutti il Malvolio di La dodicesima notte di Shakespeare che dice, tronfio, “Su tutti voialtri prenderò la mia vendetta”. Credo si debba uscire dal presentismo che domina il nostro tempo, che toglie respiro, serietà, credibilità alle parole e ai gesti. Guardare il mondo e interpretare i segni che ci pervengono.

Fu quello che nell’estate del 1939 non si fu capaci di fare, mentre l’umanità precipitava in una guerra terribile. Guerra come quella che solo vent’anni prima aveva fatto diciassette milioni di vittime. Mentre sulle spiagge si prendeva ignari il sole e nei cuori si inneggiava al duce e al fuhrer, si stava preparando un conflitto che avrebbe prodotto 68 milioni di morti e la tragedia della Shoah.

Papa Francesco ha parlato più volte, inascoltato, di una terza guerra mondiale. Per molti nostri coevi la guerra non è un deposito della storia o un monumento alla memoria. È la vita quotidiana, il dolore quotidiano in un mondo sordo e cieco. È lo stupore del bambino di Aleppo che seduto in un’ambulanza si tocca il viso scoprendolo pieno di sangue, è il corpo di Alan con la sua maglietta rossa sulla spiaggia turca e quello di suo fratello Galip, cinque anni, inghiottito dal mare. Ma noi, l’Occidente che ha attraversato la seconda guerra mondiale e l’orrore dei regimi autoritari, dell’hitlerismo e dello stalinismo, noi dove stiamo andando?

Intervenendo al Festival delle idee di Repubblica, mesi fa, sono tornato sul paragone con Weimar. Non sono pessimista, non lo sono per carattere. Ma non voglio assuefarmi alla legge del “politicamente corretto” per cui si finisce con l’omettere o l’umettare la sostanza delle proprie ragioni. Guardiamoci intorno. Cito due macrofenomeni: i dazi e la messa in discussione dell’Europa. Nella storia l’apposizione dei dazi è sempre stata la premessa per conflitti sanguinosi. Nel tempo della globalizzazione, fenomeno oggettivo, è impensabile agire lo strumento del protezionismo esasperato. Il conflitto tra Usa e Cina e tra Usa ed Europa, segnato dalle politiche di Trump, potrà avere effetti rilevanti sulla distensione internazionale. Ma il secondo dato è il più grave. Quando Spinelli pensò l’Europa unita, il nostro continente era in fiamme. È stata la più grande conquista di pace della storia umana, in questa parte del mondo. Ma ora tutto sta crollando. Logorato prima dalle timidezze dei governi democratici e ora dalla esplicita volontà antieuropea di un numero crescente di Stati. La Gran Bretagna è uscita, con il voto degli inglesi, e il gruppo di Visegrad si propone un’Europa minima, senza principi, valori, strategie comuni.

Il nostro Paese, fondatore dell’unità europea, improvvisamente ha come riferimento Orban e la sua “democrazia autoritaria”. Un modello che tende ad affermarsi, dalla Russia alla Turchia. Si fanno strada regimi che tendono a concentrare nelle mani di pochi il potere, che limitano la libertà di stampa e di pensiero, che incarcerano gli oppositori. Qui, in Europa. La “fine della democrazia è sempre possibile”, anche in forme storicamente inedite. Come ai tempi di Weimar, quando la crisi delle istituzioni e dei partiti, spesso divorati dalla corruzione, si intreccia con la recessione economica, si genera un bisogno di sicurezza che può essere più forte del bisogno di libertà.

Il populismo, espressione comoda per indicare una politica che a questo disagio si rivolge, è, per tutto questo, una definizione sbagliata. È destra, la peggiore destra. Quella contro la quale un galantuomo come John McCain ha combattuto fino all’ultimo. Definirla populista è farle un favore. Chiamiamo le cose con il loro nome. Chi sostiene il sovranismo in una società globale, chi postula una società chiusa, chi si fa beffe del pensiero degli altri e lo demonizza, chi anima spiriti guerrieri contro ogni minoranza, chi mette in discussione il valore della democrazia rappresentativa, altro non fa che dare voce alle ragioni storiche della destra più estrema.

Altro che populismo. Qualcosa di molto più pericoloso.

Ma ciò che la sinistra, impegnata a dividersi e rimirarsi allo specchio, non ha capito è che in questi anni è andata avanti una gigantesca riorganizzazione della intera struttura sociale. Qualcosa di paragonabile agli effetti della rivoluzione industriale. Il lavoro ha cambiato natura, facendosi aleatorio e precario. E se la macchina a vapore ha creato l’industria moderna e con essa le classi sociali e le città, così la nuova rivoluzione tecnologica, ancora agli inizi, finisce con il sostituire tendenzialmente l’uomo con la macchina e con il mutare tutti i codici cognitivi e comunicativi. La società è segnata da una sensazione di precarietà che la domina, che ne mina la fiducia sociale nel futuro. Non si può pensare che un tempo in cui le famiglie italiane hanno perso undici punti di reddito rispetto alla fase precrisi, in cui la differenza tra ricchi e poveri è aumentata, non sia carico di un drammatico disagio.

Un disagio che fa sì che prevalga la paura sulla speranza. La società, come un corpo contratto, si ritrae in una posizione orizzontale. Rifiuta ogni delega, anima della vera democrazia. Non vuole sapere la verità dai giornali, non accetta il parere degli scienziati, contesta persino fisicamente professori e medici, nega il valore della competenza politica fino a mettere in discussione il parlamento, per il quale si ipotizza una estrazione a sorte dei suoi membri.

Ma la società orizzontale finisce col postulare un potere verticale. La sinistra non ha capito che quando si è posto, da Calamandrei in poi, il problema della trasparenza e della velocità della democrazia si cercava esattamente di rispondere a questo bisogno. In una società veloce una democrazia lenta e debole finisce con l’essere travolta. Più la democrazia decide, più resterà la democrazia. Meno decide e più sarà esposta alla pantomima di questa estate allucinante, con un governo che le spara grosse su tutto. Che arriva a sequestrare una nave militare italiana in un porto italiano, a giocare spregiudicatamente la vita di esseri umani per qualche voto esacerbato. Che minaccia l’Europa con un misto di arroganza e incompetenza. Che annuncia cose che non può fare, non sa fare, non farà.

Ma nel presentismo assoluto resta nell’aria solo il grido acuto dell’intemerata. Trump in campagna elettorale disse che, se anche avesse preso un fucile e fosse andato sulla Quinta strada a sparare, non avrebbe perso un voto. Temo fosse vero. E così un ministro dell’Interno indagato per abuso d’ufficio si deve dimettere se è di centrosinistra e uno di destra, indagato per sequestro di persona, deve restare al suo posto. Non discuto il merito, noto la differenza. E se un deputato della maggioranza dice, come un vero fascista, che “se i magistrati attaccano il capo, li andiamo a prendere casa per casa” nessuno nella stessa maggioranza dice nemmeno poffarbacco.

Ma nei confronti dei cinquestelle la sinistra ha compiuto gravi errori. Ha cambiato mille volte atteggiamento, ha demonizzato e cercato alleanze organiche o viceversa, senza capire che molti di quei voti sono di elettori di sinistra. Che molti dei sei milioni di cittadini che avevano votato per il Pd nel 2008 hanno finito con lo scegliere i pentastellati o sono restati a casa. Un dolore profondo, un malessere che meritava molto di più delle piccole risse quotidiane o dei corteggiamenti subalterni. Molti di quegli elettori oggi sono certamente in sofferenza per il dominio della Lega sul governo e ad essi, e a chi non ha votato, senza spocchia da maestrino, la sinistra deve rivolgersi.

Come? Sia chiaro: la crisi della sinistra non è un fenomeno esclusivamente italiano, è mondiale. Solo Obama, come immaginammo nel 2008, è restato vivido nella memoria come esempio universale di coerenza programmatica e valoriale. Ma poi ha vinto Trump. Perché la sinistra o accende un sogno o non è. Perché la sinistra o è popolo o non è. Ma io non condivido i discorsi che sento fare sulla fine della sinistra o delle idee dei democratici.

È la sinistra, nella storia, che ha cambiato il mondo. Sono state le lotte contro lo schiavismo, per la liberazione delle donne, contro l’alienazione e lo sfruttamento, per i diritti civili e umani, contro le discriminazioni. È questo sistema di valori che ha reso la vita di ognuno sulla terra più libera e migliore. La sinistra lo ha saputo fare quando ha parlato al cuore delle persone, quando ha interpretato i bisogni di giustizia sociale, quando ha scelto la libertà. Cosa che non ha sempre fatto. Cinquant’anni fa la sinistra, per come la intendo, era nel sacrificio di Ian Palach e non nei carri armati con la falce e il martello.

Sogno e popolo, ciò che è stato perduto.

Due cose semplici e difficili insieme. Sono più chiaro ancora: o la sinistra definirà una proposta in grado di assicurare sicurezza sociale nel tempo della precarietà degli umani o sparirà. O la sinistra la smetterà di rimpiangere un passato che non tornerà e si preoccuperà di portare in questo tempo i suoi valori o sparirà. O la sinistra immaginerà nuove forme di partecipazione popolare alla decisione pubblica, una nuova stagione della diffusione della democrazia, o prevarranno i modelli autoritari. Nelle future esperienze di governo della sinistra ci dovrà essere una più marcata radicalità di innovazione. Allo stesso tempo, la sinistra non deve dimenticare chi è, ne deve anzi avere orgoglio. Non sarà inseguendo la destra o, in questo caso, il populismo che si eviterà il peggio. La sinistra non può avere paura di dire che è per una società dell’accoglienza, dire che è nella sua natura – oltre che in quella che dell’essere umano – la solidarietà, la condivisione del dolore, l’aiuto nel bisogno. La sinistra non deve aver paura di dire che non si deve mai deflettere dal rigoroso presidio della sicurezza dei cittadini imponendo a tutti il rispetto delle regole che ci siamo dati.

La sinistra non deve inseguire nessuno sul tema dell’Europa immaginandone una versione bonsai ma, al contrario, deve rilanciare con forza l’idea degli Stati Uniti d’Europa, meravigliosa utopia realizzabile. Deve riscoprire, dopo averlo dimenticato, il tema dello sviluppo compatibile, vera incognita sul futuro della specie umana. E non deve assuefarsi alla barbarie del linguaggio semplificato, della rissa permanente, dell’insulto all’avversario. Anche in questo deve essere se stessa, non fare come Zelig. Deve coltivare la scuola, la ricerca, la cultura, l’identità profonda di un Paese che è sempre stato aperto al mondo. Non deve aver paura di unire anche quando la diffusione dell’odio sembra prevalere. Deve innovare la sua identità e avere rispetto della sua storia. Si possono, ed è giusto, sostituire generazioni di dirigenti. Io mi sono presto fatto da parte per mia scelta e ho iniziato una nuova vita, come era corretto facessi.

Ma non è giusto cancellare la storia collettiva, le battaglie, i sacrifici, il senso di quella cosa enorme che nella storia italiana è stata la sinistra, è stato il pensiero democratico. Ha scritto, sul tema della memoria, il priore di Bose Enzo Bianchi: “Per ogni cultura, la memoria dei momenti e delle forze che l’hanno generata è essenziale; è proprio nella memoria degli eventi fondatori che la democrazia si afferma e si manifesta come valore”.

Un esempio: la parola rottamazione fu usata, la prima volta, da Berlusconi in tv per attaccare Romano Prodi. Non è una nostra parola, figlia della nostra cultura. Neanche gli avversari si “rottamano”, perché un essere umano e le sue idee non sono mai da cancellare, se espresse per e con la libertà.

Quando – è successo varie volte – in Italia si sono prese sbandate per il demagogo di turno, alla sinistra democratica è toccato poi salvare il Paese. Per essere all’altezza di questa responsabilità la sinistra e i democratici devono unirsi e smetterla con la prassi esasperante delle divisioni e delle scissioni testimoniali. Anche quella è un’abitudine spesso coincisa con tragiche sconfitte. Il Pd che io immaginavo è durato pochi mesi, raggiunse il 34 per cento in condizioni terribili e si trovò, orgoglioso e emozionato, in un Circo Massimo oggi inimmaginabile per chiunque. Era l’idea di un partito orizzontale, fatto di cittadini e movimenti, di associazioni e autonome organizzazioni. Un partito a vocazione maggioritaria perché aperto, che usava le primarie come cemento per unire questo arcobaleno. Il contrario di un “partito liquido”, come poi si è purtroppo rivelato essere, per paradosso, quando ha prevalso il rimpianto per forme partito che non sono più date in questo tempo. Quel partito è stato in questi anni, per responsabilità di tutti, dominato dalle correnti e dai gruppi organizzati e il suo spazio vitale si è ristretto, come la stanza del funzionario Rai di La Terrazza di Ettore Scola. Quei muri vanno tirati giù e il Pd deve apparire un luogo aperto, plurale, fondato sui valori e non sul potere. Bisogna inventare una forma originale di movimento politico del nuovo millennio.

Forse quella idea era sbagliata, forse troppo avanti. Ne ho preso atto, credo con misura, senza cessare mai di dare una mano alle ragioni che hanno ispirato la mia vita.

Per questo ho scritto oggi. Perché non smetto di credere alla sinistra, perché temo per il futuro della vita democratica e dell’Europa, perché penso che l’idea di un soggetto politico aperto del campo democratico sia più che mai necessaria. Nessuno perda tempo a strologare sulla ragione di questo scritto. È solo amore per la propria comunità e per il proprio Paese. Tutto qui.

Fonte: laRepubblica.it (qui)

Economia, Innovazione

Olivetti, 110 anni e nessuno che abbia imparato la lezione

La prima cosa che ti viene da chiederti è perché.

Perché un’azienda italiana che era all’avanguardia della tecnologia mondiale è quasi scomparsa?

Perché un intero settore industriale del nostro paese è stato cancellato a favore delle aziende statunitensi?

Perché la Silicon Valley aveva iniziato a parlare italiano ma poi la conquista dell’America è svanita nel nulla?

Sono i perché che ti vengono su come un bolo visitando la mostra ‘Olivetti: 110 anni di impresa’ appena aperta alla Galleria Nazionale d’arte moderna e contemporanea di Roma.

La risposta che vi daranno a questi tanti perché i nostri attuali, rapaci, imprenditori e supermanager è che Olivetti era una fabbrica di idee, di design, di simboli, di geni ma non di profitti. Che la ‘visione’ Olivetti non è quella del moderno capitalismo. Che Olivetti, in fondo, ha fallito.

In realtà, la filosofia di Adriano Olivetti, figlio del fondatore Camillo, era quella di un imprenditore illuminato come dai suoi tempi non più si manifestano nel mondo occidentale. Le sue stesse fabbriche erano studiate per dare qualcosa al territorio, in termini di lavoro, certo, ma soprattutto di bellezza e di meraviglia. La tecnologia per quella visione assumeva un ruolo quasi mistico che al giorno d’oggi un qualsiasi ricco scarparo guarderebbe dall’alto in basso senza neanche capire che il poveraccio è proprio lui.

Quello che la visione Olivetti aveva afferrato nella sua fantasmagorica espansione elettromeccanica è che il profitto non è il valore principale di un’azienda.

Lo sono, al contrario, le cosiddette positively disturbing ideas come i valori immateriali rappresentati dalla cultura e dalla capacità innovativa, la priorità ai giovani (i più adattabili all’innovazione), la selezione dei talenti, il design innovativo inteso come intrinseco al prodotto, una struttura aziendale informale nella quale chiunque, a prescindere dal proprio ruolo, potesse essere chiamato a dare il suo contributo alla ‘impresa’ (nel vero senso della parola).

La piramide aziendale, ovviamente esistente anche in Olivetti, doveva aiutare l’uomo nel processo creativo, non opprimerlo. Provate a suggerire una cosa del genere oggi alla Fiat di Marchionne (anzi, alla FCA, che la Fiat italiana non esiste più).

Ma l’idea più disturbante di tutte nel mondo lucrativo e inumano di oggi derivante dalle teorie ultraliberiste di Milton Friedman è senz’altro quella della responsabilità sociale dell’impresa. Una responsabilità che è dovuta agli azionisti quanto ai dipendenti, quanto al territorio sul quale si operi. Costruisce case per i dipendenti, cinema e piscine per la città. Distribuisce benessere, diminuisce l’orario di lavoro, senza variazioni di salario.

Voglio ricordare ancora una volta poi la regola aurea che si rispettava alla Olivetti: nessun manager doveva guadagnare più di dieci volte il salario minimo di un operaio. Oggi che i supermanager arrivano anche ad intascare (spesso immeritatamente) fino a 500 volte la paga di un loro umile dipendente, si capisce che il capitalismo illuminato ha avuto in Adriano Olivetti un unico, splendente sole. Che non è mai più risorto.

A proposito di sole, Olivetti e la California. A Cupertino l’azienda della grigia Ivrea fu la prima a fare tecnologia nella Silicon Valley prima che questa si chiamasse così. Nel 1973 la Olivetti apre il suo primo ufficio a Mountain View (sì, proprio dove ha sede Google) mentre Steve Jobs ancora studia e lavora ai videogiochi della Atari. Nel ’79 la Apple muove i primi passi mentre Olivetti inaugura l’Advanced Technology Center. Tre anni dopo nasce l’M20. L’Apple Macintosh arriva solo nell’84. Quello che è considerato il primo personal computer del mondo, il P101, Olivetti lo aveva prodotto nel 1965.

Perché Olivetti, un’azienda che era arrivata ad avere 50mila dipendenti in 100 paesi del mondo è quasi scomparsa e vive ora solo come pallida costola di Tim (200 dipendenti o giù di lì)? Molti oggi affermano che la gestione di Adriano Olivetti fu miope e non adeguata a cavalcare la rivoluzione elettronica. Negli anni 2000 poi, un vero e proprio tracollo: dal 2003 al 2014 le perdite medie annue s’aggiravano sui 30-35 milioni per un totale di 400 milioni di euro, ripianati prima da Pirelli e poi da Telecom.

Ma per qualcun altro, invece, la sorte di Olivetti era già stata decisa altrove. In un macabro parallelo con l’Eni di Enrico Mattei, qualche ex dipendente afferma che la manina che affondò l’azienda è quella imperialista americana. Nel 1962/63 gli Usa, presidenza Kennedy, avevano notato l’intraprendenza di questi italiani che avevano il predominio dell’office automation nel mondo e miravano al controllo dell’elettronica per entrare nell’era informatica.

In Italia si stavano formando i primi governi di centrosinistra. Detto fatto: le banche italiane chiesero alla Olivetti Divisione Elettronica il rientro immediato dei capitali. L’Olivetti fu costretta a “svendere” alla General Electric la sua Divisione Elettronica, con tutta la rete di assistenza. Un suicidio. Fantapolitica? Chissà.

Intanto oggi Olivetti celebra il suo anniversario solo grazie a un’altra azienda italiana nel frattempo divenuta francese. Andare a vedere la mostra della Gnam inorgoglisce, ma fa veramente incazzare.

Fonte: ilfattoquotidiano.it Articolo di I. Mej (qui)

Privatizzazioni

Tutti più poveri grazie alle privatizzazioni imposte all’Italia

La tragedia di Genova ha contribuito a spostare l’agenda del dibattito pubblico sull’alternativa fra privatizzazione e nazionalizzazione. In premessa: nel caso italiano, appare difficile negare che le privatizzazioni abbiano prodotto più danni che benefici. Si sono realizzate essenzialmente attraverso la cessione di monopoli pubblici a monopoli privati, con conseguente aumento delle tariffe e, molto spesso, con peggioramento della qualità dei servizi erogati. A partire dagli anni Novanta si è assistito a un rilevante passo indietro dell’intervento pubblico in economica. Ovviamente si è trattato di un fenomeno globale, che, come spesso accade, l’Italia ha sperimentato più tardi (la prima ondata di privatizzazioni in Europa si ha nell’Inghilterra della signora Thatcher negli anni Ottanta) e, quando lo ha sperimentato, lo ha fatto con la massima accelerazione. Il ritiro dello Stato si registra in un notevole dimagrimento del settore pubblico italiano, in particolare per numero di addetti. L’intero settore pubblico italiano nelle due diverse ramificazioni è nei fatti il più sottodimensionato d’Europa.

L’ultima rilevazione Ocse ci informa che, mentre nel nostro paese la pubblica amministrazione assorbe circa 3.400 lavoratori, in Francia e nel Regno Unito, paesi con una popolazione e un Pil pro-capite di entità simile alla nostra, se ne contano rispettivamente 6.200 e 5800. Negli Stati Uniti – paese tradizionalmente guardato come una vera economia di mercato – il numero di dipendenti pubblici è di circa il 25% superiore al nostro. Si può aggiungere che, in Italia, l’occupazione nel settore pubblico riguarda prevalentemente individui con elevata scolarizzazione.  In più, la convinzione che i dipendenti pubblici siano ben retribuiti e godano di eccesso di protezioni è palesemente smentita sul piano empirico. L’Istat registra un aumento della retribuzione oraria netta del 21% su base annua per i lavoratori del settore privato, a fronte di incrementi pressoché nulli nel settore pubblico. E si calcola che la gran parte dei contratti a tempo determinato sono somministrati dalla pubblica amministrazione. Dunque, i dipendenti pubblici, in media, guadagnano meno dei loro colleghi del settore privato e sono più frequentemente assunti con contratti precari.

Per quanto riguarda la produttività del lavoro nel settore pubblico, pure a fronte delle rilevanti difficoltà di misurazione, e pur volendo accettare la tesi che questa è più bassa rispetto al settore privato, occorre ricordare che l’operatore pubblico svolge, di norma, le proprie funzioni in quelle che William Baumol definiva “attività stagnanti”, ovvero attività nelle quali (si pensi ai servizi alla persona) risulta impossibile generare avanzamento tecnico e, dunque, incrementi di produttività. In tal senso, se anche si ritiene che il ‘merito’ del singolo lavoratore sia misurabile e che lo sia anche nei servizi nel settore pubblico, da ciò non si può immediatamente dedurre che questa conclusione discende dal basso rendimento degli occupati, potendo più realisticamente dipendere dalla bassa accumulazione di capitale. Si calcola anche che il tasso di assenteismo dei lavoratori del settore pubblico italiano è in linea con la media europea. I fautori delle privatizzazioni sostengono che l’operatore privato è sempre più efficiente dell’operatore pubblico. Lo Stato deve limitarsi a creare le condizioni necessarie affinché l’esercizio della libertà d’impresa avvenga nel rispetto delle norme e dei contratti vigenti.

Nella fattispecie della società Autostrade, si propone (così Confindustria) l’istituzione di una commissione che esamini le concessioni e vigili sullo svolgimento del servizio. Non si ammette quello che si considera il ritorno ai “carrozzoni di Stato”. Per contro, i fautori delle nazionalizzazioni ritengono che possa essere solo lo Stato a svolgere funzioni di interesse generale e, nel caso della società Autostrade, propongono (in linea con il governo) la revoca della concessione. Quest’ultima posizione è condivisibile, se non altro per come è stato gestito il processo di privatizzazione in Italia, con una puntualizzazione, che riguarda la selezione dei nostri manager pubblici. Si tratta di una questione pressoché ignorata, ma rilevante. Su fonte ministero dell’economia e delle finanze, risulta che l’Italia ha pochi dirigenti pubblici, molto meno dei principali paesi europei. Risulta anche che sono mediamente più anziani. Soprattutto risulta assente una scuola di alta formazione, come esiste in altri paesi europei (si pensi al caso francese).

Vi è di più. La lunga stagione delle privatizzazioni – durata almeno un ventennio in Italia, nella sostanziale assenza di voci critiche – coincise con la cosiddetta  svolta neoliberista e con la convinzione che oltre a generare maggiore efficienza, la cessione di asset pubblici a privati fosse necessaria per aumentare il gettito fiscale e generare avanzi primari. Le privatizzazioni – intenzionalmente o meno – servivano anche ad accrescere le diseguaglianze distributive, sia per l’aumento delle tariffe, sia perché – e per conseguenza – l’accesso a servizi privati è più difficile per i percettori di redditi bassi. Si riteneva che l’aumento delle diseguaglianze fosse un motore di crescita attraverso i cosiddetti effetti di sgocciolamento: i ricchi, in quanto più produttivi (per ipotesi), contribuiscono maggiormente alla crescita economica, rendendo successivamente possibili misure di trasferimento a vantaggio dei più poveri. La redistribuzione a vantaggio dei più ricchi si è verificata, lo sgocciolamento no.

La convinzione per la quale le privatizzazioni servono ad aumentare le entrate fiscali e a generare crescita è molto problematica e, nei fatti, sembra essere falsa. Ciò a ragione del fatto che, per definizione, esse implicano – come si è verificato in Italia – una riduzione delle dimensioni del settore pubblico. Come certificato dall’Inps, il primo effetto (ovvio e prevedibile) derivante dalla riduzione del numero di dipendenti pubblici è proprio la riduzione delle entrate fiscali. Il privato può più facilmente evadere o eludere. Il secondo (altrettanto prevedibile) risultato consiste nell’accentuazione della caduta della domanda interna, per il tramite dei minori consumi derivanti dalla decurtazione dei redditi nel pubblico impiego. Il terzo risultato è il peggioramento della qualità dei servizi offerti, come conseguenza (anch’essa ovvia) della riduzione del numero di occupati.

Fonte: di Guglielmo Forges Davanzati, “Alcuni effetti indesiderati delle privatizzazioni in Italia”, da “Megachip” del 21 agosto 2018 (qui).

Immigrazione, Magistratura, Politica, Privatizzazioni

In nome del popolo italiano?

Dimenticare la tragedia di Genova indagando Matteo Salvini non pare una soluzione esattamente democratica.

Scrivendo tempo fa sulla tragedia di Genova, covavamo intimamente il sospetto che tutto il tran-tran mediatico sarebbe presto scomparso in favore di un nuovo spin: troppe le responsabilità emerse dalle macerie fumanti, molteplici i nomi eccellenti e le infime vergogne. Il ponte Morandi, per paradosso, poteva costituire uno spartiacque tra il prima e il dopo, evidenziando le connivenze che per venticinque anni hanno permesso a una banda di maiali di prosperare politicamente svendendo tutto lo svendibile a quattro straccioni bravi solo a leccare i deretani e foraggiare a miliardi di pubblicità la fulgida stampa borghese.

Pensavamo, per pessimistico abito mentale, che contro lo sterco puzzolente del profitto nemmeno quaranta e più morti innocenti potevano nulla. Purtroppo abbiamo avuto ragione. Bastava infatti l’ennesimo fatto di immigrazione per far calare una cappa di silenzio sulle rovine- superare l’omertà della trimurti corsera-repubblica-stampa era già difficile, ma i nostri campioni della penna son sempre pronti a superarsi- e gettare sulla pubblica opinione il delirante affaire Diciotti.

Beninteso, a noi del fatto in sé non importa nulla. La stanchezza supera di molte spanne lo sdegno di vedere le solite anime belle mobilitarsi per un selfie accogliente e solidale, le trite e ritrite polemiche su chi-resta-umano, sul nazismo risorgente e sul fariseismo in servizio permanente effettivo. Insomma, dell’ennesima manifestazione pelosa e meschina di umanismo da salotto volentieri soprassediamo.

Preme invece sottolineare, ricollegandoci a Genova e al neofeudalesimo dei monopoli privati, il triste spettacolo della magistratura, dimostrazione palese di come i rapporti di forza si tramutino sempre in manifestazioni di arbitrio, lontane anni luce dall’alto e purtroppo etereo concetto di giustizia. Ecco allora che un procuratore della Repubblica indagare a furor di stampa un ministro degli Interni per sequestro di persona e arresto illegale, imputandogli capi d’accusa gravi sulla base di valutazioni esclusivamente politiche e non penali. Espressione, quel magistrato, di un sistema giudiziario che dopo 12 giorni dalla strage ligure ancora non ha indagato nessuno, nonostante dati incontrovertibili dimostrino come Benetton e allegra compagnia abbiano puntualmente dimenticato di investire in manutenzione, impegnati com’erano- li si perdoni- a organizzare eleganti grigliate a Cortina e contare a miliardi i profitti di rendita.

Un governo di maggioranza, che trova finalmente origine dal consenso degli italiani, non va bene ai padroni del vapore.

Assistiamo ancora una volta al classico paradosso della “giustizia” borghese, braccio esecutivo del grande capitale privato, per cui è punibile soltanto ciò che va contro un dato sistema di dominio di classe e di sfruttamento dello stato ad usum privatum. Allorché sull’altare dell’euro furono sacrificati milioni di lavoratori dalla piangente Fornero nessuno fiatò, così come non ricordiamo fascicoli aperti per gli evidenti legami di una certa parte politica con nazioni straniere- di converso sui belfagorici troll del Cremlino abbiamo avuto indagini degne di Montalbano-, e via discorrendo potendo citare migliaia di casi in cui l’apparato giudiziario “non vide e non volle vedere”. Niente di sorprendente, per chi ritiene ancora le istituzioni politico-sociali una espressione dei rapporti di forza economici. Né, si badi, vogliamo fare di tutta l’erba un fascio: coraggiosi esempi di dignità civile ci sono stati e ci sono, basti pensare al procuratore Zuccaro aggredito quasi fosse un millantatore o alla procura di Trani in grado di denunciare la speculazione finanziaria propedeutica al golpe del 2011.

Due esempi controcorrente, non a caso impallinati da certa stampa, che ricordano ancora la funzione di garanzia democratica della magistratura. E il fattore-informazione e il fattore-giustizia, infatti, sono sempre parte di quel problema titanico che è la tenuta delle istituzioni democratiche di fronte all’assalto del capitalismo finanziario. Se, occorre ricordarlo, la democrazia o è sociale secondo Costituzione o non è, la difesa della stessa dovrebbe ribadire colpo su colpo alle offese provocate dai monopoli padronali, dall’invadenza oppressiva di istituzioni sovrannazionali, da tentativi infami di utilizzare poveri disperati come piede di porco per deprimere ancora il tenore di vita e i diritti sociali degli italiani. La giustizia, insomma, dovrebbe essere al servizio del popolo italiano agendo in nomine suo contro chiunque attenti alla sua libertà e ai suoi sacrosanti diritti civili e sociali.

Senza un tale vincolo di fiducia, quando anzi il rapporto si ribalta in favore di potentati privati, gauleiter europei e parti politiche totalmente sfiduciate dagli elettori, tutto diventa possibile, financo l’arbitrio più sfacciato di fronte al quale anche la pazienza del santo, presto o tardi, si consuma per divenire rabbia sacrosanta, risposta proletaria a chi piega tutto, perfino la lettera della legge, all’insaziabilità dell’oro.

Fonte: lintellettualedissidente.it Articolo di A.Romani 26 agosto 2018 (qui)

Europa

Ecco il piano della Francia per prendersi la Difesa Ue

L’Europa può fare a meno degli Stati Uniti. È questa l’idea che circola da alcuni mesi nelle cancellerie del nostro continente, in particolare in Francia e in Germania. Ed è un’idea che adesso sta assumendo i caratteri di un vero e proprio programma strategico, soprattutto con l’avvento di Donald Trump alla Casa Bianca. La sua presidenza ha minato profondamente le relazioni fra America ed Europa. E adesso non ci sono più certezze sull’ombrello militare di Washington sul Vecchio Continente.

Macron vuole la guida della Difesa europea

Le ultime dichiarazioni di Emmanuel Macron sono molto interessanti. E fanno comprendere quali possano essere i movimenti politici e strategici che potrebbero coinvolgere il nostro continente nel prossimo futuro. Il presidente francese, riuniti 250 ambasciatori francesi all’Eliseo, ha parlato del rapporto fra Stati Uniti ed Europa affermando che “l’Europa non può più dipendere dagli Stati Uniti per la sua sicurezza“. Parole molto chiare, che non rappresentano solo una dichiarazione propagandistica ma un discorso programmatico.

La Francia non ha mai negato di voler essere la potenza militare per eccellenza del blocco europeo. L’idea di Parigi, anche con l’avvento dell’asse franco-tedesco nella guida dell’Unione europea, è sempre stata quella di condividere con Berlino la guida del continente basandosi su due ambiti diversi. La Germania avrebbe avuto il controllo finanziario e commerciale, la Francia quello militare. Con una condivisione del potere politico che per molto tempo è stato poi ampiamente delegato a Berlino.

Una scelta dettata anche dalla strategia impostata dai governi dei due Paesi in questi decenni. La Germania ha costruito la sua leadership europea presentandosi come potenza centrale ma non militare: un gigante economico ma non bellico. La Francia, invece, anche per un suo spirito di grandeur mai sopito, non ha mai negato di considerare le sue forze armate come parte integrante della propria politica internazionale.

I fattori che aiutano Parigi e Berlino

Oggi, l’allineamento di diversi fattori gioca a favore della spinta di Macron per un rinnovato interesse nella Difesa europea sganciata da quella americana. Innanzitutto perché sono gli stessi Stati Uniti a non volere più proteggere l’Europa. E Trump lo ha reso chiaro dall’inizio del suo mandato: sia riferendosi al budget da investire nella Nato sia, in generale, per quanto riguarda gli accordi fra Stati europei e Russia.

Washington sta polarizzando l’Europa, chiedendo ai Paesi del blocco di fare una scelta: noi o loro. E su questa alternativa, Macron e altri leader europei stanno riflettendo su una terza via: creare un blocco continentale. Un’idea che non piace al Pentagono né alla Nato, ma che interessa alla Casa Bianca, dal momento che l’attuale amministrazione non condivide l’idea per cui l’Europa debba essere protetta ad ogni costo.

A questa mancanza di volontà politica da parte americana, si aggiunge poi l’idea franco-tedesca di rafforzare la propria leadership europea di fronte ai movimento sovranisti che stanno ribollendo in tutta Europa. Con l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, con l’Italia che sta dimostrando di guardare altrove rispetto a Bruxelles, e con il Gruppo Visegrad che smuove l’intero fronte dell’Europa orientale, Francia e Germania stanno creando una sorta di nucleo europeista legato alla loro leadership. Soprattutto in vista delle elezioni europee, dove le politiche di Angela Merkel e Macron rischiano di essere spazzate via dall’onda di protesta che viene dalle periferie europee.

Ed è qui che entra in gioco la Germania, che da qualche tempo ha ingaggiato con gli Stati Uniti una vera e propria sfida sia politica che commerciale. Se per la Francia tutto questo è uno strumento per raggiungere la guida militare europea, e lo sta facendo anche in accordo con l’America, per la Germania l’obiettivo è un altro: dare un colpo all’assedio voluto da Trump.

L’apertura alla Russia

Le sanzioni alla Russia per colpire il gasdotto North Stream 2, unite alla guerra dei dazi minacciata continuamente contro l’Europa, sono stati un colpo durissimo. E Berlino ora vuole rispondere. Anzi, mentre si allontana da Washington, riprende vigore la sua Ostpolitik che guarda verso Mosca, dove Vladimir Putin non può che accogliere a braccia aperte una rinnovata “special relationship” fra Berlino e Mosca che riequilibri l’Europa verso Est dopo anni di guerra totale contro il Cremlino.

Anche la Francia, in questi giorni, ha avuto modo di riconsiderare la sua politica con la Russia. Lo ha confermato lo stesso residente Macron all’Eliseo. “Dobbiamo trarre tutte le conseguenze dalla fine della Guerra fredda”, ha dichiarato il presidente francese, che ha anche auspicato, a proposito del progetto francese di una Difesa europea, una “riflessione esauriente su questi temi con tutti i partner dell’Europa e dunque con la Russia“. Una dichiarazione che, se considerata insieme alla nuova partnership franco-russa sugli aiuti umanitari in Siria, fa capire come da Parigi qualcuno abbia aperto un credito nei confronti di Mosca. Prova ne è stato l’incontro nella capitale francese fra Sergei Lavrov, Valery Gerasimov e lo stesso Macron.

E l’Italia?

Il governo italiano ha subito osservato con attenzione a queste idee francesi, ma, come dichiarato dalla Difesa, ha accolto con gelo l’ipotesi teorizzata da Macron. Il motivo semplice: questa difesa progettata da Parigi è solo formalmente europea, ma sostanzialmente parigina. L’obiettivo di Macron è come detto guidare la politica di sicurezza europea. E questo ha fatto storcere il naso a molti Stati europei, Italia compresa.

Il fatto è che una base di Difesa comune europea esiste già, ed è la Pesco. In questo sistema, l’Italia è già entrata ed è su questa base che vuole costruire la Difesa comune europea. Su altri progetti sponsorizzati da Parigi, invece, il discorso è diverso. Parliamo di Difesa europea di Difesa francese imposta sull’Europa? È su questa differenza di vedute che cambia radicalmente la percezione del progetto.

Fonte: occhidellaguerra.it (qui)

Economia, Europa, Politica

L’UE sta apparecchiando l’uscita dell’Italia dall’euro

Se più indizi fanno una prova, allora è evidente che l’UE stia ponendo le condizioni per convincere il Governo giallo-verde a uscire dall’Euro.

Non si può leggere diversamente l’alzata di spalle della Commissione Europa di fronte all’appello italiano, che chiede nuove regole ispirate a principi di solidarietà e responsabilità che non siano a senso unico come avvenuto fino ad oggi.

Sul suo profilo Facebook il presidente Conte scrive: Nel corso della riunione convocata d’urgenza dalla Commissione Europea e che si è appena conclusa non è stato dato alcun seguito alle Conclusioni deliberate nel corso dell’ultimo Consiglio Europeo di fine giugno. Anzi. Da parte di alcuni Stati è stato proposto un passo indietro, suggerendo una sorta di regolamento di Dublino “mascherato”, che avrebbe individuato l’Italia come Paese di approdo sicuro, con disponibilità degli altri Stati a partecipare alla redistribuzione dei soli aventi diritto all’asilo, che notoriamente sono una percentuale minima dei migranti che arrivano per mare. Eppure è noto a tutti che l’Italia sta gestendo da giorni, con la nave Diciotti, una emergenza dai risvolti molto complessi e delicati. Ancora una volta misuriamo la discrasia, che trascolora in ipocrisia, tra parole e fatti. Alla fin fine conviene a Bruxelles che la nave Diciotti continui a sostare in mezzo al mare. Devono aver notato la fiducia di cui gode il Governo, e in particolare il ministro degli Interni: perciò i piani alti dell’UE non vedrebbero così male l’uscita dell’Italia, altrimenti inizierebbero una riforma delle politiche maggiormente invise ai cittadini italiani e a quelli europei.

Un secondo indizio viene dalle affermazioni di Jens Weidmann, presidente della Bundesbank e probabile successore di Draghi alla Banca Centrale Europea: E’ tempo di uscire dalla politica molto espansiva e dalle misure straordinarie, soprattutto prendendo in considerazione i possibili effetti collaterali. (…) Il forte peso degli alti debiti pubblici va ridotto: queste sono sfide che i singoli Stati devono affrontare per conto loro. Chi si esprime a favore della condivisione dei rischi deve anche essere pronto a cedere più sovranità giuridica ai livelli europei. Due punti sono estremamente chiari: stop al Quantitative Easing e maggiori poteri all’UE e meno agli Stati se vogliono barattare maggiore flessibilità. Suona come un avviso di sfratto per un Paese come l’Italia che ha beneficiato oltre misura del QE e col Governo attuale non ha alcuna intenzione di cedere ulteriore sovranità.

Il ministro Savona, intervistato da Bruno Vespa a Porto Cervo, ha dichiarato: C’è la possibilità che si scateni una speculazione finanziaria. Per colpa degli italiani o del governo? Non mi interessa, ma l’evento può accadere. Il governo si deve preparare e trovare una soluzione. Sono andato a parlare di questo con Mario Draghi e con altri, non con i russi. Ora il ministro Tria è in Cina per discutere. Un governo serio cerca di parare questa eventualità. L’Italia rispetterà i parametri, ma finché sarà possibile. L’economista precisa: Il piano B lo hanno tutti gli Stati, anche la Germania, nonostante le smentite della Merkel. Perché scandalizzarsi. È una sorta di ultimatum a Bruxelles: o ci lasciate governare senza mettere la manina, oppure siamo pronti a dirvi addio.

Sulla stessa lunghezza d’onda il ministro Salvini, che dopo la fumata grigia al nuovo piano immigrazione dell’UE ha detto: Gli italiani penso si aspettino buon senso, rigore e tranquillità: se in Europa fanno finta di non capire, come hanno detto giustamente Conte e Di Maio vedremo di pagare l’Europa un po’ di meno. Il contributo possiamo diminuirlo in quota parte con quello che l’Ue non fa danneggiando l’Italia, non solo sull’immigrazione. E sull’uscita dell’euro Salvini spiega: Non confondiamo i temi. Il discorso economico lo affronteremo perché c’è in preparazione il bilancio dell’Europa dei prossimi anni che è assolutamente insoddisfacente. Che vada ripensata ridiscussa, riscritta mi pare evidente. Oggi l’Europa ha dato l’ennesima dimostrazione di essere solo sulla carta. Quando si parla di condivisione a Bruxelles sono sordi.

Un’affermazione che prende tempo, ma che non esclude l’applicazione del piano B come ultima ratio se l’UE continua a predisporre le condizioni per costringere l’Italia a togliere il disturbo. Ricordiamo che l’Italia sembra aver ricevuto massima disponibilità da Trump per sostenerla sulla questione del debito, pur non sapendo bene come, a fronte di un appoggio alla politica pro-dazi; e si è persino menzionato un aiuto di Cina o Russia. Difficile comprendere quanto vi sia di vero, ma se l’Italia si sganciasse dall’Euro, il Governo dovrebbe comunque ridisegnare le partnership commerciali e finanziarie, nonché gli assetti geopolitici del Vecchio Continente.

Intanto, l’agenzia di rating Moody’s ha rivisto ulteriormente al ribasso la crescita dell’Italia per quest’anno e per il prossimo. Lo spread aumenta con Bini Smaghi, ex consigliere della BCE che domanda al Governo un atto di buona volontà per rasserenare i mercati finanziari: la pre-approvazione dell’articolo 1 del DEF dove si fissa il rapporto deficiti/Pil e di conseguenza il debito. Una proposta del genere potrebbe significare che UE e alta finanza abbiano già scaricato il Governo italiano e che solo inginocchiandosi ai loro piedi si potrà ricevere clemenza. Ma è qualcosa di troppo irrispettoso per un Paese fondatore dell’Unione Europea.

Fonte: sputniknews.com Articolo di M. Fontana (qui)

Innovazione

Google si piega alla «censura» cinese. La protesta dei dipendenti

Circa 1.400 dipendenti di Google hanno firmato una lettera di protesta contro l’iniziativa della società di realizzare una versione del motore di ricerca «censurata» per la Cina, che è conosciuta internamente come Dragonfly. E’ quanto scrive il New York Times che ha ottenuto copia della lettera.
I dipendenti di Google sollecitano maggiore trasparenza da parte della società per conoscere le implicazioni morali del loro lavoro. Secondo i dipendenti accettare le richieste della Cina per una versione censurata del motore di ricerca pone “urgenti questioni morali ed etiche”.

GRNDE FIREWALL – «Attualmente non abbiamo l’informazione richiesta per prendere decisioni informate eticamente sul nostro lavoro», hanno scritto nella lettera ottenuta dal quotidiano newyorchese.
Era il 2010 quando Google decise di andar via dalla Cina dopo aver scoperto degli episodi di hacking degli account Gmail di alcuni attivisti per i diritti civili. D’altronde tutti i giganti Usa del web hanno avuto a che fare con il «Grande Firewall» cinese, che ferma ogni contenuto politicamente sgradito al regime. Twitter, Facebook, YouTube e il New York Times sono bloccati nella Repubblica popolare. Una situazione, questa, che ha consentito ai giganti locali come Baidu e Youkou di crescere indisturbati.

700 MILIONI DI UTENTI – La possibilità di un ritorno in Cina di Google è vista con favore dalle autorità cinesi, a condizione che il gigante americano rispetti le necessità delle autorità. Due settimane fa il Quotidiano del Popolo ha scritto che «Google è benvenuta, ma è un prerequisito che debba rispettare quanto previsto dalla legge». Il commento, inoltre, ha ricordato che nel periodo di assenza di Google dalla Cina il contesto del web cinese è radicalmente cambiato: da pochi più di 300 milioni di utenti si è passati a oltre 700 milioni.
Proprio questa prospettiva, tuttavia, sta provocando forti mal di pancia all’interno della stessa società americana. The Intercept, che è stata la testata online la quale ha rivelato il progetto, ha scritto il gruppo ha bloccato l’accessibilità ai documenti relativi al progetto Dragonfly alla gran parte dei dipendenti. «C’è stato un silenzio radio totale della gerarchia e questo rende la gente scontenta e spaventata», ha raccontato un dipendente.

LA PETIZIONE DEI DIPENDENTI – Non è la prima volta che Google si trova a dover affrontare malumori interni. Migliaia di dipendenti hanno firmato qualche mese fa una petizione per chiedere di «restare fuori dal business della guerra» a proposito di un contratto col Pentagono. Dopo questa protesta, il gigante informatico si è impegnato a far sì che i suoi lavori nel settore dell’intelligenza artificiale servano mai a costruire armi.
Poi, oltre alla posizione dell’azienda che vuole rientrare nel mercato a più rapida espansione del mondo e a quella dei dipendenti che resistono al rischio di un compromesso eticamente inaccettabile dal loro punto di vista, c’è la terza posizione: quella di chi nel mercato cinese ci opera e si troverà come concorrente il gigante americano. Robin Li Hanyong, il numero uno del motore di ricerca cinese Baidu, ha affilato i denti. Sul suo account WeChat, utilizzando un gergo da gioco di ruolo, ha scritto: «Se Google rientra sul mercato, ci darà l’opportunità di combattere all’ultimo sangue con spade e lance reali, e di vincere ancora una volta».

Fonte: diariodelweb.it (qui)

Economia, Fisco, Territorio bresciano

Redditi, dal 2008 i bresciani hanno 720 euro in meno all’anno

I bresciani di città hanno 720 euro in meno a disposizione rispetto al 2008. Effetto della crisi lunga, in termini percentuali la differenza tra i redditi dichiarati nel 2017 (anno fiscale 2016) e quelli del 2009 (relativi al 2008) è del 2,76% in meno, un calo superiore alla media nazionale nei Comuni capoluogo. A rilevarlo è l’analisi fatta da Il Sole 24 Ore del lunedì elaborando i dati del Dipartimento delle Finanze relativi ai Comuni capoluogo. Brescia, in un quadro generale di per sé abbastanza grigio, non ne viene fuori bene. Il reddito medio è di 26.158 euro, superiore di circa un migliaio di euro rispetto alla media nazionale (25.170) ma più o meno a metà strada se il confronto viene fatto con le città del Nord.

Più negativo è il dato sulla direzione di marcia dei redditi. In dieci anni la crisi ha colpito duro, falcidiando posti di lavoro e redditi. Questo è avvenuto anche a Brescia, al punto che il reddito medio (ripulito dall’inflazione) è calato di poco meno di tre punti percentuali, di 720 euro in meno appunto in termini assoluti. Il calo percentuale è ben superiore rispetto quello registrato a livello nazionale (-1,92%) e ancor più rispetto a tante città del Nord. la vicina Bergamo, dove il reddito medio è superiore ai 30mila euro, il calo è stato dell’1,77%. A Milano, regina d’Italia, il reddito medio è di 34mila euro e il calo è stato dell’1,47%. A Verona, con un reddito di circa 25mila euro, il segno di marcia è stato invece positivo (+1,13%).

A livello nazionale i capoluoghi dove si sono registrati aumenti sono stati in realtà pochi, meno di una ventina, e nella gran parte dei casi con percentuali di crescita da prefisso telefonico. Spiccano però i segnali che arrivano da Trieste (+2,15%), Belluno (+2,06%) e Lucca (+1,58%). I crolli maggiori arrivano invece dal Sud Italia, da Isernia (-9,39%) a Crotone (-7,97%) e Agrigento (-7,09%). Il dato sul numero di contribuenti ogni 100 abitanti racconta invece indirettamente il tasso di partecipazione al lavoro e anche in questo caso per Brescia le note non sono liete. In città il numero di contribuenti ogni 100 abitanti sono 69,6, più della media nazionale (66,6) ma meno di numerosi altri Comuni capoluogo del Nord Italia: 71,7 a Milano, 73 a Modena, 70,4 a Bergamo solo per citarne alcuni e con il caso limite di Ferrara (77,1), uno dei pochi Capoluoghi ad avere anche il segno positivo nei redditi rispetto agli anni pre crisi.

Il 2017 ha segnato sicuramente una inversione più marcata rispetto alla crisi, con risultati importanti sul piano occupazionale. I numeri delle prossime dichiarazioni dei redditi potrebbero quindi dare qualche motivo di soddisfazione in più, ma resta che la lunga crisi degli ultimi dieci anni sta ancora facendo sentire i suoi effetti.

Fonte: brescia.corriere.it Articolo di T. Bendinelli (qui)

Economia, Globalizzazione, Mafie, Privatizzazioni

Mafia, Wall Street e traditori: così è stata svenduta l’Italia

Falcone e Borsellino? Eliminati per un motivo più che strategico. Braccando la mafia, erano risaliti – tramite la pista massonica – ai legami finanziari tra l’élite Usa e la manovalanza italiana della grande operazione che si stava preparando, e che avrebbe devastato la storia del nostro paese: la svendita dell’Italia all’élite finanziaria globalista, che si servì di collaborazionisti di primissimo piano. Obiettivo: mettere le mani sullo Stato, razziando risorse e togliendo servizi vitali ai cittadini. All’indomani della catastrofe di Genova, coi riflettori puntati sullo strano caso delle autostrade “regalate” ai Benetton (e ai loro potenti soci d’oltreoceano), è illuminante rileggere oggi la paziente ricostruzione realizzata già nel 2007 da Antonella Randazzo. Mentre i giudici di Mani Pulite davano agli italiani l’illusione di un cambiamento nel segno della trasparenza, mettendo fine alla corruzione della Prima Repubblica, la finanza anglosassone convocava a bordo del Britannia gli uomini-chiave della futura Italia, assoldati per sabotare il proprio paese. Sarebbero stati agevolati dalla super-speculazione di George Soros sulla lira, che tolse all’Italia il 30% del suo valore, favorendone la svendita a prezzi stracciati. Da allora, un copione invariabile: aziende pubbliche rilevate da imprenditori italiani finanziati dalle stesse banche anglosassoni che avevano progettato il “golpe”. Il grande complotto contro l’Italia che – per primo – proprio Giovanni Falcone aveva fiutato.

Era il 1992, all’improvviso un’intera classe politica dirigente crollava sotto i colpi delle indagini giudiziarie. Da oltre quarant’anni era stata al potere. Gli italiani avevano sospettato a lungo che il sistema politico si basasse sulla corruzione e sul Giovanni Falconeclientelismo. Ma nulla aveva potuto scalfirlo. Né le denunce, né le proteste popolari (talvolta represse nel sangue), né i casi di connivenza con la mafia, che di tanto in tanto salivano alla cronaca. Ma ecco che, improvvisamente, il sistema crollava. Cos’era successo da fare in modo che gli italiani potessero avere, inaspettatamente, la soddisfazione di constatare che i loro sospetti sulla corruzione del sistema politico erano reali? Mentre l’attenzione degli italiani era puntata sullo scandalo delle tangenti, il governo italiano stava prendendo decisioni importantissime per il futuro del paese. Con l’uragano di Tangentopoli gli italiani credettero che potesse iniziare un periodo migliore per l’Italia. Ma in segreto, il governo stava attuando politiche che avrebbero peggiorato il futuro del paese. Numerose aziende saranno svendute, persino la Banca d’Italia sarà messa in vendita. La svendita venne chiamata “privatizzazione”.

Il 1992 fu un anno di allarme e di segretezza. L’allora ministro degli interni Vincenzo Scotti, il 16 marzo, lanciò un allarme a tutti i prefetti, temendo una serie di attacchi contro la democraziaitaliana. Gli attacchi previsti da Scotti erano eventi come l’uccisione di politici o il rapimento del presidente della Repubblica. Gli attacchi ci furono, e andarono a buon fine, ma non si trattò degli eventi previsti dal ministro degli interni. L’attacco alla democrazia fu assai più nascosto e destabilizzante. Nel maggio del 1992, Giovanni Falcone venne ucciso dalla mafia. Egli stava indagando sui flussi di denaro sporco, e la pista stava portando a risultati che potevano collegare la mafia ad importanti circuiti finanziari internazionali. Falcone aveva anche scoperto che alcuni personaggi prestigiosi di Palermo erano affiliati ad alcune logge massoniche di rito scozzese, a cui appartenevano anche diversi mafiosi, ad esempio Giovanni Lo Cascio. La pista delle logge correva parallela a quella dei circuiti finanziari, e avrebbe portato a risultati certi, se Falcone non fosse stato ucciso.

Su Falcone erano state diffuse calunnie che cercavano di capovolgere la realtà di un magistrato integro. La gente intuiva che le istituzioni non lo avevano protetto. Ciò emerse anche durante il suo funerale, quando gli agenti di polizia si posizionarono davanti alle bare, impedendo a chiunque di avvicinarsi. Qualcuno gridò: «Vergognatevi, dovete vergognarvi, dovete andare via, non vi avvicinate a queste bare, questi non sono vostri, questi sono i nostri morti, solo noi abbiamo il diritto di piangerli, voi avete solo il dovere di vergognarvi». Che la mafia stesse utilizzando metodi per colpire il paese intero, in modo da spaventarlo e fargli accettare passivamente il “nuovo corso” degli eventi, lo si vedrà anche dagli attentati del 1993. Gli attentati del 1993 ebbero caratteristiche assai simili agli attentati terroristici degli anni della “strategia della tensione”, e sicuramente avevano lo scopo di spaventare il paese, per indebolirlo. Il 4 maggio 1993, un’autobomba esplode in via Fauro a Roma, nel quartiereLa fine di Paolo BorsellinoParioli. Il 27 maggio un’altra autobomba esplode in via dei Georgofili a Firenze, cinque persone perdono la vita. La notte tra il 27 e il 28 luglio, ancora un’autobomba esplode in via Palestro a Milano, uccidendo cinque persone.

I responsabili non furono mai identificati, e si disse che la mafia volesse “colpire le opere d’arte nazionali”, ma non era mai accaduto nulla di simile. I familiari delle vittime e il giudice Giuseppe Soresina saranno concordi nel ritenere che quegli attentati non erano stati compiuti soltanto dalla mafia, ma anche da altri personaggi dalle «menti più fini dei mafiosi» (da “reti-invisibili.net”). Falcone era un vero avversario della mafia. Le sue indagini passarono a Borsellino, che venne assassinato due mesi dopo. La loro morte ha decretato il trionfo di un sistema mafioso e criminale, che avrebbe messo le mani sull’economia italiana, e costretto il paese alla completa sottomissione politica e finanziaria. Mentre il ministro Scotti faceva una dichiarazione che suonava quasi come una minaccia («la mafia punterà su obiettivi sempre più eccellenti e la lotta si farà sempre più cruenta, la mafia vuole destabilizzare lo Stato e piegarlo ai propri voleri»), Borsellino lamentava regole e leggi che non permettevano una vera lotta contro la mafia. Egli osservava: «Non si può affrontare la potenza mafiosa quando le si fa un regalo come quello che le è stato fatto con i nuovi strumenti processuali adatti a un paese che non è l’Italia e certamente non la Sicilia. Il nuovo codice, nel suo aspetto dibattimentale, è uno strumento spuntato nelle mani di chi lo deve usare. Ogni volta, ad esempio, si deve ricominciare da capo e dimostrare che Cosa Nostra esiste» (“La Repubblica” , 27 maggio 1992).

I metodi statali di sabotaggio della lotta contro la mafia sono stati denunciati da numerosi esponenti della magistratura. Ad esempio, il 27 maggio 1992, il presidente del tribunale di Caltanissetta Placido Dall’Orto, che doveva occuparsi delle indagini sulla strage di Capaci, si trovò in gravi difficoltà: «Qui è molto peggio di Fort Apache, siamo allo sbando. In una situazione come la nostra la lotta alla mafia è solo una vuota parola, lo abbiamo detto tante volte al Csm» (“La Repubblica”, 28 maggio 1992). Anche il pubblico ministero di Palermo, Roberto Scarpinato, nel giugno del 1992 disse: «Su un piatto della bilancia c’è la vita, sull’altro piatto ci deve essere qualcosa che valga il rischio della vita, non vedo in questo pacchetto un impegno straordinario da parte dello Stato, ad esempio non vedo nulla di straordinario sulla caccia e la cattura dei grandi latitanti» (“La Repubblica”, 10 giugno 1992). Nello stesso anno, il senatore Maurizio Calvi raccontò che Falcone gli confessò di non fidarsi del Claudio Martellicomando dei carabinieri di Palermo, della questura di Palermo e nemmeno della prefettura di Palermo (“La Repubblica”, 23 giugno 1992).

Che gli assassini di Capaci non fossero tutti italiani, molti lo sospettavano. Il ministro Martelli, durante una visita in Sudamerica, dichiarò: «Cerco legami tra l’assassinio di Falcone e la mafia americana o la mafia colombiana» (“La Repubblica”, 23 giugno 1992). Lo stesso presidente del Consiglio, Amato, durante una visita a Monaco, disse: «Falcone è stato ucciso a Palermo, ma probabilmente l’omicidio è stato deciso altrove». Probabilmente, le tecniche d’indagine di Falcone non piacevano ai personaggi con cui il governo italiano ebbe a che fare quell’anno. Quel considerare la lotta alla mafia soprattutto un dovere morale e culturale, quel coinvolgere le persone nel candore dell’onestà e dell’assenza di compromessi, gli erano valsi la persecuzione e i metodi di calunnia tipici dei servizi segreti inglesi e statunitensi. Tali metodi mirano ad isolare e a criminalizzare, cercando di fare apparire il contrario di ciò che è. Cercarono di far apparire Falcone un complice della mafia. Antonino Caponnetto dichiarò al giornale “La Repubblica”, il 25 giugno 1992: «Non si può negare che c’è stata una campagna (contro Falcone), cui hanno partecipato in parte i magistrati, che lo ha delegittimato. Non c’è nulla di più pericoloso per un magistrato che lotta contro la mafia che l’essere isolato».

L’omicidio di due simboli dello Stato così importanti come Falcone e Borsellino significava qualcosa di nuovo. Erano state toccate le corde dell’élite di potere internazionale, e questi omicidi brutali lo testimoniavano. Ciò è stato intuito anche da Charles Rose, procuratore distrettuale di New York, che notò la particolarità degli attentati: «Neppure i boss più feroci di Cosa Nostra hanno mai voluto colpire personalità dello Stato così visibili come era Giovanni, perché essi sanno benissimo quali rischi comporta attaccare frontalmente lo Stato. Quell’attentato terroristico è un gesto di paura… Credo che una mafia che si mette a sparare ai simboli come fanno i terroristi… è condannata a perdere il bene più prezioso per ogni organizzazione criminale di quel tipo, cioè la complicità attiva o passiva della popolazione entro la quale si muove» (“La Repubblica”, 27 maggio 1992). Infatti, quell’anno gli italiani capirono che c’era qualcosa di nuovo, e scesero in piazza contro la mafia. Si formarono due fronti: la gente comune contro la mafia, e le istituzioni, che si stavano sottomettendo all’élite che coordina le mafie internazionali. Quell’anno l’élite anglo-americana non voleva soltanto impedire la lotta efficace contro la mafia, ma Tina Anselmivoleva rendere l’Italia un paese completamente soggiogato ad un sistema mafioso e criminale, che avrebbe dominato attraverso il potere finanziario.

Come segnalò il presidente del Senato Giovanni Spadolini, c’era in atto un’operazione su larga scala per distruggere la democrazia italiana: «Il fine della criminalità mafiosa sembra essere identico a quello del terrorismo nella fase più acuta della stagione degli anni di piombo: travolgere lo Stato democratico nel nostro paese. L’obiettivo è sempre lo stesso:  delegittimare lo Stato, rompere il circuito di fiducia tra cittadini e potere democratico…se poi noi scorgiamo – e ne abbiamo il diritto – qualche collegamento internazionale intorno alla sfida mafia più terrorismo, allora ci domandiamo: ma forse si rinnovano gli scenari di dodici-undici anni fa? Le minacce dei centri di cospirazione affaristico-politica come la P2 sono permanenti nella vita democratica italiana. E c’è un filone piduista che sopravvive, non sappiamo con quanti altri. Mafia e P2 sono congiunte fin dalle origini, fin dalla vicenda Sindona» (“La Repubblica”, 11 agosto 1992). Anche Tina Anselmi aveva capito i legami fra mafia e finanza internazionale: «Bisogna stare attenti, molto attenti… Ho parlato del vecchio “piano di rinascita democratica” di Gelli e confermo che leggerlo oggi fa sobbalzare. E’ in piena attuazione… Chi ha grandi mezzi e tanti soldi fa sempre politica e la fa a livello nazionale ed internazionale».

«Ho parlato in questi giorni con un importante uomo politico italiano che vive nel mondo delle banche. Sa cosa mi ha detto? Che la mafia è stata più veloce degli industriali e che sta già investendo centinaia di miliardi, frutto dei guadagni fatti con la droga, nei paesi dell’est… Stanno già comprando giornali e televisioni private, industrie e alberghi… Quegli investimenti si trasformeranno anche in precise e specifiche azioni politiche che ci riguardano, ci riguardano tutti. Dopo le stragi di Palermo la polizia americana è venuta ad indagare in Sicilia anche per questo, sanno di questi investimenti colossali, fatti regolarmente attraverso le banche» (“L’Unità”, 12 agosto 1992). Anni dopo, l’ex ministro Scotti confesserà a Cirino Pomicino: «Tutto nacque da una comunicazione riservata fattami dal capo della polizia Parisi che, sulla base di un lavoro di intelligence svolto dal Sisde Mario Draghie supportato da informazioni confidenziali, parlava di riunioni internazionali nelle quali sarebbero state decise azioni destabilizzanti sia con attentati mafiosi sia con indagini giudiziarie nei confronti dei leader dei partiti di governo».

Una delle riunioni di cui parlava Scotti si svolse il 2 giugno del 1992, sul panfilo Britannia, in navigazione lungo le coste siciliane. Sul panfilo c’erano alcuni appartenenti all’élite di potereanglo-americana, come i reali britannici e i grandi banchieri delle banche a cui si rivolgerà il governo italiano durante la fase delle privatizzazioni (Merrill Lynch, Goldman Sachs e Salomon Brothers). In quella riunione si decise di acquistare le aziende italiane e la Banca d’Italia, e come far crollare il vecchio sistema politico per insediarne un altro, completamente manovrato dai nuovi padroni. A quella riunione parteciparono anche diversi italiani, come Mario Draghi, allora direttore delegato del ministero del Tesoro, il dirigente dell’Eni Beniamino Andreatta e il dirigente dell’Iri Riccardo Galli. Gli intrighi decisi sul Britannia avrebbero permesso agli anglo-americani di mettere le mani sul 48% delle aziende italiane, fra le quali c’erano la Buitoni, la Locatelli, la Negroni, la Ferrarelle, la Perugina e la Galbani. La stampa martellava su Mani Pulite, facendo intendere che da quell’evento sarebbero derivati grandi cambiamenti.

Nel giugno 1992 si insediò il governo di Giuliano Amato. Si trattava di un personaggio in armonia con gli speculatori che ambivano ad appropriarsi dell’Italia. Infatti Amato, per iniziare le privatizzazioni, si affrettò a consultare il centro del potere finanziario internazionale: le tre grandi banche di Wall Street, Merrill Lynch, Goldman Sachs e Salomon Brothers. Appena salito al potere, Amato trasformò gli enti statali in società per azioni, valendosi del decreto Legge 386/1991, in modo tale che l’élite finanziaria li potesse controllare, e in seguito rilevare. L’inizio fu concertato dal Fondo Monetario Internazionale, che come aveva fatto in altri paesi, voleva privatizzare selvaggiamente e svalutare  la nostra moneta, per agevolare il dominio economico-finanziario dell’élite. L’incarico di far crollare l’economia italiana venne dato a George Soros, un cittadino americano che tramite informazioni ricevute dai Rothschild, con la complicità di alcune autorità italiane, riuscì a far crollare la nostra moneta e le azioni di molte aziende italiane. Soros ebbe l’incarico, da parte dei banchieri anglo-americani, di attuare una serie di speculazioni, efficaci grazie alle informazioni che egli riceveva dall’élite finanziaria. Egli fece attacchi speculativi George Sorosdegli “hedge funds” per far crollare la lira. A causa di questi attacchi, il 5 novembre del 1993 la lira perse il 30% del suo valore, e anche negli anni successivi subì svalutazioni.

Le reti della Banca Rothschild, attraverso il direttore Richard Katz, misero le mani sull’Eni, che venne svenduta. Il gruppo Rothschild ebbe un ruolo preminente anche sulle altre privatizzazioni, compresa quella della Banca d’Italia. C’erano stretti legami fra il Quantum Fund di George Soros e i Rothschild. Ma anche numerosi altri membri dell’élite finanziaria anglo-americana, come Alfred Hartmann e Georges C. Karlweis, furono coinvolti nei processi di privatizzazione delle aziende e della Banca d’Italia. La Rothschild Italia Spa, filiale di Milano della Rothschild & Sons di Londra, venne creata nel 1989, sotto la direzione di Richard Katz. Quest’ultimo diventò direttore del Quantum Fund di Soros nel periodo delle speculazioni a danno della lira. Soros era stato incaricato dai Rothschild di attuare una serie di speculazioni contro la sterlina, il marco e la lira, per destabilizzare il Sistema Monetario Europeo. Sempre per conto degli stessi committenti, egli fece diverse speculazioni contro le monete di alcuni paesi asiatici, come l’Indonesia e la Malesia. Dopo la distruzione finanziaria dell’Europa e dell’Asia, Soros venne incaricato di creare una rete per la diffusione degli stupefacenti in Europa.

In seguito, i Rothschild, fedeli al loro modo di fare, cercarono di far cadere la responsabilità del crollo economico italiano su qualcun altro. Attraverso una serie di articoli pubblicati sul “Financial Times”, accusarono la Germania, sostenendo che la Bundesbank aveva attuato operazioni di aggiotaggio contro la lira. L’accusa non reggeva, perché i vantaggi del crollo della lira e della svendita delle imprese italiane andarono agli anglo-americani. La privatizzazione è stata un saccheggio, che ancora continua. Spiega Paolo Raimondi, del Movimento Solidarietà: «Abbiamo avuto anni di privatizzazione, saccheggio dell’economia produttiva e l’esplosione della bolla della finanza derivata. Questa stessa strategia di destabilizzazione riparte Giuliano Amatooggi, quando l’Europacontinentale viene nuovamente attratta, anche se non come promotrice e con prospettive ancora da definire, nel grande progetto di infrastrutture di base del Ponte di Sviluppo Eurasiatico» (da “Solidarietà”, febbraio 1996).

Qualche anno dopo la magistratura italiana procederà contro Soros, ma senza alcun successo. Nell’ottobre del 1995, il presidente del Movimento Internazionale per i Diritti Civili-Solidarietà, Paolo Raimondi, presentò un esposto alla magistratura per aprire un’inchiesta sulle attività speculative di Soros & Co, che avevano colpito la lira. L’attacco speculativo aveva permesso a Soros di impossessarsi di 15.000 miliardi di lire. Per contrastare l’attacco, l’allora governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, bruciò inutilmente 48 miliardi di dollari. Su Soros indagarono le procure della Repubblica di Roma e di Napoli, che fecero luce anche sulle attività della Banca d’Italia nel periodo del crollo della lira. Soros venne accusato di aggiotaggio e insider trading, avendo utilizzato informazioni riservate che gli permettevano di speculare con sicurezza e di anticipare movimenti su titoli, cambi e valori delle monete.

Spiegano il presidente e il segretario generale del Movimento Internazionale per i Diritti Civili – Solidarietà, durante l’esposto contro Soros: «È stata annotata nel 1991 l’esistenza di un contatto molto stretto e particolare del signor Soros con Gerald Carrigan, presidente della Federal Reserve Bank di New York, che fa parte dell’apparato della banca centrale americana, luogo di massima circolazione di informazioni economiche riservate, il quale, stranamente, una volta dimessosi da questo posto, venne poi immediatamente assunto a tempo pieno dalla finanziaria Goldman Sachs & co. come presidente dei consiglieri internazionali. La Goldman Sachs è uno dei centri della grande speculazione sui derivati e sulle monete a livello mondiale. La Goldman Sachs è anche coinvolta in modo diretto nella politica delle privatizzazioni in Italia. In Italia inoltre, il signor Soros conta sulla strettissima collaborazione del signor Isidoro Albertini, ex presidente degli agenti di cambio della Borsa di Milano e Carlo Azeglio Ciampiattuale presidente della Albertini e co. Sim di Milano, una delle ditte guida nel settore speculativo dei derivati. Albertini è membro del consiglio di amministrazione del Quantum Fund di Soros».

«L’attacco speculativo contro la lira del settembre 1992 era stato preceduto e preparato dal famoso incontro del 2 giugno 1992 sullo yacht Britannia della regina Elisabetta II d’Inghilterra, dove i massimi rappresentanti della finanza internazionale, soprattutto britannica, impegnati nella grande speculazione dei derivati, come la S. G. Warburg, la Barings e simili, si incontrarono con la controparte italiana guidata da Mario Draghi, direttore generale del ministero del Tesoro, e dal futuro ministro Beniamino Andreatta, per pianificare la privatizzazione dell’industria di Stato italiana. A seguito dell’attacco speculativo contro la lira e della sua immediata svalutazione del 30%, codesta privatizzazione sarebbe stata fatta a prezzi stracciati, a beneficio della grande finanza internazionale e a discapito degli interessi dello stato italiano e dell’economia nazionale e dell’occupazione. Stranamente, gli stessi partecipanti all’incontro del Britannia avevano già ottenuto l’autorizzazione da parte di uomini di governo come Mario Draghi, di studiare e programmare le privatizzazioni stesse. Qui ci si riferisce per esempio alla Warburg, alla Morgan Stanley, solo per fare due tra gli esempi più noti. L’agenzia stampa “Eir” (Executive Intelligence Review) ha denunciato pubblicamente questa sordida operazione alla fine del 1992 provocando una serie di interpellanze parlamentari e di discussioni politiche che hanno avuto il merito di mettere in discussione l’intero procedimento, alquanto singolare, di privatizzazione» (dall’esposto della magistratura contro George Soros presentato dal Movimento Solidarietà al procuratore della Repubblica di Milano il 27 ottobre 1995).

I complici italiani furono il ministro del Tesoro Piero Barucci, l’allora direttore di Bankitalia Lamberto Dini e l’allora governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi. Altre responsabilità vanno all’allora capo del governo Giuliano Amato e al direttore generale del Tesoro Mario Draghi. Alcune autorità italiane (come Dini) fecero il doppio gioco: denunciavano i pericoli ma in segreto appoggiavano gli speculatori. Amato aveva costretto i sindacati ad accettare un accordo salariale non conveniente ai lavoratori, per la «necessità di rimanere nel Sistema Monetario Europeo», pur sapendo che l’Italia ne sarebbe uscita a causa delle imminenti speculazioni. Gli attacchi all’economia italiana andarono avanti per tutti gli anni Novanta, fino a quando il sistema economico-finanziario italiano non cadde sotto il completo controllo dell’élite. Nel gennaio del 1996, nel rapporto semestrale sulla politica informativa e della sicurezza, il presidente del Consiglio Lamberto Dini disse: «I mercati valutari e le Borse delle principali piazze mondiali continuano a registrare correnti speculative ai danni della nostra moneta, originate, specie in passaggi delicati della vita politico-istituzionale, dalla diffusione incontrollata di notizie infondate riguardanti la compagine governativa e da anticipazioni di dati oggetto delle periodiche comunicazioni sui prezzi al consumo… è possibile attendersi la reiterazione di manovre speculative fraudolente, considerato il persistere di una fase congiunturale Lamberto Diniinterna e le scadenze dell’unificazione monetaria» (Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica, Rivista N. 4, gennaio-aprile 1996).

Il giorno dopo, il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, riferiva che l’Italia non poteva far nulla contro le correnti speculative sui mercati dei cambi, perché «se le banche di emissione tentano di far cambiare direzione o di fermare il vento (delle operazioni finanziarie) non ce la fanno per la dimensione delle masse in movimento sui mercati rispetto alla loro capacità di fuoco». Le nostre autorità denunciavano il potere dell’élite internazionale, ma gettavano la spugna, ritenendo inevitabili quegli eventi. Era in gioco il futuro economico-finanziario del paese, ma nessuna autorità italiana pensava di poter fare qualcosa contro gli attacchi destabilizzanti dell’élite anglo-americana. Il Movimento Solidarietà fu l’unico a denunciare quello che stava effettivamente accadendo, additando i veri responsabili del crollo dell’economia italiana. Il 28 giugno 1993, il Movimento Solidarietà svolse una conferenza a Milano, in cui rese nota a tutti la riunione sul Britannia e quello che ne era derivato (“Solidarietà”, ottobre 1993). Il 6 novembre 1993, l’allora presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi, scrisse una lettera al procuratore capo della Repubblica di Roma, Vittorio Mele, per avviare «le procedure relative al delitto previsto all’art. 501 del codice penale (“Rialzo e ribasso fraudolento di prezzi sul pubblico mercato o nelle borse di commercio”), considerato nell’ipotesi delle aggravanti in esso contenute».

Anche a Ciampi era evidente il reato di aggiotaggio da parte di Soros, che aveva operato contro la lira e i titoli quotati in Borsa delle nostre aziende. Anche negli anni successivi avvennero altre privatizzazioni, senza regole precise e a prezzi di favore. Che stesse cambiando qualcosa, gli italiani lo capivano dal cambio di nome delle aziende, la Sip era diventata Telecom Italia e le Ferrovie dello Stato erano diventate Trenitalia. Il decreto legislativo 79/99 avrebbe permesso la privatizzazione delle aziende energetiche. Nel settore del gas e dell’elettricità apparvero numerose aziende private, oggi circa 300. Dal 24 febbraio del 1998, anche le Poste Italiane diventarono una Spa. In seguito alla privatizzazione delle Poste, i costi postali sono aumentati a dismisura e i lavoratori postali vengono assunti con contratti precari. Oltre 400 uffici postali sono stati chiusi, e quelli rimasti aperti appaiono come luoghi di vendita più che di servizio. Le nostre autorità giustificavano la svendita delle privatizzazioni La famiglia Benettondicendo che si doveva «risanare il bilancio pubblico», ma non specificavano che si trattava di pagare altro denaro alle banche, in cambio di banconote che valevano come la carta straccia. A guadagnare sarebbero state soltanto le banche e i pochi imprenditori già ricchi (Benetton, Tronchetti Provera, Pirelli, Colaninno, Gnutti e pochi altri).

Si diceva che le privatizzazioni avrebbero migliorato la gestione delle aziende, ma in realtà, in tutti i casi, si sono verificati disastri di vario genere, e il rimedio è stato pagato dai cittadini italiani. Le nostre aziende sono state svendute ad imprenditori che quasi sempre agivano per conto dell’élite finanziaria, da cui ricevevano le somme per l’acquisto. La privatizzazione della Telecom avvenne nell’ottobre del 1997. Fu venduta a 11,82 miliardi di euro, ma alla fine si incassarono soltanto 7,5 miliardi. La società fu rilevata da un gruppo di imprenditori e banche, e al ministero del Tesoro rimase una quota del 3,5%. Il piano per il controllo di Telecom aveva la regia nascosta della Merril Lynch, del gruppo bancario americano Donaldson Lufkin & Jenrette e della Chase Manhattan Bank. Alla fine del 1998, il titolo aveva perso il 20% (4,33 euro). Le banche dell’élite, la Chase Manhattan e la Lehman Brothers, si fecero avanti per attuare un’Opa. Attraverso Colaninno, che ricevette finanziamenti dalla Chase Manhattan, l’Olivetti diventò proprietaria di Telecom. L’Olivetti era controllata dalla Bell, una società con sede a Lussemburgo, a sua volta controllata dalla Hopa di Emilio Gnutti e Roberto Colaninno. Il titolo, che durante l’Opa era stato fatto salire a 20 euro, nel giro un anno si dimezzò. Dopo pochi anni finirà sotto i tre euro.

Nel 2001 la Telecom si trovava in gravi difficoltà, le azioni continuavano a scendere. La Bell di Gnutti e la Unipol di Consorte decisero di vendere a Tronchetti Provera buona parte loro quota azionaria in Olivetti. Il presidente di Pirelli, finanziato dalla Jp Morgan, ottenne il controllo su Telecom, attraverso la finanziaria Olimpia, creata con la famiglia Benetton (sostenuta da Banca Intesa e Unicredit). Dopo dieci anni dalla privatizzazione della Telecom, il bilancio è disastroso sotto tutti i punti di vista: oltre 20.000 persone sono state licenziate, i titoli azionari hanno fatto perdere molto denaro ai risparmiatori, i costi per gli utenti sono aumentati e la società è in perdita. La privatizzazione, oltre che un saccheggio, veniva ad essere anche un modo per truffare i piccoli azionisti. La Telecom, come molte altre società, ha posto la sua sede in paesi esteri, per non pagare le tasse allo Stato italiano. Oltre a perdere le aziende, gli italiani sono stati privati anche degli introiti fiscali di quelle aziende. La Bell, Roberto Colaninnosocietà che controllava la Telecom Italia, aveva sede in Lussemburgo, e aveva all’interno società con sede alle isole Cayman, che, com’è noto, sono un paradiso fiscale.

Gli speculatori finanziari basano la loro attività sull’esistenza di questi paradisi fiscali, dove non è possibile ottenere informazioni nemmeno alle autorità giudiziarie. I paradisi fiscali hanno permesso agli speculatori di distruggere le economie di interi paesi, eppure i media non parlano mai di questo gravissimo problema. Mettere un’azienda importante come quella telefonica in mani private significa anche non tutelare la privacy dei cittadini, che infatti è stata più volte calpestata, com’è emerso negli ultimi anni. Anche per le altre privatizzazioni – Autostrade, Poste Italiane, Trenitalia – si sono verificate le medesime devastazioni: licenziamenti, truffe a danno dei risparmiatori, degrado del servizio, spreco di denaro pubblico, cattiva amministrazione e problemi di vario genere. La famiglia Benetton è diventata azionista di maggioranza delle Autostrade. Il contratto di privatizzazione delle Autostrade dava vantaggi soltanto agli acquirenti, facendo rimanere l’onere della manutenzione sulle spalle dei contribuenti. I Benetton hanno incassato un bel po’ di denaro grazie alla fusione di Autostrade con il gruppo spagnolo Abertis. La fusione è avvenuta con la complicità del governo Prodi, che in seguito ad un vertice con Zapatero, ha deciso di autorizzarla. Antonio Di Pietro, ministro delle infrastrutture, si era opposto, ma ha alla fine si è piegato alle proteste dell’Unione Europea e alla politica del presidente del Consiglio.

Nonostante i disastri delle privatizzazioni, le nostre autorità governative non hanno alcuna intenzione di rinazionalizzare le imprese allo sfacelo, anzi, sono disposte ad utilizzare denaro pubblico per riparare ai danni causati dai privati. La società Trenitalia è stata portata sull’orlo del fallimento. In pochi anni il servizio è diventato sempre più scadente, i treni sono sempre più sporchi, il costo dei biglietti continua a salire e risultano numerosi disservizi. A causa dei tagli al personale (ad esempio, non c’è più il secondo conducente), si sono verificati diversi incidenti (anche mortali). Nel 2006, l’amministratore delegato di Trenitalia, Mauro Moretti, si è presentato ad una audizione alla commissione lavori pubblici del Senato, per battere cassa, confessando un buco di un miliardo e settecento milioni di euro, che avrebbe potuto portare la società al fallimento. Romano ProdiNell’ottobre del 2006, il ministro dei trasporti, Alessandro Bianchi, approvò il piano di ricapitalizzazione proposto da Trenitalia. Altro denaro pubblico ad un’azienda privatizzata ridotta allo sfacelo.

Dietro tutto questo c’era l’élite economico finanziaria (Morgan, Schiff, Harriman, Kahn, Warburg, Rockfeller, Rothschild) che ha agito preparando un progetto di devastazione dell’economia italiana, e lo ha attuato valendosi di politici, di finanzieri e di imprenditori. Nascondersi è facile in un sistema in cui le banche o le società possono assumere il  controllo di altre società o banche. Questo significa che è sempre difficile capire veramente chi controlla le società privatizzate. E’ simile al gioco delle scatole cinesi, come spiega Giuseppe Turani: «Colaninno & soci controllano al 51% la Hopa, che controlla il 56,6% della Bell, che controlla il 13,9% della Olivetti, che controlla il 70% della Tecnost, che controlla il 52% della Telecom» (“La Repubblica”, 5 settembre 1999). Numerose aziende di imprenditori italiani sono state distrutte dal sistema dei mercati finanziari, ad esempio la Cirio e la Parmalat. Queste aziende hanno truffato i risparmiatori vendendo obbligazioni societarie (bond) con un alto margine di rischio. La Parmalat emise bond per un valore di 7 miliardi di euro, e allo stesso tempo attuò operazioni finanziarie speculative e si indebitò. Per non far scendere il valore delle azioni (e per venderne altre) truccava i bilanci.

Le banche nazionali e internazionali sostenevano la situazione perché per loro vantaggiosa, e l’agenzia di rating “Standard & Poor’s” si è decisa a declassare la Parmalat soltanto quando la truffa era ormai nota a tutti. I risparmiatori truffati hanno avviato una procedura giudiziaria contro Calisto Tanzi, Fausto Tonna, Coloniale Spa (società della famiglia Tanzi), Citigroup Inc. (società finanziaria americana), Buconero Llc (società che faceva capo a Citigroup), Zini & Associates (una compagnia finanziaria americana), Deloitte Touche Tohmatsu (organizzazione che forniva consulenza e servizi professionali), Deloitte & Touche Spa (società di revisione contabile), Grant Thornton International (società di consulenza finanziaria) e Grant Thornton Spa (società incaricata della revisione contabile del sottogruppo Parmalat Spa). La Cirio era gestita dalla Cragnotti & Partners. I “Partners” non erano altro che una serie di banche nazionali e internazionali. La Cirio emise bond per circa 1.125 milioni di Sergio Cragnottieuro. Molte di queste obbligazioni venivano utilizzate dalle banche per spillare denaro ai piccoli risparmiatori. Tutto questo avveniva in perfetta armonia col sistema finanziario, che non offre garanzie di onestà e di trasparenza.

Grazie alle privatizzazioni, un gruppo ristretto di ricchi italiani ha acquisito somme enormi, e ha permesso all’élite economico-finanziaria anglo-americana di esercitare un pesante controllo, sui cittadini, sulla politica e sul paese intero. Agli italiani venne dato il contentino di Mani Pulite, che si risolse con numerose assoluzioni e qualche condanna a pochi anni di carcere. A causa delle privatizzazioni e del controllo da parte della Banca Centrale Europea, il paese è più povero e deve pagare somme molto alte per il debito. Ogni anno viene varata la finanziaria, allo scopo di pagare le banche e di partecipare al finanziamento delle loro guerre. Mentre la povertà aumenta, come la disoccupazione, il lavoro precario, il degrado e il potere della mafia. Il nostro paese è oggi controllato da un gruppo di persone, che impongono, attraverso istituti propagandati come “autorevoli” (Fondo Monetario Internazionale e Banca Centrale Europea), di tagliare la spesa pubblica, di privatizzare quello che ancora rimane e di attuare politiche non convenienti alla popolazione italiana. I nostri governi operano nell’interesse di questa élite, e non in quello del paese.

(Antonella Randazzo, “Come è stata svenduta l’Italia”, da “Disinformazione.it” del 12 marzo 2007. La Randazzo ha scritto libri come “Roma Predona. Il colonialismo italiano in Africa”, edito da Kaos nel 2006, “La Nuova Democrazia. Illusioni di civiltà nell’era dell’egemonia Usa” edito nel 2007 da Zambon e “Dittature. La storia occulta”, pubblicata da “Il Nuovo Mondo”, nel 2007).

Fonte: libreidee.org (qui)

Politica

Forza Italia, la Gelmini a Salvini: “Esci dall’alleanza innaturale con i 5 stelle e torna con noi. Vinciamo insieme”. L’appello prima del tramonto del movimento azzurro.

“A Matteo Salvini dico: esci da questa alleanza innaturale con i 5 Stelle e torna con il centrodestra, che vinciamo insieme. Il Paese non può più aspettare”. Maria Stella Gelmini, capogruppo di Forza Italia alla Camera dei deputati, intervistata da Il Tempo si è rivolta direttamente al leader del Carroccio e ministro dell’Interno e ha chiesto di ricomporre la coalizione. “Noi crediamo”, ha detto, “che quella formula con cui governiamo con la Lega regioni e comuni sia garanzia di buona politica e di buon governo. Chiediamo a Salvini di uscire da un’alleanza innaturale, da quello che riteniamo un governo di emergenza dove le risposte stentano ad emergere. E quando ci sono, sono sbagliate: penso al primo decreto Di Maio sul lavoro, preso malissimo da imprenditori e artigiani che sono la base del centrodestra, per arrivare poi al tema dell’Iva, della Tav e al resto. Fanno una gran fatica a dare le risposte giuste, e io chiedo a Salvini di uscire e tornare nel centrodestra”.

L’uscita della capogruppo forzista alla Camera segue la solidarietà del leader azzurro Silvio Berlusconi nei confronti di Matteo Salvini dopo essere stato inquisito dalla procura di Agrigento in relazione ai fatti della nave Diciotti. Ma sintomatica la risposta del Segretario della Lega che ringrazia, ma aggiunge: “Mi dispiace solo che il suo partito [Forza Italia n.d.r.] è schiacciato troppo sulle posizioni del Partito democratico, e questo è un problema”.

E’ chiara l’ennesima offerta di collaborazione di Forza Italia dopo l’annunciata corsa solitaria della Lega alle prossime elezioni regionali che si terranno in Abruzzo. E probabilmente tale posizione potrebbe ripetersi per le altre elezioni regionali autunnali quelle del Trentino-Alto adige e del Molise. Un’offerta che cerca di tenere stretto un alleato, la Lega, sempre più prevalente in termini elettorali e sempre più coinvolto nell’azione di governo con il Movimento 5 Stelle.

Lega e Forza Italia, se sul territorio continuano ad amministrare insieme, a livello nazionale sono divisi tra governo e opposizione. Una situazione che per alcuni è destinata ad essere temporanea, ma che per altri potrebbe durare ancora a lungo (soprattutto alla luce dell’aumento dei consensi del Carroccio). A inizio agosto ad esempio ha fatto discutere l’annuncio della Lega di correre da sola alle Regionali in Abruzzo. Oggi, dopo settimane di silenzio sul tema, è intervenuta la Gelmini: “Più il tempo passa”, ha detto, “e più il rischio che una alleanza gialloverde da d’emergenza e innaturale diventi sistemica ci può essere ma questo, le ripeto, andrebbe chiesto a Salvini. Per Forza Italia l`unica alternativa credibile alle chiacchiere Pd ed ai 5 Stelle è l’alleanza di centrodestra. A Salvini dico: esci da questa alleanza innaturale con i 5 Stelle e torna con il centrodestra, che vinciamo insieme. Il Paese non può più aspettare”.

Ecco dunque che Forza Italia teme l’annessione di fatto da parte della Lega di tutto lo spazio elettorale del centrodestra riducendo alla marginalità non solo il partito azzurro, ma anche Fratelli d’Italia. L’appello dell’On. Gelmini, inoltre, evidenzia una grossolana mancanza. Non vi è alcun riferimento ad una autocritica, non si legge alcuna iniziativa, seppur timida di rinnovamento e di nuova leadership. Sembra più l’appello di un gruppo dirigente che costituisce il cerchio magico del vecchio leader, che si rende conto del tramonto del movimento politico e che cerca uno spazio nella terza repubblica.

Fonte: ilfattoquotidiano.it (qui). Commento di Massimo Gelmini.

Politica

Veneziani: “Difendere l’Italia è reato”

Povera Italia, schiacciata nella morsa tra l’Europa e i migranti. E al suo interno un cavallo di Troia che apre le porte e i porti per consentire l’invasione. Accompagnato da una martellante campagna a senso unico, su tutte le ruote. È scesa in campo pure l’artiglieria pesante dei magistrati e dei loro fiancheggiatori con una campagna intimidatoria in cui minacciano di perseguire chi si oppone agli sbarchi configurando reati come il sequestro di persona e perfino di omicidio volontario nel caso qualcuno perda la vita prima di sbarcare in Italia (come scrive ad esempio il magistrato pd Gianrico Carofiglio). Come se i 150 migranti fermi a Catania siano stati rapiti o portati con l’inganno dal governo italiano e poi privati della loro libertà e costretti a stare sulla nave… L’accusato numero uno, naturalmente, è Matteo Salvini che ha un mezzo sostegno di Di Maio per ragioni di contratto e di opportunità politica ma poi ha tutti gli altri contro. Sono dalla sua parte gli italiani, in maggioranza, ma non contano nulla.

La Costituzione è usata come un’arma, un corpo contundente per colpire l’avversario. Viene agitata come il libretto rosso di Mao. Sarebbe facile obiettare che la Costituzione sancisce la difesa dei confini nazionali e la tutela dei cittadini italiani, e non prevede che si possa entrare nel nostro paese clandestinamente, ovvero senza i requisiti legali per entrarvi. Ma la legalità, per certi giudici come per tanti giustizialisti, va a farsi fottere quando si tratta di migranti e di nemici politici. La Costituzione si occupa dell’Italia, del popolo italiano e dei suoi ordinamenti, e non del mondo intero. Gli altri paesi chiudono le frontiere mentre se lo facciamo noi diventiamo nemici dell’umanità. Ma noi non possiamo caricarci sulle spalle il mondo, se lo facciamo sfasciamo l’Italia, non salviamo l’umanità.

Vedi personaggi come la Bonino, che hanno procurato migliaia di aborti, che chiedono di denunciare Salvini alla corte dei diritti umani. Vedi fior di canaglie, mafiosi, cocainomani inveire insieme a preti, magistrati, sinistresi e sindacalisti, in questa campagna terroristica per far sbarcare i migranti in Italia senza attendere che l’Europa decida di smistarli in più paesi. La tv manda in onda solo la voce di questi ultimi. Dall’altra parte, il popolo italiano vede in tv queste ondate di migranti, li vede pregare compatti sulla nave nel segno dell’Islam, mentre vengono a chiedere salvezza al bastardo, cristiano e cinico Occidente. Sente dai medici e dai magistrati che hanno la scabbia, sono portatori di malattie a rischio di contagio. E sanno che quella promiscuità, quel fetore denunciato dai visitatori, quella miseria, si ripeterà poi nelle baraccopoli che si creeranno nelle nostre periferie.

Perché l’alternativa è: o ce li carichiamo noi, li ospitiamo, li vestiamo e li paghiamo, oppure quello squallore da cui provengono lo importeranno a ridosso delle nostre città. Ma tutto questo non si può dire perché l’angoscia, la paura, l’insicurezza ma anche la rabbia e il senso d’ingiustizia che tutto questo produce, viene passato per le armi, è considerato come razzismo e xenofobia e insultato, martellato, punito. Guai anche solo a porsi la domanda se l’obbligo dei vaccini dipenda anche dall’arrivo di portatori di queste malattie che erano state debellate da tempo in Italia. Cosa ci resta da fare? Il blocco navale sarebbe la soluzione migliore, che va alle radici ed evita gli imbarchi, il traffico di umani e la speculazione di tanti sulla loro pelle; ma non può imporlo il ministro dell’interno. Dovrebbe essere concertato a livello europeo, promosso dal Capo dello Stato, dal Ministero della Difesa, dai vertici delle Forze Armate, magari col via libero della Nato. Dunque è praticamente impossibile.

La sensazione è d’impotenza e di assoluto sconforto. Eppure sappiamo che stanno liquidando la nostra civiltà, il nostro Paese, la nostra vita, in questo delirio di autodistruzione travestito da pulsione umanitaria.

Proviamo a salire più in alto e a dare una spiegazione meno contingente a quel che sta succedendo. Sta avvenendo una rivoluzione dalle implicazioni catastrofiche. Stanno imponendo l’idea che non esistono più confini tra stati, popoli, sessi, civiltà, legalità, diritti, desideri. Chiunque è libero di fare, disfare, andare a vivere dove vuole, nulla può impedirlo. E chiunque invochi il senso del limite, della misura, della frontiera, della responsabilità va considerato un delinquente e se cerca di far valere le leggi e le misure, va processato per crimini contro l’umanità.

Stiamo in un momento in cui o avviene un ravvedimento, un ritorno alla realtà, o quantomeno un confronto civile tra posizioni diverse che non si demonizzano a vicenda ma cercano una soluzione. Oppure si va verso abissi di guerra civile, scontri immani, e la frattura tra potentati e popoli diventerà un baratro. Oggi la difesa dell’Italia e degli italiani è considerata un reato in territorio italiano…

Fonte: marcelloveneziani.com (qui), Il Tempo 25 agosto 2018

Vaticano

Pedofilia, attacco a Francesco dall’ex nunzio. Il Papa: “Giudicate voi”

Le parole del pontefice di ritorno da Dublino: Credo che il documento di Viganò parli da sé. Avete la capacità giornalistica per fare le conclusioni. È un atto di fiducia in voi” E sul caso Diciotti: “Non c’è il mio zampino. Accogliere è un principio morale vecchio come la Bibbia. Ma non si può accogliere alle belle étoile, ma in modo ragionevole, con prudenza”

DAL VOLO PAPALE DUBLINO-ROMA – Di ritorno dal IX Incontro Mondiale delle Famiglie a Dublino (il prossimo sarà a Roma nel 2021), Francesco parla coi giornalisti sull’aereo della Aer Lingus dei migranti della Diciotti accolti dalla Cei – “non ho messo lo zampino, serve apertura di cuore e integrazione” – di pedofilia e delle accuse mossegli dall’ex nunzio a Washington Carlo Maria Viganò, che ieri sui media è arrivato a chiedere le dimissioni del Papa insieme “ai cardinali e ai vescovi che hanno coperto gli abusi dell’ex arcivescovo di Washington Theodore Edgar McCarrick”. Viganò dice di aver informato di questi episodi il Pontefice già nel giugno 2013, senza però ricevere, secondo la sua versione, alcuna risposta da Francesco, anche se “non poteva non sapere”.

Cosa pensa del dossier pubblicato dall’ex nunzio Viganò?

“L’ho letto questa mattina. Devo dirvi questo: leggete voi attentamente e fatevi un giudizio. Non dirò una parola su questo. Credo che il comunicato parli da sé. Avete la capacità giornalistica per fare le conclusioni. È un atto di fiducia in voi. Vorrei che la vostra maturità professionale facesse questo lavoro”.

Pedofilia, attacco a Francesco dall’ex nunzio Viganò. Il Papa: ”Leggete e giudicate voi”

Ieri si è risolta la vicenda della nave Diciotti: c’è il suo zampino dietro la soluzione?

“Non ho messo lo zampino. Quello che ha fatto il lavoro col ministro dell’Interno è stato padre Aldo Bonaiuto della Comunità di don Benzi e insieme la conferenza episcopale italiana. Il cardinale Gualtiero Bassetti ha guidato al telefono da qui. Ha negoziato col ministro il sottosegretario don Ivan Maffeis. I migranti andranno a Rocca di Papa nella comunità del Mondo Migliore”.

In tanti vedono un ricatto all’Europa sulla pelle di questa gente?

“Accogliere è un principio morale vecchio come la Bibbia. Ma non si può accogliere alle belle étoile, ma in modo ragionevole, con prudenza. Ho capito questa cosa con l’attentato in Belgio. L’hanno fatto i figli di immigrati che erano stati ghettizzati. Un popolo che può ricevere ma non può integrare è meglio che non riceva”.

L’accoglienza del migrante è sempre una sfida. Come agire?

“Apertura del cuore, integrazione e poi prudenza. Ho visto un filmato clandestino su cosa succede ai migranti che sono rimandati indietro e ripresi dai trafficanti. Un filmato doloroso per le cose che fanno agli uomini. Fanno loro le torture più sofisticate”.

La vittima di abusi Marie Collins ha detto che lei non è favorevole all’istituzione di un tribunale ad hoc per giudicare i vescovi insabbiatori di abusi. Perché?

“Non è così. Marie Collins – che stimo tanto – è fissata sull’idea contenuta nel Motu proprio “Come una madre amorevole” secondo cui per giudicare i vescovi sarebbe bene si facesse un tribunale speciale. Credo non sia conveniente un unico tribunale a motivo delle differenti culture dei vescovi. L’indicazione si può soddisfare con l’istituzione di una giuria per ogni vescovo. Così abbiamo fatto finora. Sono stati giudicati parecchi vescovi, l’ultimo quello di Guam. Un caso difficile che ho deciso di seguire personalmente. Le evidenze che hanno portato alla prima condanna sono chiarissime”.

Cosa è uscito dall’incontro di ieri con le vittime di pedofilia?

“La proposta di chiedere perdono nella messa di oggi – ieri per chi legge – su cose concrete. Ad esempio per le madri che quando rimanevano incinta fuori dal matrimonio andavano in un istituto religioso e le suore davano il loro bambino in adozione. Dicevano loro che era peccato mortale cercare i figli. Per questo nella preghiera ho detto che non è peccato mortale”.

C’è chi chiede le dimissioni del cardinale Philippe Barbarin di Lione, sospettato di aver coperto abusi.

“Se ci sono sospetti, prive o mezze prove, non vedo niente di cattivo nel fare un’indagine, sempre che si faccia col principio che nessuno è colpevole senza prova. Tante volte c’è la tentazione di pubblicare che è stata fatta un’indagine per dire subito chi è colpevole. Tre anni fa iniziò a Granada il problema dei cosiddetti preti pedofili, una decina accusati di abusi su minori e di fare orge. L’accusa l’ho ricevuta io tramite una lettera fatta da un giovane 23enne che lavorava in un collegio religioso e che sosteneva di essere stato abusato. I media del posto hanno scritto che erano pedofili. Tutti pensavano che fossero criminali. Tre in particolare sono rimasti in carcere 5 giorni. Hanno sofferto per tre anni e più l’odio, gli schiaffi di tutto il popolo, umiliazioni. Dopo 3 anni la giuria li ha dichiarati innocenti e colpevole chi ha denunciato. Per questo il vostro lavoro è molto delicato. Dovete dire le cose, ma sempre con la presunzione di innocenza”.

Che cosa vorrebbe dire a un padre che ha un figlio omosessuale? Cosa pensa dell’approvazione in Irlanda di una legge che permette l’aborto?

“Non siamo contro l’aborto per la religione. È un problema umano e va studiato dall’antropologia. Ci sono sempre state persone con tendenze omosessuali. A un padre direi di pregare, di non condannare, di dialogare, di fare spazio al figlio e alla figlia perché si esprima. In quale età si manifesta questa inquietudine? Una cosa è se si manifesta da bambini: ci sono tante cosa da fare con la psichiatria. Un’altra è se si manifesta dopo i vent’anni. Il silenzio non è un rimedio. Ignorare un figlio con tendenza omosessuale è una mancanza di paternità o maternità”.

Figli gay, papa Francesco ai genitori: ”Non condannate, ma accogliete e dialogate”

Lei ha detto in queste ore di essere stato colpito dalle parole del ministro per l’infanzia Katherine Zappone sulle Case per Madri e Bambini? Cosa le ha detto?

“Mi ha detto: “Santo Padre, abbiamo trovato fosse comuni di bambini, sotterrati, stiamo facendo delle indagini, e la Chiesa ha qualcosa a che fare con tutto ciò”. Mi ha detto questa cosa con educazione e rispetto. L’ho ringraziata. Mi ha toccato il cuore. Mi ha inviato un memo che devo ancora studiare”.

Fonte: huffingtonpost.it