Cultura, Innovazione

La previsione di Isaac Asimov per il 2019, fatta 35 anni fa

Al grande scrittore di fantascienza e divulgatore scientifico fu chiesto dal Toronto Star di immaginare l’anno che che sta per iniziare. Con alcune incredibili intuizioni.

Il 31 dicembre del 1983, Isaac Asimov raccontò sulle pagine del Toronto Star come sarebbe stato il mondo nel 2019. Al più grande scrittore di fantascienza (ma non dimentichiamo che fu anche un notevolissimo divulgatore scientifico) non fu affidata una data casuale.

Il quotidiano canadese, in all’interno di un progetto più ampio, lo invitò a ripercorrere quello che, in forma di romanzo, aveva fatto George Orwell con 1984, pubblicato nel 1949. Ad Asimov l’idea piacque così tanto che chiese un compendo assai contenuto: un dollaro a parola.

Le domande da cui partire, del resto, erano molto semplici. Come sarà il mondo tra 35 anni? Basterà una generazione a produrre quelle innovazioni capaci di modificare la vita sul nostro pianeta? Avremo conquistato lo spazio?

La guerra e la sopravvivenza

Per Asimov, che allora aveva 63 anni, per arrivare a delineare il mondo del futuro bisognava seguire tre direttrici principali:

  • Una possibile guerra nucleare
  • Una computerizzazione spinta
  • Un largo e futuristico utilizzo dello Spazio

Nel 1983 il destino del mondo era nelle mani degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. La prima considerazione che lo scrittore fece, non a caso era russo d’origini ma americano d’adozione, fu quella di una possibile guerra nucleare che avrebbe cancellato ogni discorso. Nessun futuro, punto e a capo. Nel 2019 non ci saremmo neanche arrivati.

Se invece, come è accaduto, fossimo stati in grado di evitare questa tragica e apocalittica fine, saremmo ripartiti dalla tecnologia, dall’innovazione e dai progressi fatti grazie allo sviluppo dei computer. Per Asimov, 35 anni dopo, l’informatizzazione già importantissima per governi e nazioni, sarebbe diventata ancora più essenziale per ciascuno di noi, nella nostra quotidianità professionale e domestica.

I robot e il lavoro

Asimov aveva previsto che l’effetto più ingombrante portato dalla tecnologia sarebbe stato quello di cambiare le nostre abitudini lavorative. Partendo però da un punto molto chiaro: “Tutto ciò non significherà un minor numero di posti disponibili. Il progresso tecnologico, in passato, ha sempre creato più lavoro di quello che ha distrutto e non c’è motivo per pensare il contrario anche nel 2019”. Nuove professioni, quelle del suo futuro e del nostro presente, che avrebbero determinato il cambiamento “più radicale” di sempre.

I lavori che per Asimov avremmo abbandonato sarebbero stati quelli caratterizzati da una continua ripetitività. Quelli da catena di montaggio e da eseguire senza particolari sforzi mentali. Con, in questo campo, un ineluttabile sopravvento dei robot e dai computer. Gli uomini del 2019, quindi, si sarebbero occupati della progettazione, della fabbricazione, dell’installazione, della manutenzione, della riparazione e della comprensione di quelle macchine intelligenti e dei settori in cui avrebbero operato. A pensarci bene, insomma, una visione espressa più volte nei suoi libri.

L’istruzione e le nuove competenze

Per Asimov, dunque, nel 2019 sarebbe stato ovvio prevedere una netta metamorfosi nell’istruzione dei giovani, anch’essa trasmessa attraverso nuovi supporti tecnologici. Giovani che sarebbero stati preparati per questi compiti. “Le mani che usiamo in ambito agricolo possono svolgere il loro lavoro senza sapere né leggere, né scrivere. I dipendenti delle aziende del futuro, invece, non potranno prescindere dall’apprendere certe informazioni e dall’applicarle ogni giorno”. Ci aveva visto giusto ma, allo stesso tempo, almeno in Italia, ci aveva forse sopravvalutato.

Se resti indietro sei spacciato

Asimov aveva però capito quanto avrebbe influito l’elemento della velocità in questa transizione. Nell’articolo, infatti, parla di “milioni di inesperti e inadatti che si troveranno impotenti a fare i lavori che dovranno essere comunque fatti”. Una selezione naturale, che neanche Darwin sarebbe stato in grado di immaginare, entro il 2019: da una parte ci sarebbero stati quelli capaci di riqualificarsi; dall’altra quelli incapaci di adattarsi a una società costretta, a malincuore, ad aiutarli (decidete voi se fare collegamenti con misure come il reddito di cittadinanza o i sussidi di disoccupazione).

Il mondo “problematico” del futuro

Per lo scrittore americano, tuttavia, questa generazione di transizione era destinata estinguersi per lasciare spazio a quella successiva, nata nel nuovo millennio. L’unica davvero compatibile con un mondo ormai in perpetuo divenire. Asimov prova perciò a mettere in fila le criticità che l’umanità avrebbe dovuto affrontare in questa fase di transizione immaginando, forse attraverso una visione un po’ utopistica, il superamento di alcune fondamentali controversie.

  • Uno: il controllo delle nascite. Una popolazione sempre in aumento avrebbe costretto i governi, a fatica, a favorire una bassa natalità e ad individuare un tetto massimo da non superare.
  • Due: l’irresponsabilità umana nell’inquinare e produrre rifiuti. Le conseguenze, nel 2019, per Asimov sarebbero state sempre più evidenti e insopportabili. “Si spera che i i progressi tecnologici porteranno strumenti in grado di invertire questo processo”.
  • Tre: la conservazione della pace (o almeno della serenità tra i popoli). L’odio, il sospetto, le liti tra gli Stati sono identificati come minacce per il futuro del pianeta.

Per l’intellettuale, però, avrebbero giocoforza determinato una crescente e necessaria cooperazione tra le nazioni. Non per idealismo, certo, ma per una presa di coscienza, a sangue freddo, che non marciare verso questa direzione “significherebbe una futura distruzione per tutti. Entro il 2019, potrebbe succedere che le nazioni andranno abbastanza d’accordo per permettere al Pianeta di vivere sotto la parvenza di un governo mondiale”. Quel condizionale, a legger bene, diceva già tutto.

La scuola del 2019 e la libertà di conoscere

La vera rivoluzione del 2019, per Asimov, è legata al mondo della conoscenza. Un buon insegnante, in epoca moderna, non dà informazioni ai propri alunni ma instilla la curiosità e la sete di conoscenza. Le nozioni arrivano grazie al computer, direttamente da casa. “Ci sarà finalmente l’opportunità per ogni giovane di imparare ciò che egli più desidera a modo suo, con i suoi tempi e la velocità di cui ha bisogno”. L’educazione, improntata sulla scoperta, “sarà divertente perché risplenderà all’interno di ogni animo e non sarà forzata dall’esterno”. I computer e i robot, secondo Asimov, faranno sì che il mondo sembrerà “correre da solo” e noi “avremo molto tempo libero per dedicarci alle nostre passioni”.

L’utilizzo dello spazio e la nuova conquista della luna

Per uno scrittore l’universo è un mondo ricco di fascino. Per un visionario è una soluzione ai nostri problemi. Asimov era un grande creatore di storie e un incredibile, lo si legge anche da queste righe, lettore del futuro. Conquistare lo spazio voleva dire, oltre trovare un altro luogo da esplorare e un teatro dove fare nuove guerre, costruire una nuova casa per l’umanità. “Con i razzi e le navette daremo vita a una stazione spaziale da cui getteremo le basi per rendere lo spazio una casa permanente per il futuro crescente numero di essere umani”.

L’autore delle tre leggi della robotica dava per scontato, nel 1983, che trentacinque anni dopo saremmo ritornati a passeggiare sul suolo lunare. Avremmo costruito una stazione per studiare il suolo del satellite e per usarlo come materiale per sviluppare altre colonie spaziali da collocare in orbita e attorno alla Terra. “Sarà un prototipo di una centrale elettrica solare attrezzata per raccogliere energia, trasformarla e inviarla sul nostro Pianeta”. Il primo passo di una rivoluzione energetica che avrebbe portato pace e serenità. Il punto di partenza per una rivoluzione industriale planetaria e per vincere l’annoso problema dello smaltimento dei rifiuti: “La Terra sarà in grado di liberarsi dagli effetti collaterali dell’industrializzazione. Le fabbriche se ne andranno, non lontano, solo a poche miglia verso l’alto”.

Insomma, nel 2019, avremmo pianificato tutto questo immaginandoci un futuro da realizzare tutti insieme. Perché se rileggendo l’articolo sembra davvero di essere piombati all’interno di un suo libro di fantascienza, Asimov sapeva che “anche se il mondo del 2019 sarà diverso da quello del 1984, sarà anch’esso solo un barometro dei cambiamenti che saranno pianificati per gli anni a venire”. Il modo più bello per immaginarsi il futuro è quello di poterlo immaginare.

Fonte: agi.it (qui)

Ma chi è Issac Asimov?

Isaac Asimov è morto il 6 aprile del 1992, scienziato e scrittore, padre della fantascienza che con i suoi libri è riuscito a dipingere scenari futuristici così lungimiranti da essersi (in parte) realizzati oggi.
Le sue idee sul futuro, dunque, in alcuni casi si sono rivelate delle vere e proprie profezie ed è interessante rileggerle oggi, confrontandole con la realtà che abbiamo davanti.

In ogni caso, il merito di Asimov non è solo quello di averci regalato alcuni tra i libri di fantascienza più geniali e belli di sempre, ma anche di essere riuscito a far avvicinare anche le persone comuni al mondo scientifico, facendo sì che le sue opere fossero anche un mezzo di divulgazione scientifica.

Nel corso della sua vita con i suoi libri e scritti, Asimov ha parlato più volte di come secondo lui sarebbe stato il futuro e quale modo migliore per ricordarlo se non ripercorrere le sue geniali intuizioni sulla nostra epoca? Vediamo insieme cosa ha detto Asimov sul futuro.

Le recensioni dei libri di Isaac Asimov (qui)

Le profezie dei libri di Isaac Asimov sul futuro

Le parole di Asimov sul futuro (quello che per noi è ormai il presente) hanno spesso trovato conferma nei fatti perché molte delle sue intuizioni oggi sono realtà.

Le sue profezie non sono contenute solo nei suoi libri, ma anche in un suo articolopubblicato nel 1964 sul New York Times. Proprio in questo articolo lo scrittore descrisse come immaginava il XXI secolo, ma le sue previsioni erano corrette?

In molti casi sì, in altri non si sono allontanate molto dalla realtà, ma quasi sempre le sue intuizioni hanno dimostrato la sua grande lungimiranza e genialità.

Nel suo articolo Asimov parlava in particolare del 2014, anno in cui secondo lo scrittore la vita sulla terra sarebbe stata molto diversa rispetto agli anni ‘60.

Secondo lo scrittore, infatti, nel nuovo millennio i dispositivi tecnici avrebbero potuto lavorare senza fili, con batterie di lunga durata, aspetto quest’ultimo che non si è realizzata del tutto, ma che potrebbe in un futuro non molto lontano.

Inoltre, poi, sarebbe stato possibile avere dei telefoni portatili, da mettere nelle tasche e sui loro schermi sarebbe stato possibile guardare foto, leggere libri e documenti.

I film, invece, sarebbero stati proiettati in 3D e la cucina sarebbe diventata molto più semplice (diventando un hobby), come pure i lavori domestici, perché ci sarebbero stati cibi pronti, ma anche elettrodomestici automatici con timer che avrebbero facilitato la vita in casa.

Un altro aspetto considerato da Asimov è quello della durata media della vita nei paesi sviluppati, che secondo lui si sarebbe allungata fino a 85 anni, e del controllo delle nascite, che sarebbe stato molto più semplice. Ricordiamo, infatti, che all’epoca la durata media della vita era di 65 anni e c’erano anche molti problemi con la contraccezione.

E quale sarebbe stato uno dei problemi più importanti della civiltà moderna? Secondo lo scrittore, nei paesi sviluppati sarebbe stata la noia, profezia che in realtà non è distante dalla realtà. Per questo motivo, diceva Asimov, la psicologia e la psichiatria saranno molto diffuse e sviluppate, diventando professioni di prestigio.

Infine, l’uomo avrebbe creato ambienti adatti a lui, con pannelli luminosi in grado di dare vita a particolari giochi di luce, profetizzando così l’invenzione delle luci al led.

Le profezie dei libri di Isaac Asimov su robot e computer

La disumanità del computer sta nel fatto che, una volta programmato e messo in funzione, si comporta in maniera perfettamente onesta.

Tra le profezie di Asimov, molte riguardano i robot e i computer e il ruolo che avrebbero avuto nella vita dell’uomo del nuovo millennio.

Secondo lo scrittore, infatti, ci sarebbero stati dei veicoli guidati dai robot (cosa non del tutto falsa, visto che questi tipi di veicoli esistono), le navi sarebbero state molto più veloci e le macchine avrebbero fluttuato nell’aria invece di camminare a terra.

Una delle cose che Asimov aveva previsto è che nel XXI secolo molti lavori sarebbero stati svolti da macchine e robot, che avrebbero sostituito l’uomo. Anche la scuolasi sarebbe mossa in questa direzione, diventando sempre più digitale e utilizzando maggiormente supporti tecnologici ed informatici.

Inoltre, nei suoi libri aveva ipotizzato la creazione di un Multivac, un super computer in grado di governare la terra, in cui gli uomini inseriscono informazioni che vengono elaborate e a cui pongono delle domande. Computer in grado di collegare praticamente tutto il mondo (cosa vi ricorda?).

Infine, aveva anche ipotizzato che le comunicazioni sarebbero cambiate molto, offrendo la possibilità di vedersi anche a distanza.

Insomma, le profezie di Asimov hanno descritto un futuro non molto lontano da quello che viviamo oggi e anche se adesso tutto ciò può sembrare banale, all’epoca non lo era affatto.

Le sue idee, infatti, erano abbastanza visionarie e per accorgercene è sufficiente guardare a quanto è cambiata la società moderna negli ultimi 50 anni.

Le sue profezie, dunque, non fanno che confermare la genialità e la grandezza di questo uomo, capace di creare mondi allora fantascientifici e oggi quasi verosimili.

Fonte: sololibri.net (qui)

Imprese, Innovazione, Intelligenza artificiale

Robot e lavoro in Italia: le aziende dicono sì all’intelligenza artificiale

Per l’89% delle aziende i robot e l’intelligenza artificiale non potranno mai sostituire del tutto il lavoro delle persone e hanno un impatto migliorativo del lavoro.

Il 61% delle aziende italiane è pronto ad introdurre sistemi di intelligenza artificiale e robot nelle proprie organizzazioni. Solo l’11% si dichiara totalmente contrario. Tra le ragioni principali che spingo le aziende favorevoli ad introdurre tali sistemi la convinzione che il loro utilizzo rende il lavoro delle persone meno faticoso e più sicuro (93%), fa aumentare l’efficienza e la produttività (90%) e ha portato a scoperte e risultati un tempo impensabili (85%). Questi alcuni dei dati di fondo emersi dal Primo Rapporto AIDP-LABLAW 2018 a cura di DOXA su Robot, Intelligenza artificiale e lavoro in Italia, che verrà presentato a Roma domani 23 ottobre 2018 presso il CNEL.

Le aziende e i manager sono convinti a stragrande maggioranza (89%) che i robot e l’IA non potranno mai sostituire del tutto il lavoro delle persone e che avranno un impatto positivo sul mondo del lavoro e delle aziende: permetterà, infatti, di creare ruoli, funzioni, e posizioni lavorative che prima non c’erano (77%); stimolerà lo sviluppo di nuove competenze e professionalità (77%); consentirà alle persone di lavorare meno e meglio (76%). Avrà un impatto molto forte nei lavori a più basso contenuto professionale: favorirà, infatti, la sostituzione dei lavori manuali con attività di concetto (per l’81% del campione). I manager e gli imprenditori ritengono, infatti, che al di là dei benefici in termini organizzativi, l’introduzione di queste tecnologie, potrà avere effetti negativi sull’occupazione e l’esclusione dal mercato del lavoro di chi è meno scolarizzato e qualificato. In quest’ottica va letto il dato negativo sulle conseguenze in termini di perdita di posti di lavoro indicata dal 75% dei rispondenti.

Un dato di grande interesse riguarda le modalità con cui i sistemi di intelligenza artificiale e robot si sono «integrati» in azienda. Per il 56% delle aziende l’impiego di queste tecnologie è stato a supporto delle persone, a riprova che queste sono da considerarsi principalmente un’estensione delle attività umane e non una loro sostituzione. Per il 33%, inoltre, tali sistemi sono stati impiegati per svolgere attività nuove mai realizzate in precedenza. Per il 42% delle aziende, invece, l’IA e i robot hanno sostituito mansioni prima svolte da dipendenti. Questi dati confermano la rivoluzione in atto nelle organizzazioni del lavoro e nelle attività di guida di tali processi che i direttori del personale saranno chiamati a svolgere ed è questa una delle ragioni principali che ha spinto l’AIDP ad investire nella realizzazione annuale di un rapporto che fornisca dati e informazione utili a capire meglio il futuro del lavoro nell’era dei robot e dell’intelligenza artificiale.

In generale l’intelligenza artificiale e i robot migliorano molti aspetti intrinseci del lavoro dipendente perché hanno favorito una maggiore flessibilità dell’orario di lavoro in entrata e in uscita (38%); la riorganizzazione degli spazi di lavoro/uffici (35%); la promozione di servizi di benessere e welfare per i lavoratori (31%); il lavoro a distanza e smart working (26%); la riduzione dell’orario di lavoro (22%).

Le differenze tra percezione e realtà. Il Rapporto AIDP-LABLAW 2018, inoltre, ha messo a confronto l’opinione delle aziende che hanno già introdotto sistemi di Robot e intelligenza artificiale con quelle che non lo hanno ancora fatto. Le differenza principali che emergono riguarda l’atteggiamento verso queste tecnologie: molto positivo (75%) da parte delle aziende robotizzate, meno positivo (47%) per le aziende non robotizzate. In generale le aziende che non hanno introdotto sistemi di Robot e IA tendono a «sovrastimare» una serie di conseguenze negative che la pratica delle aziende robotizzate, invece, smentisce nei fatti. C’è quindi un tema di percezione delle criticità legate all’introduzione di queste tecnologie eccessivamente elevata rispetto alla condizione reale delle aziende chi le utilizza che al contrario, evidenzia soprattutto gli aspetti positivi.

«I risultati della ricerca, fanno capire che la digitalizzazione non è mai solo una questione tecnologica ma strategica – spiegaIsabella Covili Faggioli, Presidente AIDP -. C’è sempre più la consapevolezza che a nulla serviranno le tecnologie se non ci riappropriamo del pensiero che nulla succede se le persone no lo fano accadere e che sono le persone che fanno la differenza, sempre e comunque, ottimizzando le innovazioni e dando loro il ruolo che hanno, un ruolo di supporto e di miglioramento della qualità della vita. Sono tre secoli che il rapporto uomo macchina è complicato perché basato sulla paura. Paura che le macchine, in questo caso i robot, sostituiranno le persone mentre si è poi sempre verificato che è solo migliorata la qualità della vita e che si sono venute a creare nuove professionalità.» 

«A fronte dei risultati della ricerca AIDP-LABLAW emerge chiaramente un tema di nuove relazioni industriali, di nuovi rapporti tra imprese e lavoratori – spiega Francesco Rotondi, Giuslavorista e co-founder di LabLaw –. Ci troviamo di fronte la possibilità di un’integrazione tra processi fisici e tecnologia digitale mai vista in precedenza. Il processo in atto lascia presagire la nascita di un modello nel quale l’impresa tenderà a perdere la propria connotazione spazio-temporale, in favore di un sistema di relazioni fatto di continue interconnessioni tra soggetti (fornitori, dipendenti, clienti, chiamati ad agire in un ambito territoriale che superi la dimensione aziendale e prescinda dal rispetto di un precostituito orario di lavoro ».

Fonte: diariodelweb.it (qui) Articolo di V. Ferrero del 23 ottobre 2018.

Democrazia diretta, e-Gov, Politica, Rivoluzione digitale

Giappone e USA sperimentano il voto via blockchain

Con l’avvento del bitcoin e delle cosiddette “criptovalute” (ovvero il sistema parallelo di valuta digitale criptata mediante l’utilizzo di un codice NdR) la tecnologia del blockchain, fino a quel momento destinata a far bella mostra di sé unicamente nei manuali informatici, pare essere tornata prepotentemente in auge, trovando applicazione in numerosissimi altri ambiti.

L’ultima proposta arriva direttamente dal Giappone dove, nella prefettura di Ibaraki (situata a circa 70 chilometri da Tokyo) si è attuata la prima sperimentazione al mondo di voto via blockchain.

Un ulteriore passo verso la cosiddetta e-democracy verrebbe da dire. Ma cos’è e soprattutto, come funziona tecnicamente una blockchain?

Il blockchain dagli albori fino alla concreta applicazione

Tecnicamente, una blockchain non è altro che un registro pubblico al cui interno sono registrate migliaia di transazioni crittografate ognuna delle quali è collegata ad un soggetto specifico (i cosiddetti “blocchi”) che, collegate tra loro attraverso un sistema di marche temporali, creano un vero e proprio database a catena (chain) in continuo aggiornamento e liberamente consultabile dagli utenti.

Nonostante la prima teorizzazione della blockchain sia avvenuta nei primi anni Novanta, ci sono voluti circa 27 anni per una sua concreta applicazione pratica: nel 2009 l’inventore (o gli inventori, in quanto sussistono ad oggi numerose teorie circa la reale identità) della criptovaluta bitcoin Satoshi Nakamoto distribuiva la prima blockchain con l’intento di creare un registro pubblico di tutte le transazioni.

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L’idea che sta alla base della blockchain è quella di creare un sistema di interscambio diffuso, in cui non vi è un amministratore che presiede e vigila sugli scambi, ma nel quale ogni componente della catena è esso stesso un amministratore: ogni blocco infatti è strutturato in modo tale da contenere al suo interno le informazioni che gli consentono di collegarsi al blocco precedente (ovvero attraverso l’utilizzo di un puntatore e di un timestamp, cioè una marca temporale).

Le applicazioni pratiche della blockchain oltre al bitcoin

Chiariti gli aspetti tecnici riguardanti il funzionamento della blockchain e del suo utilizzo principale per registrare le transazioni relative alle criptovalute, negli ultimi anni sono state sviluppate nuove applicazioni pratiche di questa tecnologia, da ultima quella relativa al voto elettronico.

Quest’ultimo tuttavia non è una novità, essendo, pur con le dovute differenze, una pratica che trova riscontro in diversi paesi del mondo.

Lo scorso 2 settembre, nella cittadina di Tsukuba si è quindi sperimentato l’impiego della blockchain nelle operazioni di voto. Sfruttando l’Individual Number (un sistema simile alla Social Security Card utilizzata negli USA), è possibile certificare l’identità dell’elettore, evitando così il rischio di compromissione dei dati raccolti: ciò avviene infatti attraverso un lettore ottico in grado di scansionare il documento d’identità del votante e consentirgli di esprimere la propria preferenza.

I media nipponici hanno tuttavia sottolineato come la sperimentazione sia stata per ora limitata alla scelta dei contributi da destinare ad opere di utilità sociale, con la previsione di estenderla in futuro anche per la scelta dei rappresentanti all’interno delle istituzioni.

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In questo modo, oltre a prevenire concretamente il rischio di brogli elettorali, si eliminano le code ai seggi e si consente anche alle persone non autosufficienti di partecipare concretamente al processo democratico, senza peraltro contare il notevole risparmio ottenuto in termini di personale impiegato durante le operazioni di verifica e di scrutinio.

I riflessi positivi di tale sperimentazione hanno pertanto spinto anche le democrazie occidentali ad adottare questo sistema per l’elezione diretta dei membri del Congresso e dei Governatori federali: in Virginia Occidentale, in occasione delle elezioni di medio termine verrà infatti consentito alle truppe impiegate in zone di conflitto di esprimere la propria preferenza utilizzando un’applicazione installata su un dispositivo mobile e un software di riconoscimento facciale in grado di verificare l’identità. I meccanismi di crittografia permetteranno quindi la registrazione del voto in forma anonima e il suo salvataggio all’interno della blockchain.

Tale innovazione è stata tuttavia accolta tra le polemiche di quanti temono che questo sistema non sia sufficientemente supportato da infrastrutture adeguate in grado di contenere l’enorme mole di dati che transitano sulla blockchain.

L’altra faccia della medaglia: i rischi connessi alle procedure di voto elettronico

Come avviene per qualsiasi procedura elettronica, rispetto ai sistemi tradizionali, il rischio risiede soprattutto negli accessi non autorizzati in grado di mettere a repentaglio la sicurezza dei dati contenuti nella blockchain: l’utilizzo indebito di sistemi di decrittazione dei dati infatti potrebbe infatti consentire di ricollegare la preferenza espressa da un soggetto ad un determinato candidato, con evidenti riflessi negativi e soprattutto in relazione alla privacy.

Lo scorso anno infatti la Election Systems & Software (ES&S) (una società che fornisce sistemi digitali di voto ad almeno 42 stati americani) ha confermato di aver subito un attacco hacker a danno dei propri sistemi, che ha causato la perdita di un milione e 800 mila documenti di altrettanti cittadini.

Photo credit – Depositphotos.com

Le successive indagini condotte dall’FBI hanno accertato come la sottrazione riguardasse dati relativi a nomi, indirizzi, date di nascita, patenti e tessere di partito conservati su un cloud di proprietà di Amazon Web Services (AWS).

Conclusioni: perché quindi utilizzare la blockchain?

L’evoluzione tecnologica e il progresso informatico comporteranno, almeno nel prossimo futuro, una necessaria evoluzione paritetica dei sistemi e delle infrastrutture in considerazione soprattutto dei numerosi vantaggi offerti dall’e-voting, dal risparmio ottenuto in termini di risorse finanziarie dato il minore impiego di personale, ad un decisivo incentivo alla partecipazione democratica, vittima negli ultimi decenni di un inarrestabile trend negativo.

La blockchain del resto, sta mostrando tutta la sua efficienza in ambito finanziario, arrivando a minacciare il monopolio della moneta tradizionale. Perché non sfruttare queste potenzialità per favorire la partecipazione dei cittadini alla vita politica del proprio Paese? “È la tecnologia, bellezza. E tu non puoi farci niente”.

Fonte: tom’shardware (qui)

Intelligenza artificiale, Sicurezza, Tecnologia

SARI: Intelligenza Artificiale per la Polizia Italiana. Saremo tutti tracciati?

In un recente caso di cronaca (la rapina di Lanciano) la Polizia Scientifica di Brescia ha potuto arrestare due sospettati grazie SARI (Sistema automatico di un riconoscimento immagini), un sistema di riconoscimento facciale introdotto l’anno scorso al servizio della Polizia Di Stato. Si tratta di un sistema di Intelligenza Artificiale che mette a confronto e cerca di riconoscere i volti.

SARI ha due modalità di funzionamento, come si può intuire dalla bozza di contratto pubblicata sul sito della Polizia: la modalità Enterprise che confronta una fotografia con un database di grandi dimensioni (nell’ordine di 10 milioni di immagini) e genera “una lista di volti simili al volto ricercato”.

E una modalità Real Time “per il riconoscimento in tempo reale di volti presenti in flussi video provenienti da telecamere IP, con relativo confronto dei volti presenti nei flussi video con quelli di una “watch-list” (con una grandezza dell’ordine di 100.000 soggetti) e trasmissione di un alert in caso di match positivo”.

È un sistema concettualmente simile a quello che ognuno di noi può sperimentare in Google Photo, su iOS, su Amazon Photo o in tanti altri sistemi simili. Il software non solo sa riconoscere i volti umani, ma riesce anche a distinguere tra l’uno e l’altro. Quello che non si trova nei software commerciali, naturalmente, è il confronto con un database esterno composto da centinaia di migliaia o anche milioni di immagini; ciò che permette a SARI di dire questa foto potrebbe essere Tizio.

Nella fattispecie, SARI è sviluppato dall’azienda Parsec 3.26 con sede a Lecce ed è probabilmente basato sul loro prodotto commerciale Reco – Face Recognition System. Il database usato per il confronto è la banca dati SsA del sistema AFIS, e include 16 milioni di immagini grazie ad “altri database”.

Finora non è stato possibile chiarire da dove vengono le altre immagini, tant’è che il Deputato Federico D’Incà ha chiesto chiarimenti tramite un’interrogazione parlamentare ufficiale. C’è chi si domanda da dove arrivino quei sedici milioni di immagini e come siano state raccolte, e per ora sono domande senza risposta. Con il timore che i cittadini italiani siano stati inclusi a loro insaputa.

Altra criticità riguarda i falsi positivi. Fermo restando che la responsabilità ultima resta all’agente, questi sistemi di sorveglianza se la cavano piuttosto bene con le fotografie, ma quando si passa alle videocamere in tempo reale la precisione è discutibile nel migliore dei casi, disastrosa in quello peggiore.

L’altro problema riguarda la privacy di tutti: le videocamere registrano immagini e le conservano per chiunque passi sotto il loro occhio elettronico. Che si tratti di criminali incalliti o di cittadini perfettamente onesti, non cambia nulla: le immagini vengono conservate a lungo, mesi o anche anni a volte (dipende dalla legislazione e dagli eventi).

In Gran Bretagna, in occasione di una partita, un sistema simile ha individuato 2297 persone che sono state fermate e interrogate per errore. Ognuna di queste persone si è vista dunque convocare dalla polizia e poi ha subito un interrogatorio. Non è quindi solo una questione di principio, ma anche di problemi reali, dalla perdita di tempo al trauma emotivo.

Alcuni non ci vedono nessun problema, anzi magari si sentono più sicuri; altri invece credono che sia un’illecita violazione della privacy e della libertà individuale. Torniamo quindi a un’antica dicotomia mai davvero risolta, quella che contrappone libertà individuale e sicurezza pubblica. Per com’è andata la Storia recente, pare che siano due grandezze inconciliabili e inversamente proporzionali. Per avere una bisogna rinunciare all’altra e viceversa.

Fonte: tom’shardware (qui)

Social network, Web

Facebook, Scoperto un problema di sicurezza riguardante 50 milioni di account. Zuckerberg: “Falla in sicurezza riparata giovedì”.

Facebook ha rivelato una falla nella sicurezza, che ha riguardato “circa 50 milioni di account” e potrebbe aver permesso ad hacker di prendere il controllo dei profili. I team del social network hanno “scoperto un problema di sicurezza riguardante 50 milioni di account. Prendiamo questa situazione estremamente sul serio”, ha scritto il gruppo in un comunicato, aggiungendo che saranno “prese azioni immediate”.

La compagnia ha riferito di aver appreso questa settimana dell’attacco, che ha permesso agli hacker di rubare gli “access token”, l’equivalente delle chiavi digitali per accedere agli account. “E’ evidente che chi ha attaccato ha sfruttato la vulnerabilità del codice di Facebook”, ha dichiarato il vice presidente del product management, Guy Rosen, in un blog, aggiungendo: “Abbiamo corretto la vulnerabilità e informato le forze dell’ordine”.

Zuckerberg: “Falla in sicurezza riparata giovedì” – “La falla è stata riparata ieri (giovedì ndr) sera”. Così il ceo di Facebook, Mark Zuckerberg, in conferenza stampa, parlando della breccia informatica che ha riguardato “circa 50 milioni di account”. E’ un nuovo guaio, la cui dimensione per ora non è chiara, per il gigante della tecnologia e i suoi oltre 2 miliardi di utilizzatori nel mondo. La fiducia degli utenti è già diminuita a seguito di vari scandali sull’uso di informazioni a scopi politici e sulla diffusione di contenuti destinati a influenzare le elezioni di vari Paesi.

Problemi per circa 90 milioni di utenti Facebook: nelle ultime ore sono stati infatti costretti a fare log out e a rientrare nel sistema in seguito ad una delle misure di sicurezza che scattano quando c’è il rischio di compromissione degli account.

Falle alla sicurezza della funzione “View As” – Gli hacker, secondo quanto spiegato dalla società, hanno approfittato di una vulnerabilità della funzione “View As” – quella che consente a un utente di vedere cosa vede del suo profilo un altro utente, in base alle sue impostazioni di privacy – per rubare i “token” di accesso, equivalenti alle chiavi digitali, che mantengono attivo il log-in senza dover digitare la propria password ogni volta che si utilizza il social network. Facebook ha reso noto di aver sistemato il problema e di aver resettato i token di accesso di quasi 50 milioni di account, più quelli di altri 40 milioni di account soggetti alla prova “View As” nell’ultimo anno. La funzione al centro dell’incidente è stata sospesa, mentre sono in corso le indagini.

Fonte: tgcom24.mediaset.it (qui)

Credito, Innovazione, PMI

MyBank, un esempio di credito alle Pmi in tempo reale grazie al digitale.

La Disruption non è futurismo, è realtà e soprattutto può essere il più potente moltiplicatore economico per l’Italia dal baby boom a oggi, ma molto più formidabile. L’Italia deve la sua ricchezza al 78% alle piccole e medie imprese (Pmi), infatti ne abbiamo 3.940.000, contro le sole 1.822.000 della Germania e le 2.387.000 della Francia. In questi numeri sta una delle principali ragioni per cui la catastrofe bancaria del 2008 ha sproporzionatamente penalizzato l’Italia rispetto ai due paesi del nord. Con la precipitosa stretta creditizia delle banche in tutta Europa, chi c’è andato di mezzo più di chiunque sono le Pmi, assai più delle grandi imprese alle quali le banche hanno di fatto continuato a prestare almeno il minimo. Per cui la nazione col maggior numero di Pmi è stata, per pura aritmetica, quella che ha subito maggiori sofferenze, cioè noi, e parliamo soprattutto di posti di lavoro svaniti o di assunzioni impossibili da fare, ma anche di fallimenti forzati. Aggiungo per onestà intellettuale che è verissimo che poi le agghiaccianti riforme del lavoro dei governi tecnici da Monti in poi e del Pd, ma anche la miopia di tantissimi imprenditori che hanno sfruttato all’osso quelle politiche ‘lavoricide’, hanno peggiorato le cose.

Purtroppo da allora l’essenziale flusso creditizio da banche a Pmi non si è più risollevato. Ecco la situazione all’anno scorso riassunta dai dati di Bankitalia elaborati dal centro studi Cgia: il 10% d’imprese che costituisce le grandi aziende italiane beneficia dell’80% dei crediti bancari totali. Alle Pmi, che sono oltre mille volte più numerose, va il rimanente 20%. Questo 10% di ‘grandi’ e meglio finanziate imprese non è affatto un esemplare di affidabilità creditizia, al contrario: sono le responsabili dell’81% delle insolvenze bancarie nazionali, cioè quell’oceano di cediti ‘marci’ che fanno delle banche italiane le più a rischio oggi al mondo. Eppure le banche continuano a negare crediti più alle Pmi che alle ‘grandi’. C’è stata una lieve ripresa della fiducia e quindi dell’erogazione di crediti da parte delle banche, che si è materializzata in un +0,3% in media in Italia dal 2016 al 2017. Ma anche qui l’ingiustizia è palese: all’interno di quella misera crescita, alle imprese medio-grandi va lo 0,6% mentre le piccole e micro imprese continuano a soffrire di sempre meno crediti.

Sbloccare questo disastro – che, ribadisco, si trasforma poi in fallimenti forzati (quanti hanno chiuso mentre aspettavano pagamenti solo perché le banche non gli hanno concesso un prestito a breve), licenziamenti o non assunzioni – non è semplice. Il motivo primario l’ho accennato sopra: le banche italiane sono le più sofferenti al mondo oggi, con in pancia quasi 300 miliardi di crediti inesigibili, cioè ‘marci’, chiamati Npls. I lettori devono immaginare che, al di là di tutte le porcherie che di certo ’ste banche fanno fra corruzione politica e favoritismi, i succitati esplosivi Npls sono il motivo per cui i loro dirigenti hanno oggi il terrore di prestare ad aziende la cui affidabilità creditizia possa andare in fumo dopo pochi mesi o anni. E qui sono cruciali i mezzi che una banca ha per determinare con accuratezza e senza grandi ingiustizie se l’imprenditore bisognoso sia affidabile o meno. E qui la Disruption delle nuove tecnologie come l’Artificial Intelligence (Ai) e Machine Learning può fare una differenza enorme. Cioè: da una parte scremare i falsi affidabili, e dall’altra recuperare tanti condannati che invece affidabili erano eccome, ma non solo, incoraggiare prestiti più sostanziosi a molti. Il tutto si traduce in semplificazione, tutela a 360 gradi, e sviluppo d’impresa con posti di lavoro.

Mai sentito parlare di Mybank? Sono cinesi, ed è il primo istituto di credito al mondo che lavora interamente sulla Cloud, senza filiali, e che con soli 400 impiegati serve milioni di Pmi cinesi. A Mybank si sono letti il rapporto della Banca Mondiale “Toward Universal Financial Inclusion, 2017-2018”, dove fra le altre cose sono citate proprio le lungaggini e le complessità delle indagini bancarie per stabilire se un’azienda ha affidabilità creditizia come uno dei problemi più distruttivi. Infatti da una parte la banca oggi non riesce ad avere accesso a un numero sufficiente di dati sul cliente per davvero capire se è affidabile, oppure analizza dati che potrebbero non essere poi così significativi sul grado di solvibilità come essa crede; dall’altra le lungaggini cartacee, gli sfinenti colloqui d’ufficio, e tempi d’attesa si assommano in ritardi che spesso sono fatali all’imprenditore piccolo-medio. La soluzione cinese di Mybank si articola su tre fronti: A) Poggiare su una società dove la digitalizzazione rende la maggior quantità possibile di dati raggiungibili all’istante da chi legalmente li richiede (Big Data); B) Usare una Artificial Intelligence specifica per il risk management al fine di determinare con la maggior sicurezza possibile l’affidabilità creditizia dell’imprenditore sulla base dei dati di cui al punto precedente; C) Rendere disponibili alle Pmi i sevizi di credito sulla Cloud, quindi accessibili dagli smart-phones senza muoversi dal lavoro.

Sono già sette milioni i piccoli-medi imprenditori cinesi che, iniziando da C), hanno fatto richiesta di un prestito presso Mybank da una App sul cellulare in un tempo massimo di 3 minuti. L’istituto di credito ha, ad oggi, erogato in questo modo 110 miliardi di dollari di finanziamenti. L’Ai di Mybank prende in esame la richiesta e in media la risposta richiede 1 secondo, senza alcun intervento umano. Il tasso di Npls finora accumulato da Mybank è sotto all’1%. E’ facile anche per i non addetti ai lavori immaginare quale espansione di Pil italiano – in termini di occupazione, di ampliamento di milioni di micro-piccole-medie aziende, di nuove “ventures” nelle startup, di salvataggio d’imprese solide ma soffocate da ritardi nei pagamenti, ecc. – un rilassamento delle ansie bancarie nella concessione di crediti può portare grazie a queste tecnologie, col superamento dopo dieci anni della disastrosa stretta creditizia.

Il mio realismo ora m’impone di specificare che la Cina è, rispetto all’Italia, su un altro pianeta per ciò che riguarda il cosiddetto Inclusive Digital Financial System, cioè il sistema finanziario mirato all’inclusione delle micro-piccole-medie aziende e che corre sul digitale della maggior mole di dati disponibili (Big Data). Ma questo è precisamente spunto per una delle riforme urgenti che il ministro del lavoro Di Maio deve fare, e che mi permetto di sollecitagli. L’altra nota fondamentale riguarda le regolamentazioni bancarie: chiaramente una Disruption di questo livello richiede quello che proprio i cinesi chiamano “un ruolo di generoso sostegno” da parte dei regolamentatori. Qui purtroppo l’Italia non più sovrana, e incapsulata nei meandri dei regolamenti bancari Ue, ha le mani legate. Ma quando si parla di Disruption l’oppressiva Bruxelles ha già dato segni di rilassamento (a partire dalla sua Europe 2020 Strategy – The Digital Agenda), per cui, ministro, per il bene del paese si metta al lavoro. Questa è innovazione, cioè Disruption nella sua migliore essenza, cioè: nessun futurismo, concretezza nel tessuto produttivo e d’impiego più forte che l’Italia possiede e con cui ha primeggiato nel mondo.

(Paolo Barnard, “Disruption e credito alle piccole-medie imprese: creare lavoro – ministro, per lei”, dal blog di Barnard del 14 luglio 2018).

Innovazione, Intelligenza artificiale, Sicurezza

Riconoscimento facciale, come funziona. Il video della polizia.

Sono terminate le fasi di sperimentazione e formazione relative al nuovo software della Polizia di Stato denominato ”Sistema Automatico di Riconoscimento Immagini (S.A.R.I.)”, strumento di supporto alle attività investigative di contrasto al crimine. Il SARI Enterprise consente di effettuare ricerche nella banca dati A.F.I.S., attraverso l’inserimento di un’immagine fotografica di un soggetto ignoto che, elaborata da due algoritmi di riconoscimento facciale, fornisce un elenco di immagini ordinato secondo un grado di similarità. Nell’ipotesi di match, al fine di integrare l’utilità investigativa del risultato con un accertamento tecnico a valenza dibattimentale, è comunque necessaria una comparazione fisionomica effettuata da personale specializzato di Polizia Scientifica. Anche grazie al sistema di riconoscimento facciale due ladri georgiani sono stati arrestati dalla polizia a Brescia. I due sono ritenuti responsabili di un furto in un’abitazione commesso lo scorso 17 luglio. Decisiva, per le indagini condotte dalla Squadra mobile, è stata l’acquisizione delle immagini di una telecamera di video sorveglianza installata all’interno dello stabile che aveva ripreso in azione i due. “I fotogrammi sono stati poi analizzati con l’applicativo in uso alla Polizia Scientifica che permette di confrontare le immagini dei rei con i volti dei milioni di soggetti schedati, restituendo una ristretta platea di sospettati. A completare il quadro indiziario a carico dei due stranieri, domiciliati in provincia di Verona, è stato il ritrovamento degli indumenti indossati durante il furto e l’analisi dei tabulati telefonici”.

Fonte: quotidiano.net (qui)

Innovazione, Politica, Salute

Così l’intelligenza artificiale impara a scovare i tumori. In meno di due ore

Un test, condotto grazie al co-fondatore di una startup e un radiologo, vuole dare un’idea di come funzionino questi “cervelli”. Che presto potrebbero salvarci la vita.

Tutti sappiamo come si è formato un medico: libri e articoli, ore e ore sul campo. Il modo in cui funziona l’intelligenza artificiale è meno intuitivo. Abbiamo deciso di chiarirlo, anche perché l’AI sarà sempre più importante per la diagnostica. È questo il ragionamento che ha spinto Quartz a fare un esperimento: allenare due algoritmi a riconoscere un cancro ai polmoni. In un paio d’ore.

L’esperimento

Diciamolo subito: un “medico artificiale” efficiente ha bisogno di più tempo e molti più dati. Il test, condotto grazie al co-fondatore della startup MD.ai Leon Chen e al radiologo Luke Oakden-Rayner, vuole dare un’idea di come funzionino questi “cervelli”. Che presto potrebbero salvarci la vita. Se un oncologo impara dai manuali e dall’esperienza, l’intelligenza artificiale apprende solo dai dati: circa 190.000 immagini, bidimensionali e in 3D, con noduli maligni, benigni o privi di qualsiasi formazione. Un nodulo è un piccolo pezzo di tessuto  di tessuto che non è normalmente presente nei polmoni. Già individuarlo non è semplice. Perché è piccolo e spesso poco visibili. E può essere confuso con altre formazioni. Poi il passo successivo: saper distinguere tra un nodulo maligno e uno che non lo è.

Cosa impara l’AI in 75 minuti

Dopo una ventina di minuti e dopo aver digerito le prime 50.000 immagini, l’algoritmo inizia a dare i primi risultati (ancora scarsi). Individua correttamente circa il 46% dei noduli. Ma non ha ancora cognizione di cosa siano di preciso. A volte, infatti, confonde i vasi sanguigni con un possibile cancro. Dopo mezz’ora, gli algoritmi hanno analizzato 95.000 radiografie. Riescono a individuare il 60% dei noduli. E nel 69% sono in grado di dire con esattezza se sono maligni. “In questa fase, il sistema ha un’estrema sicurezza quando rileva noduli di grandi dimensioni (oltre il centimetro di diametro)”. Mentre “non ha ancora imparato alcune nozioni semplici”.

Anzi, molto semplici. È tarato solo per riconoscere i noduli polmonari, ma non sa cosa sia esattamente un polmone. Individua quindi formazioni in zone del corpo dove i “noduli polmonari” non possono esserci. Per il semplice fatto che sono, appunto, polmonari. In altre parole, spiega Quartz: l’intelligenza artificiale è priva di buon senso perché si attiene ai soli dati. A questo stadio, quindi, combina risultati discreti con falle elementari. “Anche un bambino di tre anni sa distinguere pancia e petto”. L’AI invece “non sa cosa siano”. A tre quarti dell’esperimento, dopo quasi un’ora e 143.000 immagini, l’intelligenza artificiale comincia a possedere la materia. Ed evidenzia risultati che Quartz definisce “piuttosto buoni”. Ha ancora difficolta a individuare i noduli (l’accuratezza è del 64%). Anche in questo caso, la pecca è la mancanza di buon senso. Il medico artificiale indica noduli in zone dove è molto raro che ci siano.

Confondendoli spesso con piccole cicatrici. Un medico umano, in questo, è molto più efficiente. Inizia a essere significativa l’accuratezza delle formazioni maligne: 76.38%. Fine dell’esperimento, dopo 75 minuti e oltre 190.000 immagini. L’accuratezza nell’individuazione dei noduli sfiora il 68%. E la capacità di capire quali sono maligni è dell’82.82%. L’intelligenza artificiale è migliorata ancora. Ancora troppo spesso i noduli vengono scambiati con altro. Ma, quando succede, l’AI giudica la formazione benigna. “La risposta terapeutica per il paziente – scrivono gli autori del test – sarebbe quindi simile”.

Conoscenza ed esperienza

“L’intelligenza artificiale funziona molto bene, anche se non è ancora al livello di un radiologo”, conclude Quartz. Molto dipende da un corredo di dati ancora troppo esiguo. Ma se questi sono i risultati ottenuto in meno di due ore e con 190.000 immagini, pensate cosa potrebbe fare un sistema più complesso, con un archivio fatto di centinaia di migliaia di contenuti. Come quelli prodotti ogni giorno da cliniche e ospedali.

Allo stesso tempo, l’esperimento sottolinea i pregi dell’uomo, in grado di usare “le conoscenze pregresse come un’impalcatura”. L’intelligenza artificiale, invece, ha bisogno di costruirla ogni volta. E può farlo solo grazie a una mole enorme di esempi. In questo caso ne sono serviti 50.000 per “insegnare” alle macchine quello che uno studente imparerebbe con un solo manuale. Solo che nessun medico è in grado di leggere un libro in 17 minuti. Il futuro della diagnostica dipenderà dalla capacità di fondere le doti di ognuno: la conoscenza umana con l’esperienza artificiale.

Fonte: agi.it Articolo di P. Fiore dell’8 settembre 2018 (qui)

Innovazione

Ifa 2018. Anche robot e Ai possono sbagliare

Intelligenza artificiale e androidi invaderanno la nostra vita, sostengono esperti e addetti ai lavori. A Berlino ne hanno presentati tanti, ma alcuni inciampano.

Provano a convincerlo. Ma lui nulla: non sente e non ne vuole proprio sapere di mettersi a ballare. Per riuscire ad impartire l’ordine vocale a Cruzr, robot alto circa un metro e mezzo, l’addetto della cinese Ubtech deve accedere alle impostazioni. E così, mentre all’Ifa di Berlino si corre verso la robotica e l’intelligenza artificiale (Ai), per la fiera capita di incontrare chi è costretto a premere il tasto pausa ed entrare nelle impostazioni. Qualcuno tirerà un sospiro di sollievo: prima che i robot ci rubino il lavoro o che le Ai riescano davvero ad assisterci, c’è tempo. Anche se nessuno sa con esattezza quanto. “Entro il 2020 ci saranno 200 miliardi di oggetti connessi”, spiega dal palco Peter Kürpick, ospite di Lg. E’ il vice presidente di Here Technologies, azienda specializzata in mappe satellitari e navigazione un tempo nelle mani della Nokia e oggi di proprietà fra gli altri di Bmw, Daimler, Audi e Intel. “Provate ad immaginare cosa accadrà quando tutti questi apparecchi inizieranno ad esser gestiti da Ai”, aggiunge.

A rispondere è I.P. Park a capo di Lg Electronics, “L’intelligenza artificiale collegherà tutto. La vostra cucina imparerà i vostri gusti da quel che guardate in tv, l’auto a guida autonoma saprà da sola quando andare a scuola a prendere i bambini. I nostri dispositivi diventeranno intelligenti più li si userà. Impareranno con il tempo e con il tempo diverranno sempre più abili”. Si mette a dialogare con un esemplare della famiglia Cloi, robot di Lg che può farsi assistente e fattorino. E stavolta non ci sono incidenti. Al Consumer Electronics Show (Ces) di Las Vegas, a Gennaio, era caduto nel mutismo più assoluto generando molto imbarazzo.

Ma almeno Lg, malgrado l’incidente di percorso a Las Vegas, ha una visione del futuro (oltre a produrre splendidi tv ed elettrodomestici). Cosa che non si può dire per tanti altri che qui a Berlino hanno presentato solo piccole migliorie. Ed è una visione condivisa da colossi che hanno il potere di crearlo il futuro.

La promessa di I.P. Park è la stessa fatta da Sundar Pichai di Google e dalla Amazon di Jeff Bezos: le Ai saranno formidabili ma ci vuole tempo. Nell’attesa ci dobbiamo accontentare di altoparlanti intelligenti che riescono si e no a far partire un brano su Spotify o assistenti virtuali che mostrano efficienza solo quando si tratta di rintracciare un contatto della rubrica. Ma si stanno già evolvendo in aspirapolveri alle quali bisogna impartire un ordine due o tre volte prima che lo eseguano e robot domestici che fraintendono “previsioni del tempo” con “precisione del lampo” finendo per darci non le condizioni meteo ma una definizione scientifica di un fulmine.

I dispositivi in sé ormai valgono quello che valgono, il futuro e nei servizi. Meglio: nella combinazione fra l’intelligenza artificiale, Internet delle cose (Internet of things, IoT) e i business che si potranno costruire su questa rivoluzione. Avvenire alla Lei, il film di Spike Jonze del 2013, dove il protagonista si innamora della sua assistente digitale finché l’Ai (spoiler) non si accorge che gli umani sono limitati e noiosi. A noi dovrebbe andar meglio. Dialogheremo con il frigorifero chiedendogli di ordinare il latte mentre l’assistente sullo specchio smart ci mostrerà quali vestiti sono più indicati per la giornata comprando online una cravatta perché non ne abbiamo una che si abbina. Ci arriveremo, insistono a Berlino. E’ probabile. A patto di non dover entrare di continuo nelle impostazioni.

Fonte: laRepubblica.it (qui)

Economia, Imprese, Innovazione

Capitani d’impresa: sempre meno giovani al comando delle aziende italiane

Sempre meno giovani al comando delle imprese italiane. Tra marzo 2013 e marzo 2018 le cariche di amministratore nelle imprese del nostro Paese sono cresciute di circa 48mila unità, ma continuano a diminuire i giovani coinvolti nelle ‘stanze dei bottoni’ dell’Azienda-Italia. Complessivamente, infatti, nei 5 anni considerati la percentuale di amministratori con più di 50 anni è passata dal rappresentare il 53,3 al 61% del totale delle cariche, con una perdita invece di 7,7 punti percentuali per quella degli under 50.

Questo, in sintesi, il quadro che emerge dall’elaborazione Unioncamere-InfoCamere sulle persone con carica di amministratore nelle imprese italiane negli ultimi cinque anni. Al 31 marzo di quest’anno gli amministratori di imprese in Italia sono 3,8 milioni, quasi 50 mila unità in più rispetto alla stessa data di cinque anni fa. Un aumento che, però, segnala un forte movimento tra le classi di età a tutto vantaggio per quelle degli over 50 rispetto ai più giovani. Tra il 2013 e il 2018, gli amministratori tra i 50 e 69 anni sono aumentati di 194mila e in quella degli ‘over 70’ di altre 125mila, per una crescita complessiva di 319mila unità per l’insieme degli over 50. A questa espansione ha fatto eco una forte contrazione degli amministratori con meno di 50 anni di età: a fine marzo di quest’anno erano 1,5 milioni con una diminuzione totale di oltre 270mila unità negli ultimi 5 anni (il 15% in meno rispetto al 2013), dei quali 251 mila nella classe tra i 30 e i 49 anni e 20 mila in quella under 30.

Sul versante territoriale, ancora una volta i dati rivelano un’Italia divisa in due: da una parte, nelle ripartizioni del Centro e del Mezzogiorno, si assiste complessivamente ad una crescita nel numero degli amministratori (79mila in più nei 5 anni in esame, di cui 30mila al Centro e 49mila al Sud), Dinamica opposta nelle circoscrizioni settentrionali, con una riduzione più lieve nel Nord-Est (-8mila unità, -1,0%) e più rilevante nel Nord-Ovest (-24mila unità, -2,0%).

Lo spostamento della distribuzione per età della popolazione verso le classi più anziane interessa invece tutte le aree geografiche dello stivale. Rispetto al 2013, in tutte le ripartizioni si evidenzia una riduzione del numero di amministratori nelle due fasce di età più giovani e un aumento marcato per quelle oltre i 50 anni: il processo d’invecchiamento dei capitani d’impresa appare più accentuato al Sud e Isole sia in termini assoluti (+102mila unità) che relativi (+20,9%) di quello riscontrato nelle regioni centro-settentrionali, dove il»grigio» dell’età si fa largo soprattutto al Nord-Ovest (+82.500 unità quanto ai valori assoluti) e al Centro (+17,6% in termini relativi).

La tendenza si conferma pienamente anche su base regionale: in tutte le 20 regioni italiane, sia per la classe di età 50-69 anni che per quella over70, si registrano variazioni in aumento nel quinquennio esaminato. Particolarmente significativa la performance del Molise, che primeggia in termini di crescita relativa in entrambe le classi (rispettivamente +28 e +47%) e della Calabria (+24 e +42%). Guardando ai settori produttivi, nei cinque anni considerati il fenomeno dell’invecchiamento degli amministratori caratterizza tutte le attività, con incrementi di quasi il 30% nella classe 50-69 anni e superiori al 40% in quella degli over 70 nei due settori dell’alloggio e ristorazione e dei servizi alle imprese.

Sul fronte opposto, la riduzione degli amministatori under 50 incontra pochissime eccezioni, tra cui vanno segnalate quella degli amministratori under 30 dell’agricoltura (aumentati di oltre 2.000 unità) e dei servizi di informazione e comunicazione (+463). Poiché i dati sulle cariche riflettono da vicino l’evoluzione dello stock di imprese, la lettura per tipo di attività evidenzia una contrazione nei settori che, nel periodo esaminato, hanno visto ridursi in modo più sensibile il numero di imprese: manifatturiero (-19mila amministratori), costruzioni (- 17mila) e attività immobiliari (-4.600).

Fonte: diariodelweb.it (qui)

Innovazione, Tecnologia

Apple presenterà i nuovi iPhone il prossimo 12 settembre

Apple ha diffuso gli inviti per un evento che terrà il prossimo 12 settembre a Cupertino, in California. Come ogni anno in questo periodo, la società presenterà i suoi nuovi modelli di iPhone e probabilmente qualche altra novità legata ai Mac e agli Apple Watch. Non ci sono informazioni ufficiali sui nuovi prodotti, ma da qualche settimana si parla di tre nuovi iPhone: un aggiornamento degli iPhone X, ma non nel design, e qualcosa di più radicale per i modelli classici, che potrebbero ereditare alcune caratteristiche dagli iPhone X. Le altre novità potrebbero riguardare gli iPad Pro, i MacBook Air e i Mac mini. L’evento di settembre è di solito il più importante per Apple, perché porta alla messa in vendita delle sue ultime novità in vista della stagione degli acquisti natalizi.

Fonte: ilpost.it (qui)

Economia, Innovazione

Olivetti, 110 anni e nessuno che abbia imparato la lezione

La prima cosa che ti viene da chiederti è perché.

Perché un’azienda italiana che era all’avanguardia della tecnologia mondiale è quasi scomparsa?

Perché un intero settore industriale del nostro paese è stato cancellato a favore delle aziende statunitensi?

Perché la Silicon Valley aveva iniziato a parlare italiano ma poi la conquista dell’America è svanita nel nulla?

Sono i perché che ti vengono su come un bolo visitando la mostra ‘Olivetti: 110 anni di impresa’ appena aperta alla Galleria Nazionale d’arte moderna e contemporanea di Roma.

La risposta che vi daranno a questi tanti perché i nostri attuali, rapaci, imprenditori e supermanager è che Olivetti era una fabbrica di idee, di design, di simboli, di geni ma non di profitti. Che la ‘visione’ Olivetti non è quella del moderno capitalismo. Che Olivetti, in fondo, ha fallito.

In realtà, la filosofia di Adriano Olivetti, figlio del fondatore Camillo, era quella di un imprenditore illuminato come dai suoi tempi non più si manifestano nel mondo occidentale. Le sue stesse fabbriche erano studiate per dare qualcosa al territorio, in termini di lavoro, certo, ma soprattutto di bellezza e di meraviglia. La tecnologia per quella visione assumeva un ruolo quasi mistico che al giorno d’oggi un qualsiasi ricco scarparo guarderebbe dall’alto in basso senza neanche capire che il poveraccio è proprio lui.

Quello che la visione Olivetti aveva afferrato nella sua fantasmagorica espansione elettromeccanica è che il profitto non è il valore principale di un’azienda.

Lo sono, al contrario, le cosiddette positively disturbing ideas come i valori immateriali rappresentati dalla cultura e dalla capacità innovativa, la priorità ai giovani (i più adattabili all’innovazione), la selezione dei talenti, il design innovativo inteso come intrinseco al prodotto, una struttura aziendale informale nella quale chiunque, a prescindere dal proprio ruolo, potesse essere chiamato a dare il suo contributo alla ‘impresa’ (nel vero senso della parola).

La piramide aziendale, ovviamente esistente anche in Olivetti, doveva aiutare l’uomo nel processo creativo, non opprimerlo. Provate a suggerire una cosa del genere oggi alla Fiat di Marchionne (anzi, alla FCA, che la Fiat italiana non esiste più).

Ma l’idea più disturbante di tutte nel mondo lucrativo e inumano di oggi derivante dalle teorie ultraliberiste di Milton Friedman è senz’altro quella della responsabilità sociale dell’impresa. Una responsabilità che è dovuta agli azionisti quanto ai dipendenti, quanto al territorio sul quale si operi. Costruisce case per i dipendenti, cinema e piscine per la città. Distribuisce benessere, diminuisce l’orario di lavoro, senza variazioni di salario.

Voglio ricordare ancora una volta poi la regola aurea che si rispettava alla Olivetti: nessun manager doveva guadagnare più di dieci volte il salario minimo di un operaio. Oggi che i supermanager arrivano anche ad intascare (spesso immeritatamente) fino a 500 volte la paga di un loro umile dipendente, si capisce che il capitalismo illuminato ha avuto in Adriano Olivetti un unico, splendente sole. Che non è mai più risorto.

A proposito di sole, Olivetti e la California. A Cupertino l’azienda della grigia Ivrea fu la prima a fare tecnologia nella Silicon Valley prima che questa si chiamasse così. Nel 1973 la Olivetti apre il suo primo ufficio a Mountain View (sì, proprio dove ha sede Google) mentre Steve Jobs ancora studia e lavora ai videogiochi della Atari. Nel ’79 la Apple muove i primi passi mentre Olivetti inaugura l’Advanced Technology Center. Tre anni dopo nasce l’M20. L’Apple Macintosh arriva solo nell’84. Quello che è considerato il primo personal computer del mondo, il P101, Olivetti lo aveva prodotto nel 1965.

Perché Olivetti, un’azienda che era arrivata ad avere 50mila dipendenti in 100 paesi del mondo è quasi scomparsa e vive ora solo come pallida costola di Tim (200 dipendenti o giù di lì)? Molti oggi affermano che la gestione di Adriano Olivetti fu miope e non adeguata a cavalcare la rivoluzione elettronica. Negli anni 2000 poi, un vero e proprio tracollo: dal 2003 al 2014 le perdite medie annue s’aggiravano sui 30-35 milioni per un totale di 400 milioni di euro, ripianati prima da Pirelli e poi da Telecom.

Ma per qualcun altro, invece, la sorte di Olivetti era già stata decisa altrove. In un macabro parallelo con l’Eni di Enrico Mattei, qualche ex dipendente afferma che la manina che affondò l’azienda è quella imperialista americana. Nel 1962/63 gli Usa, presidenza Kennedy, avevano notato l’intraprendenza di questi italiani che avevano il predominio dell’office automation nel mondo e miravano al controllo dell’elettronica per entrare nell’era informatica.

In Italia si stavano formando i primi governi di centrosinistra. Detto fatto: le banche italiane chiesero alla Olivetti Divisione Elettronica il rientro immediato dei capitali. L’Olivetti fu costretta a “svendere” alla General Electric la sua Divisione Elettronica, con tutta la rete di assistenza. Un suicidio. Fantapolitica? Chissà.

Intanto oggi Olivetti celebra il suo anniversario solo grazie a un’altra azienda italiana nel frattempo divenuta francese. Andare a vedere la mostra della Gnam inorgoglisce, ma fa veramente incazzare.

Fonte: ilfattoquotidiano.it Articolo di I. Mej (qui)

Innovazione

Google si piega alla «censura» cinese. La protesta dei dipendenti

Circa 1.400 dipendenti di Google hanno firmato una lettera di protesta contro l’iniziativa della società di realizzare una versione del motore di ricerca «censurata» per la Cina, che è conosciuta internamente come Dragonfly. E’ quanto scrive il New York Times che ha ottenuto copia della lettera.
I dipendenti di Google sollecitano maggiore trasparenza da parte della società per conoscere le implicazioni morali del loro lavoro. Secondo i dipendenti accettare le richieste della Cina per una versione censurata del motore di ricerca pone “urgenti questioni morali ed etiche”.

GRNDE FIREWALL – «Attualmente non abbiamo l’informazione richiesta per prendere decisioni informate eticamente sul nostro lavoro», hanno scritto nella lettera ottenuta dal quotidiano newyorchese.
Era il 2010 quando Google decise di andar via dalla Cina dopo aver scoperto degli episodi di hacking degli account Gmail di alcuni attivisti per i diritti civili. D’altronde tutti i giganti Usa del web hanno avuto a che fare con il «Grande Firewall» cinese, che ferma ogni contenuto politicamente sgradito al regime. Twitter, Facebook, YouTube e il New York Times sono bloccati nella Repubblica popolare. Una situazione, questa, che ha consentito ai giganti locali come Baidu e Youkou di crescere indisturbati.

700 MILIONI DI UTENTI – La possibilità di un ritorno in Cina di Google è vista con favore dalle autorità cinesi, a condizione che il gigante americano rispetti le necessità delle autorità. Due settimane fa il Quotidiano del Popolo ha scritto che «Google è benvenuta, ma è un prerequisito che debba rispettare quanto previsto dalla legge». Il commento, inoltre, ha ricordato che nel periodo di assenza di Google dalla Cina il contesto del web cinese è radicalmente cambiato: da pochi più di 300 milioni di utenti si è passati a oltre 700 milioni.
Proprio questa prospettiva, tuttavia, sta provocando forti mal di pancia all’interno della stessa società americana. The Intercept, che è stata la testata online la quale ha rivelato il progetto, ha scritto il gruppo ha bloccato l’accessibilità ai documenti relativi al progetto Dragonfly alla gran parte dei dipendenti. «C’è stato un silenzio radio totale della gerarchia e questo rende la gente scontenta e spaventata», ha raccontato un dipendente.

LA PETIZIONE DEI DIPENDENTI – Non è la prima volta che Google si trova a dover affrontare malumori interni. Migliaia di dipendenti hanno firmato qualche mese fa una petizione per chiedere di «restare fuori dal business della guerra» a proposito di un contratto col Pentagono. Dopo questa protesta, il gigante informatico si è impegnato a far sì che i suoi lavori nel settore dell’intelligenza artificiale servano mai a costruire armi.
Poi, oltre alla posizione dell’azienda che vuole rientrare nel mercato a più rapida espansione del mondo e a quella dei dipendenti che resistono al rischio di un compromesso eticamente inaccettabile dal loro punto di vista, c’è la terza posizione: quella di chi nel mercato cinese ci opera e si troverà come concorrente il gigante americano. Robin Li Hanyong, il numero uno del motore di ricerca cinese Baidu, ha affilato i denti. Sul suo account WeChat, utilizzando un gergo da gioco di ruolo, ha scritto: «Se Google rientra sul mercato, ci darà l’opportunità di combattere all’ultimo sangue con spade e lance reali, e di vincere ancora una volta».

Fonte: diariodelweb.it (qui)

Economia, Esteri, Innovazione

E’ a Tokyo la prima Smart City sicura e interconnessa grazie alla Blockchain

La Blockchain, in italiano “catena di blocchi”, è un processo in cui un insieme di soggetti condivide risorse informatiche – dati, memoria, Cpu, banda – per rendere disponibile alla comunità di utenti un database virtuale, generalmente di tipo pubblico, ma ci sono anche esempi di implementazioni private, e in cui ogni partecipante ha una copia dei dati.

Alla base del funzionamento della Blockchain c’è la sicurezza poiché il database condiviso è centralizzato e criptato; in questo modo viene garantita la sicurezza e la conservazione delle informazioni in esso contenute, inoltre, per effettuare delle modifiche è necessario il consenso di tutti e comunque vengono registrate tutte le versioni precedenti.

L’utilizzo della tecnologia Blockchain è ancora molto nebuloso poiché si può spaziare dall’impiego all’interno del mondo criptovalute, fino ad arrivare ai settori più disparati come banche, trasporti, sanità, finanza, sicurezza, istruzione, assicurazioni. Questi che abbiamo appena elencato sono alcuni degli ambiti che, secondo gli esperti, saranno prima o poi contaminati dalla Blockchain.

Blockchain è anche pronta a sbarcare all’Università di Pisa,primo ateneo in Italia e tra i primi in Europa ad adottare il registro criptato digitale in cui archiviare in ordine cronologico e pubblico tutte le informazioni legate alla carriera universitaria, così da porre fine ai millantatori di titoli di studio.

Ma ora ai diversi ambiti alternativi di applicazione della tecnologia Blockchain se ne aggiunge un altro: il suo utilizzo nella progettazione di una Smart City.

Le Smart City combinano le tecnologie dell’informazione e della comunicazione nel tentativo di migliorare i servizi come i trasporti attraverso la razionalizzazione che produce una riduzione dei costi. Un esempio semplice in tal senso è l’impiego di sensori per la segnalazione di parcheggi liberi, oppure i sistemi di illuminazione che utilizzano i sensori per rilevare l’attività umana nella zona e a seconda dell’afflusso aumentano o diminuiscono l’illuminazione.

L’Internet of Things e la Blockchain rappresentano un ulteriore step per lo sviluppo delle Smart City. L’applicazione dell’Internet of Things all’interno di un ecosistema complesso come quello urbano porta con sé una serie di problematiche.

Se da un parte l’IoT può essere sfruttata per una gestione intelligente ed interconnessa del flusso del traffico, la Blockchain entra in gioco perché in questo contesto è fondamentale mantenere la sicurezza dei dati.

Nell’esempio che prenderemo in rassegna, ossia un’avanzata smartcity di Tokyo, c’è tutto questo ma anche molto altro. Si tratta di un esperimento implementato all’interno del distretto di Daimaruyu che, in un’area di 120 ettari nel quale il 30% degli edifici appartiene a Mitsubishi, riunisce tre quartieri di Tokyo compresi fra la Tokyo Station e il Palazzo imperiale.

L’area delle smartcity di Tokyo.

Ci sono diversi stakeholder e aziende che hanno preso parte al progetto. Fujitsu ha creato l’infrastruttura tecnologica, ossia quella che consentirà alle aziende di condividere i propri dati senza perderne il controllo.  Alla base di tutto c’è sempre la condivisione di dati in modo sicuro e strutturato per creare valore, rispettando sicurezza, privacy e relazioni tra le aziende che vi partecipano.

La tecnologia impiegata, di tipo open source, appositamente progettata sotto la Linux Foundation per un utilizzo in contesto aziendale, è una Blockchain Hyperledger Fabricche sfrutta la “tecnologia contenitore” per ospitare contratti smart chiamati “chaincode” che comprendono la logica applicazione del sistema. In Hyperledger Fabric le regole definite per la specifica Blockchain stabiliscono chi può validare l’ingresso di membri nella Blockchain, autorizzare e verificare ogni transazione.

 Fujitsu ha progettato l’infrastruttura software Virtuora DXattraverso la quale permette di condividere data e smart contracts. Virtuora DX è un servizio cloud che consente alle aziende di portare visibilità e valore nei dati in loro possesso, condividerli, e accelerare la co-creazione di valore. Questo tipo di tecnologia è necessaria perché i dati possono essere sfruttati in modo sicuro per creare innovazione senza però che essi escano dal perimetro aziendale.

All’interno di un’area come quella di Daymaruyu, un distretto ad alta densità economica dove sono presenti 106 grattacieli – 4.300 uffici -, 280mila persone impiegate, 40mila ristoranti, 90mila negozi, 13 stazioni ferroviarie e metro, 28 linee, hanno la loro sede principale 16 delle più grandi aziende al mondo.

In quest’area, che non ha nulla da invidiare alla città rappresentata nel visionario film Minoriry Report, l’infrastruttura tecnologica consente di condividere le informazioni di tipo economico che provengono dalla gestione dei palazzi di proprietà di Mitsubishi, dai sensori IoT raccolti da aziende di trasporti – è presente anche un servizio di bus senza conducente -, dai negozi relativamente all’andamento delle vendite e dalla disponibilità dei beni, dal flusso di dati provenienti dagli hotel sulle camere disponibili, oppure i tavoli liberi all’interno dei ristoranti.

Alcuni dei servizi garantiti dall’uso della blockchain e dell’IoT nella smart city di Tokyo.

L’aggregazione di questi dati a diversi livelli – si può anche conoscere l’andamento dei prezzi degli immobili al metro quadro, oppure quante persone sono presenti all’interno di un locale ma anche sapere il valore e la quantità di ogni transizione effettuata – potrà quindi essere sfruttata dall’azienda che si collega, previa autorizzazione, per progettare un determinato servizio oppure per la sua attività commerciale.

L’esempio del distretto di Daymaruyu conferma l’ascesa delle Smart City che ormai sono diventate un obiettivo principale per molti paesi.

Escludendo il Giappone, secondo i dati diffusi dall’IDC, i paesi che compongono l’area Asia-Pacifico spenderanno nel 2018 in progetti di città intelligenti 28,3 miliardi di dollari, raggiungendo i 45,3 miliardi nel 2021. In tutto questo la Blockchain ha rapidamente guadagnato consensi e può essere considerata una parte integrante del successo delle Smart City.

Questa tecnologia può essere utilizzata anche per assegnare un’identità digitale verificata ad ogni cittadinocosì da consentirgli di accedere ad un sistema interconnesso. Tutto questo si traduce nella fruizione di un’ampia gamma di servizi governativi, professionali e privati – come la richiesta di prestiti bancari, la gestione della proprietà, il trasporto pubblico, lo shopping online o il pagamento delle tasse -, il tutto con estrema facilità e velocità.

Fonte: “E’ a Tokyo la prima Smart City sicura e interconnessa grazie alla Blockchain”  di E. Ragoni su businessinsider.com (qui)

Democrazia diretta, Rivoluzione digitale, Tecnocrazia

L’utopia del tecnostato

Nel Cile di Salvador Allende ci fu un esperimento per migliorare il governo attraverso la tecnologia. In anticipo sulla rivoluzione digitale dei nostri giorni.

Nell’epoca della digitalizzazione si direbbe che spesso il futuro si lanci all’attacco del presente. Chi abita il mondo contemporaneo si sente circondato dalla fantascienza, da visioni che lo teletrasportano in un domani che nemmeno sapeva di sognare così ardentemente. Di recente l’innovatore per eccellenza della Silicon valley, Elon Musk, ha realizzato qualcosa che simboleggia bene questa sorprendente eccentricità. Prefigurando in modo straordinario futuri viaggi su marte, ha sparato in orbita un razzo SpaceX con a bordo un’auto tesla Roadster. Da allora un “astronauta” ruota intorno al globo terrestre in diretta streaming: un misto tra Ritorno al futuro e Guida galattica per autostoppisti. Si aprono prospettive magnifiche: luttuare nello spazio privo di gravità “all watched over by machines of loving grace”, come nella poesia di Richard Brautigan.

Anche al di là di questi fanciulleschi as- salti al cielo siamo costantemente messi di fronte alle potenzialità del futuro. Inquie- tanti alleanze tra le grandi aziende tecnologiche e i governi – un misto di multinazionali, centri studi e istituzioni statali – generano continuamente utopie “inaudite”, con tanto di promesse digitali che ci rimandano a una società smart in modalità “benessere automatico”.

Ma osservandoli da vicino, questi orizzonti fantastici hanno già l’aspetto di seplici cicli che si ripetono. Il luccichio di tante pretese d’innovazione serve solo a occultare un passato pieno di costellazioni di idee che fanno apparire le città e gli stati completamente digitalizzati di oggi come fantasmi tornati vivi e agghindati. Da molto tempo ormai i pionieri della tecnologia non fanno che sognare uno stato reso perfetto dagli strumenti tecnologici. Quindi è più facile valutare gli scenari futuristici di oggi dando uno sguardo alla storia. Per esempio al Cile socialista di Salvador Allende, tra il 1970 e il 1973, un periodo in cui non solo i conini tra fantascienza e scienza erano labili, ma gli ideali erano davvero nuovi.

Tra i protagonisti c’era uno dei perso- naggi più notevoli della storia della cibernetica e allo stesso tempo il suo enfant terrible: lo studioso e consulente aziendale britannico Staford Beer. I suoi scritti non solo misero le ali all’immaginazione scientiica degli anni cinquanta e sessanta del novecento e ispirarono musicisti come David Bowie e Brian eno. Stanno anche tornando alla ribalta. Recentemente, per esempio, Geof mulgan, l’esperto d’innovazione sociale e del centro studi Nesta, ha sottolineato quanto siano ancora attuali la igura di Beer, la sua “teoria grandiosa” e i suoi “brillanti lampi di genio”. Secondo mulgan, ancora oggi Beer riesce a spingere i governi a “creare nuovi collegamenti tra le componenti del sistema e a fare poi il salto verso un nuovo modo di fare le cose”.

Lo stesso Staford Beer oscillava tra due estremi: da un lato era uno spirito inquieto, barba lunga e tendenze socialiste, che dipingeva a olio, praticava yoga e scriveva poesie memorabili, anche sul calcolo costi- beneici. Dall’altro era noto per essere un appassionato di Rolls Royce e sigari, e per chiedere diarie da 500 sterline che, al cambio di allora, corrispondevano a circa 4.300 euro. Fece carriera fino a diventare uno dei consulenti aziendali più richiesti del suo tempo a livello internazionale. Non a caso si arrivò a parlare di lui come dell’uomo che avrebbe potuto governare il mondo.

Questo ambiguo gaudente, però, non deve la sua popolarità all’aura carismatica, se non secondariamente, ma al suo spiccato interesse per le organizzazioni e i sistemi complessi. L’ingegnere con il pallino dei computer seppe applicare eicacemente all’ambito aziendale quello che aveva ap- preso dal matematico Norbert Wiener sulla cibernetica, la scienza del controllo e della trasmissione delle informazioni negli esseri viventi e nelle macchine. Negli anni cinquanta Beer fondò l’istituto di ricerca operativa più grande del mondo, sviluppò sistemi informatici tecnologici per fabbriche fondati sulla logica del feedback. Più avanti scritti come Cybernetics and management e Brain of the irm ne fecero l’inventore della cibernetica per l’amministrazione.

I successi di Beer in campo economico suscitarono l’interesse dei governi per la sua innovativa teoria dell’organizzazione, incoraggiandone le ambizioni. All’inizio degli anni settanta, su incarico del presi- dente cileno Salvador Allende, Beer diventò il padre spirituale del progetto Cybersyn, una macchina per la democrazia diretta. Un progetto in cui non solo si manifestò lo spirito che segretamente avrebbe animato le successive fantasie di controllo dello stato digitale, ma che, senza averne intenzione, riuscì anche a sfiorare il grado zero della politica.

Cybersyn era un’utopia nata dalla necessità: un’“internet socialista” per dare nuovo ordine alla precaria situazione economica cilena che, in seguito alla svolta socialista, aveva afrontato riforme agrarie, nazionalizzazioni di banche e un embargo commerciale da parte degli Stati Uniti. Come ha scritto il teorico dell’informazione Claus Pias, c’era bisogno di una “rivoluzione per mettere ine alla rivoluzione”. ma come poteva funzionare? Da un lato Allende, che si barcamenava tra destra e sinistra, conservazione e progresso; dall’altro Beer, stretto tra eicienza e inefficienza, ordine e disordine. Da un lato Allende, che considerava la libertà un princi- pio regolatore; dall’altro Beer, che la considerava solo “una funzione programmabile dell’eicienza”. eppure, proprio a causa di questi contrasti, il futuro ministro dell’economia cileno Fernando Flores ritenne che Beer fosse la scelta ideale per rendere la complessa teoria dei sistemi una “scienza al servizio dell’uomo”.

L’algoritmo perfetto

Sulla carta politici cibernetici come Karl Deutsch già negli anni sessanta fantasticavano sul governo come sistema autonomo. A partire dalla fine del 1971 in Cile una squadra di designer, ingegneri e programmatori si dedicò a mettere in pratica questa teoria. In quanto condizione della “paciica via cilena al socialismo”, l’impresa avrebbe dovuto rendere possibile addirittura il coordinamento cibernetico della produzione, la mano visibile del mercato. Usando le classi- che formule sintetiche di oggi forse diremmo che si cercava un algoritmo perfetto capace di dare sostegno allo stato.

Per svolgere l’incarico, Beer si lasciò guidare da due idee cardine: quella di un sistema decisionale basato su informazioni trasmesse in tempo reale (la liberty machine) e quella di una struttura di sistemi parzialmente autonomi capaci di adattarsi in modo lessibile a situazioni contingenti (il viable system model). Partendo da questi elementi fu progettato il cosiddetto Cybernet, una rete informatica di telescriventi che connetteva le fabbriche del paese e che – come una sorta di sistema satellitare – trasmetteva via radio i dati della produzione al grande calcolatore centrale a Santiago.

Il pezzo forte di Cybersyn era la sua visione, in anticipo sui tempi, di una centrale operativa futuristica in cui raccogliere, aggregare ed elaborare i dati economici del paese: la leggendaria Opsroom. A guardarla sembra la fusione di una cupola geodetica in stile hippy, dell’astronave Discovery One di Kubrick e della passerella della nave stellare enterprise; mancavano gli extraterrestri, ma in compenso bastavano le sedie tulip rosse a trasmettere ben più di un sentore di futuri felici.

La loro disposizione circolare non era gerarchica ma ugualitaria e i loro accessori – un posacenere per i sigari e un portabic- chiere da cocktail – si adattavano perfetta- mente allo stile di vita lussuoso dell’inventore. Il designer tedesco Gui Bonsiepe, coinvolto nel progetto, parlava con entusiasmo della leggera “atmosfera da salotto” in “bui colori”: nella centrale di comando da cui gestire l’economia di un intero stato non vedeva solo un future panel, ma anche un “bar per il pisco sour e cose simili”.

La massima di questo circolo era: “la forma segue la funzione”. Numero e design delle sette sedie girevoli avrebbero dovuto stimolare la nascita di una “squadra massimamente creativa” (Beer), ofrendo lo spazio necessario all’attività degli spiriti liberi ma soprattutto aprendo una prospettiva a tutto tondo. Ovunque ci si girasse, gli schermi incastonati nelle pareti fornivano

in tempo reale dati sui livelli della produzione, sulla circolazione delle informazioni e sulle interruzioni nella distribuzione. In questo nuovo regime del sapere luido, il burocrate lento e poco trasparente era una sorta di nemico di classe: la carta, scriveva Beer con convinzione, d’ora in poi è “bandita”. La risposta era il lusso di dati.

Con i lussi di dati si voleva ricondurre il caos all’ordine, velocizzare l’amministrazione e condurre il governo in acque più calme e navigabili, nel dolce ronzio dei calcolatori. tutto questo seguendo princìpi progressisti: ogni lavoratore, non solo un’élite appositamente formata, doveva poter dirigere la “macchina delle decisioni” (Beer) usando i dieci bottoni colorati posti nel bracciolo di ciascuna sedia. La trasparenza e chiarezza erano importanti quanto la validità dei dati, e perciò lo stesso design della rete andava incontro all’utente (non molto diverso dallo slogan della Apple let’s make it simple, facciamola semplice), aiutandolo a risolvere i problemi in maniera veloce, pragmatica e quasi intuitiva. Insomma, “decisione e controllo” non era solo il titolo di un libro di Beer, ma anche una buona pratica.

Anche il programma Cyberfolk, vero e proprio predecessore degli attuali feedback in tempo reale come quelli di Facebook, faceva parte di quella dotazione a misura di cittadino che caratterizzava il progetto. Si trattava di uno strumento per misurare gli umori politici che rendeva possibile il “governo psicocibernetico della società” (Pias), consentendo a cittadine e cittadini, per esempio durante un comizio trasmesso in diretta, di comunicare le loro reazioni emotive positive e negative attraverso un tasto sul televisore. mentre le votazioni dell’“assemblea popolare elettrica” venivano mostrate al popolo cileno, i “desideri delle persone” (Beer) sarebbero apparsi in forma matematicamente valutabile anche sullo schermo felice/infelice nella Opsroom. In questo modo lo stato cibernetico, legittimato attraverso la democrazia diretta, si sarebbe potuto dirigere da una metaprospettiva sistemica – cioè comodamente seduti sulle confortevoli poltroncine – e senza neanche dover lasciare il pianeta terra.

La visione a 360 gradi che Beer progettò per la stazione di controllo non doveva mostrare solo gli umori momentanei e i dati sulla produzione. Come indicava già il previsore antiaereo di Norbert Wie- ner, doveva rendere calcolabile anche quello che non c’era ancora, rendere gestibili gli imprevisti. Insomma la cibernetica, che è anche alla base delle attuali stazioni di controllo digitali, è un’arte di governo basata su anticipazioni e interventi quasi impercettibili; è un modo di procedere che mira al dominio dei lussi d’informazione e, se serve, aggiusta i lussi di dati. Di conse- guenza ai controllori nell’Opsroom non si richiedeva l’imposizione autoritaria di quello che era stato pianiicato, ma l’adattamento alle circostanze, la lessibilità in caso di anomalie: rivedere, riprogrammare, migliorare. Lo scopo primario era sempre la tenuta del sistema.

La prova

Nell’autunno del 1972 arrivò il banco di pro- va per la tenuta del sistema di Allende. Cybernet fu usato con successo per la prima volta, ma sarebbe stata anche l’ultima. Decine di migliaia di trasportatori scioperaro- no per settimane mettendo a rischio l’approvvigionamento della popolazione. ma la rete delle telescriventi consentì di coordinare la produzione evitando così il caos no-ziale emancipatorio della tecnica sono rimaste ino a oggi insuperate.

Nella storia di questo “sogno speciale di un socialismo cibernetico” (eden medina), l’ironia sta nel fatto che i semi di Beer porta- no nuovi e discutibili frutti solo nel nostro presente integralmente votato al capitalismo della sorveglianza, in cui davvero tutto è connesso e collegato. È vero che anche oggi ioriscono teorie postcapitaliste sulla “necessità” di una post-work society, una società del postlavoro (Paul mason o Nick Srnicek) o addirittura di un “comunismo di lusso totalmente automatizzato”. ma non sono certo solo le concezioni socialromantiche a sostenere che la raccolta di grandi quantità di dati e gli algoritmi siano una so- luzione catartica, principalmente al “problema” della politica.

Proprio negli ambienti della scienza politica più pragmatica si sostiene spesso che il mondo sia ormai troppo complesso per forme di rappresentanza democratica tradizionale. I dibattiti classici sarebbero trop- po lenti e pressoché incapaci di produrre decisioni. Insomma, non ci sorprende che versioni sempre più ambiziose di uno stato tecnologicamente soisticato si afaccino sul mercato delle idee.

Governo snello

La “tecnocrazia diretta” del consulente po- litico Parag Khanna e lo “stato intelligente” proposto da Beth Noveck, direttrice del centro di ricerche GovLab ed ex consigliera di Barack Obama, seguono gli approcci più rivoluzionari del governo snello: sono concezioni che applicano alla politica le con- quiste del mondo della comunicazione digitale, sposando in toto la tendenza neoliberale per cui i compiti dello stato sono affidati a servizi privati. È vero che la continua intromissione delle multinazionali tecnologiche sul terreno della sovranità degli stati – si pensi a Google, che sta ristrutturando il sistema della scuola pubblica statunitense e ricostruendo secondo le sue necessità un intero quartiere di toronto – continua a provocare una strisciante inquietudine nell’opinione pubblica più critica. D’altra parte chi teorizza uno stato caratterizzato dalla partnership pubblico-privato, ritiene ancora che una piattaforma come Facebook, che ha più di due miliardi di utenti, sia una vivace fonte d’ispirazione per aggiornare Cybersyn in modo intelligente. e ritiene che lo scandalo di Cambridge Analytica sia solo una fastidiosa sbavatura.

Nei suoi modelli Noveck concepisce lo stato stesso come un social network, le cui istituzioni e i cui servizi non solo sono automatizzati, ma possono anche essere valutati direttamente dal cittadino attraverso lo smartphone come “esperienza di governo incentrata sull’utente”.

Come in un negozio online, seguendo la logica delle recensioni si potrebbero aggiungere facilmente stelline, pollici alzati e commenti critici in un esteso sistema di interconnessioni passando per la “macchina decisionale” individuale. Insomma, anche Beth Noveck vorrebbe che, con l’aiuto di social network come Linkedin o twitter, l’individuo avesse finalmente la possibilità di “partecipare al governo”. Le procedure amministrative in questo modo sembrerebbero più trasparenti e aperte e avrebbero maggiore legittimazione. Come imma- gina Khanna per il suo stato ideale, le procedure potrebbero seguire complessivamente i Key performance indicator, gli indicatori di prestazione che si usano nelle aziende.

Dialettica e contrattazione

Se una volta tutti sapevano che la politica implicava dei grandi grattacapi, l’interconnessione globale ha aperto l’epoca della liquidità smart, in cui sembra possibile una postideologica “democrazia senza politica”. Questa condizione permette di governare in modo efficiente e senza attriti, e infatti Khanna non è solo un grande ammiratore della Cina e di Singapore, ma anche della Svizzera, perché lì, dice, gli scioperi creano pochi disagi. È vero che nella “democrazia come dati” di Khanna le elezioni sono ancora previste, ma secondo lui sono “retrograde” e non sono lo “strumento migliore per cogliere l’umore prevalente”. Sarebbero più utili analisi immediate in tempo reale basate sui social network o dati di controllo tratti dall’economia e dalla società, “tendenzialmente più signiicativi” di qualsiasi plebiscito. In ultima istanza, gli “algoritmi intelligenti” sembrano “preferibili ai politici stupidi”, e perciò Khanna, di fronte a fenomeni d’irrazionalità politica come l’elezione di Donald trump, onnipresente su twitter, consiglia la partecipazione diretta al governo da parte di Watson, il supercomputer, una versione ben più potente del predecessore cileno.

Una delle utopie più radicali è stata formulata recentemente dalla star degli inve- stimenti tim O’Reilly, che ha proposto di ridisegnare le “vecchie” istituzioni, del resto nient’altro che “distributori di bevande”, secondo la concezione del “governo come piattaforma”. Negli ultimi tempi idee simili hanno trovato un certo seguito perfino nell’ambito di serissimi congressi specialistici tedeschi: anche qui sono stati illustrati lo “stato come piattaforma per gli ecosistemi” o, ricordando Noveck, “lo svolgimento online delle pratiche burocratiche come esperienza personalizzata”. ma il modello di stato proposto da O’Reilly prevede un sistema operativo più ampio: un meccanismo di algoritmi sul modello di Airbnb, che organizzi e soprattutto gestisca la società intera seguendo le valutazioni e il costante flusso di punteggi che producono. Lo scopo sembra essere una sorta di “magazzino di credito sociale” che, unendo spirito capitalista e controllo cibernetico, sostituisca la democrazia rappresentativa parlamentare e infine la superi.

Se Beer ancora metteva in guardia con insistenza dall’inclusione delle imprese private nel processo politico (dato che non hanno come scopo il bene comune), se i signori seduti nelle sedie tulip dell’Opsroom erano ancora rappresentanti eletti dal popolo, nel nostro presente interamente pervaso dalla merciicazione la sua progettualità cibernetica finisce per tradursi in un nuovo tipo di tecnocrazia: una cabina di regia neocibernetica, dove ad avere voce in capitolo non sono più gli “esperti”, ma la tecnica stessa.

Di fronte a questi deliri efficientisti non bisogna subito pensare agli abissi audacemente distopici della serie tv Black mirror. Eppure il traguardo ultimo dell’interconnessione totale è un decisivo cambio di paradigma che conduce a un ordinamento numerico in cui non c’è spazio per la politica, ma al limite per la logistica: qui le decisioni si prendono usando cicli continui di valutazioni automatizzati. Usando le parole di Khanna, in questa res publica ex machina il motto è “la connettività è destino”.

Questo è lo sfondo che fa del progetto Cybersyn, a discapito di tutte le sue aspirazioni emancipatorie, il primo vero momento di svolta a partire dal quale una convinzione si è inscritta sempre più a fondo nell’immaginario collettivo: l’idea che la tecnica possa fornire le migliori soluzioni ai problemi politici; che, come dice lo slogan “prima il digitale, poi le perplessità”, quel legno storto di cui è fatto l’uomo si

possa raddrizzare solo attraverso un sur- plus di interconnessione, di automatizzazione e di loop di valutazioni.

Da Noveck a O’Reilly, le più recenti narrazioni paradigmatiche sembrano riflettere in maniera stranamente distorta gli ideali di Beer. Sono utopie nel vero senso della parola: non-luoghi che spacciano un’architettura del controllo per democrazia totale, per elettronica elastica della vita quotidiana, a cui, in fondo, può partecipare solo chi si connette condividendo. La politica appare dunque non più pensata a partire dall’individuo, ma a partire dai suoi apparati. e così dipendiamo interamente “dalle creature che abbiamo messo al mondo” (Goethe).

In tutto ciò passa inosservato – e queste linee di frattura si rilettono già nella “fantascienza governativa” cilena (Burkhardt Wolf ) – il fatto che la democrazia non è appunto semplice tecnica organizzativa, non si può concepire come una tirannia delle quantità o come un lusso continuo di like e di clic. La democrazia si oppone a un pensiero che assolutizza l’eicienza, perché rimane fragile e sfugge a qualsiasi calcolo; perché continua a suscitare dibattiti e non si può deinire una volta per tutte. Al centro di quest’ordine politico, che pur essendo deicitario è migliore di ogni altro, dovrebbero rimanere la dialettica degli antagonismi, i processi di comprensione, la contrattazione delle posizioni politiche e la distribuzione del potere, non un mondo 2.0 che deve solo essere amministrato.

In questa prospettiva l’utopia cilena sembra l’ombra di un futuro ormai passato che, per un momento, ha promesso più di quanto non po- tesse mantenere. È una lezione di storia: parafrasando marx si è data la prima volta come tragedia per ripetersi ora come farsa. È una lezione che ci mostra come un ritorno a utopie tecnologiche realmente gravide di futuro sia ben più dificile del ritorno a casa dell’astronauta di Elon Musk. ma forse, alla fin fine, lo scopo di questo spensierato pilota automatico è proprio questo: preferisce fluttuare lontano, godersi la vista della nera assenza di gravità e girare eternamente intorno al sole sulle note di Space oddity, seguendo una traiettoria stabilita sempre in anticipo.

 

Da Republik articolo di Anna-Verena Nosthof e Felix Maschewski

Innovazione, Rivoluzione digitale, Società

Senso civico a punti. Un ranking per tutti. La sperimentazione a Suqian (Cina). Ecco come il Governo cinese controllerà la popolazione.

 

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A Suqian, una metropoli di cinque milioni di abitanti, si sta sperimentando un sistema di valutazione dei cittadini basato sui crediti. E su nuovi strumenti di sorveglianza.

Ha i capelli neri corti che comin- ciano a ingrigire sulle tempie, le sopracciglia spesse e le rughe sulla fronte, e sembra preoccupato. Il giorno della sua foto identiicativa Jiang indossava una camicia a quadri rossi e neri. Il 3 maggio alle 11h 01’ 16’’, all’incrocio tra Weishanhu lu e Renmin Dadao, a Suqian, Jiang ha attraversato con il semaforo rosso. Il giorno dopo il suo volto compariva su schermi di tre metri quadrati sistemati in corrispondenza di decine di incroci della città. La sua foto si alternava a quella di Li e di altri passanti che avevano attraversato con il rosso. Il 3 maggio Jiang e Li, di cui sono stati resi noti solo i cognomi, hanno già perso 20 dei mille punti della loro pagella di aidabilità. Per recuperare i “crediti socia- li” dovranno dimostrare il loro senso civico donando il sangue, distinguendosi come lavoratori modello o compiendo delle “buone azioni”.

A Suqian, una città con cinque milioni di abitanti nella regione costiera di Jiangsu, a nord di Shanghai, si sta sperimentando un sistema di valutazione per migliorare la fiducia tra i cittadini. Dando un voto ai comportamenti, le autorità vorrebbero spingere i cittadini a essere più “civili” e corretti.

Si stanno provando diversi sistemi. Le istituzioni cinesi (banche, assicurazioni, tribunali, aziende di trasporti) sono invitate a stilare liste di persone che hanno viaggiato senza biglietto, non hanno saldato un debito o hanno danneggiato qualcuno; persone a cui è vietato prendere un treno ad alta velocità o un aereo, o alloggiare in albergo. In alcune città anche le imprese devono superare un esame e ricevere una valutazione prima di poter partecipare a una gara d’appalto. Il progetto più inquietante, ma più vago, prevede di estendere il sistema di valutazione a tutti i cinesi.

Limiti legali

La città di Suqian è un ottimo esempio della politica del governo e dei suoi limiti. Il 20 aprile tutti gli abitanti tranne quelli con precedenti penali hanno ricevuto una valutazione su una scala da zero a mille punti in base alle loro azioni. Donare il sangue fa guadagnare cinquanta punti, come anche fare volontariato, ricevere un’onoriicenza da “lavoratore modello” o soccorrere qual- cuno in diicoltà. Al contrario pagare le bollette in ritardo può far perdere tra i quaranta e gli ottanta punti.

A quanto pare avere precedenti penali o aver commesso delle infrazioni costa tra i cento e i trecento punti. Un voto positivo dà diritto a riduzioni sull’abbonamento ai mezzi pubblici, a un accesso prioritario all’ospedale, a ingressi gratuiti nelle strutture sportive della città. Un voto negativo, invece, non cambia niente: a questo stadio il sistema svolge solo una funzione d’incoraggiamento, a diferenza di quello che sembrerebbe affermare la propaganda, anche a Suqian.

All’ingresso del municipio su un grande schermo rosso scorrono slogan in giallo. Uno recita: “Le persone aidabili possono camminare serenamente sotto il cielo, chi non è degno di fiducia non può muovere un solo passo”. È tratto dal documento che presenta il progetto, pubblicato dal consiglio degli affari di stato nel 2014.

La realtà però è più complessa. “Forse a qualcuno del governo piacerebbe avere una sorta di panottico, un occhio in grado di vedere tutto, ma altri si sono resi conto che non sarebbe legale e che i cittadini non approverebbero il progetto”, sottolinea Jeremy Daum, ricercatore specializzato in diritto cinese e autore del blog china law traslate, che si occupa spesso del tema. “Il progetto è dovuto passare al vaglio di giuristi, consapevoli che è impossibile introdurre delle sanzioni senza alcun fondamento legale. Per renderlo conforme alla legge hanno dovuto ridimensionarlo”.

Resoconto di affidabilità

Al municipio di Suqian, un grande ediicio moderno, hanno creato uno sportello unico per le questioni relative ai crediti sociali. Dietro a una scrivania una giovane impiegata sorridente mostra l’app sul suo cellulare: ha 1020 punti. gli utenti sono soprattut- to imprenditori o insegnanti che devono farsi rilasciare il loro “resoconto di affidabilità” per proporsi per un posto di lavoro o avviare un’impresa. ma questo documento, con valore legale, si limita a indicare che è tutto in regola. Le persone intervistate giudicano positivo il sistema e ripetono in coro la propaganda uiciale.

Il sistema non è un po’ intrusivo? “Sono informazioni che l’amministrazione possiede già”, minimizza una quarantenne dai lunghi capelli neri che vuole aprire un salone di parrucchiere. “non vedo cosa ci sia di male, così le persone saranno incentivate a essere più educate e a fare più attenzione”. Lin Junyue, il teorico del sistema dei crediti sociali, respinge ogni accusa: “In cina sono le persone famose, le élite, gli uomini d’affari a chiedere il rispetto della privacy. I contadini e gli operai se ne fregano della vita privata”.

L’aiuto dei big data

In principio il sistema era stato pensato per il mondo dell’economia. La rilessione sul tema era cominciata alla ine degli anni no- vanta, nel mezzo della crisi dei mercati asiatici. Il rallentamento economico aveva fatto emergere dei problemi di fondo, na- scosti ino a quel momento da una forte crescita. “In passato la cina si fondava sul co- munismo, con meccanismi di controllo molto rigidi. ma la rivoluzione culturale ha fatto precipitare il paese nel caos. Dopo il periodo delle riforme e dell’apertura, dal 1978 in poi, la cina è entrata nell’economia di mercato senza stabilire dei criteri di aidabilità. Le persone si sono arricchite, ma la iducia non c’è: secondo una ricerca recente condotta dall’Accademia delle scienze so- ciali cinese, il 70 per cento dei cinesi non si fida dei connazionali né delle istituzioni pubbliche”, precisa Lin Junyue, oggi direttore del dipartimento dei crediti sociali per china market society, un centro studi go- vernativo.

Il padre del progetto, che ci lavora da 19 anni, riconosce i limiti delle sperimentazioni attuali. “Le amministrazioni locali a volte ricorrono a misure eccessive contro chi ha commesso delle infrazioni, per esempio esponendo il suo nome su megaschermi. Questo però ha accelerato il pagamento delle multe in un caso su quattro. con i mezzi legali abituali si sarebbero avuti questi risultati? gli eccessi sono comprensibili, il sistema è in fase sperimentale, serviranno vent’anni, forse cinquanta perché sia messo a punto. nell’attesa, chi pensa di aver subìto un torto può comunque fare causa alle autorità locali”, dice.

Il progetto non ha fatto molti progressi ino al 2012, quando il presidente hu Jintao ha accennato a un sistema di valutazione del livello di aidabilità delle persone, delle imprese e delle amministrazioni locali. nel 2014 è stato pubblicato un piano d’azione e il progetto è stato portato avanti dal suo successore, Xi Jinping, che continua a raforzare l’autorità del Partito comunista e il controllo della società. L’era dei big data, la digitalizzazione e l’abbon- danza di dati disponibili lo aiutano. Il termine “credito” è diventato però anche un concetto alla moda, usato per designare progetti di ogni genere, pubblici o privati, come il “credito sesamo”, rilasciato dal gigante del commercio online Alibaba ai clienti delle sue piattaforme.

I voti alle aziende

A Suqian si valutano anche le aziende. come le società quotate in borsa o gli stati, giudicati da agenzie di rating, le imprese locali che vogliono partecipare a gare d’ap- palto devono prima essere valutate da agenzie specializzate che daranno un voto da AAA a D. Finora una ventina di aziende si sono sottoposte a questo esame, che riguarda sia l’area inanziaria sia la conformità delle loro pratiche alle norme sociali e ambientali. La Suqian Tongchuang credit guarantee è l’unica agenzia di valutazione di stato. Una garanzia di qualità, assicura una giovane impiegata.

Sullo stesso piano dello sportello unico, un altro dipartimento propone prestiti alle aziende. In una stanza c’è una parete coper- ta di schermi che trasmettono in diretta le immagini delle telecamere di sorveglianza installate nelle fabbriche dei clienti. “I prestiti sono garantiti dagli inventari dei nostri clienti. Li teniamo sempre sotto controllo”, spiega un giovane impiegato seduto davan- ti agli schermi. “Se un imprenditore disonesto tentasse di vendere tutto per poi sparire, noi potremmo agire rapidamente”, spiega. Il controllo dei clienti è molto serrato. “Se l’ammontare del prestito è alto, mandiamo anche dei nostri dipendenti nelle fabbriche”. In cina non regna la fiducia.

Da Le Monde, Articolo di Simon Leplatre

Economia, Rivoluzione digitale

Occupazione & Disruption: Cosa devono sapere i tuoi figli. Le azioni di governo.

di Paolo Barnard (qui)

Ecco cosa Roma deve immediatamente iniziare a fare. Ma prima due parole essenziali.

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La definizione di Disruption, come già scritto, è di qualcosa che arriva e cambia tutto ciò che è esistito prima. Le politiche di creazione di lavoro in Occidente che i nostri padri e noi abbiamo conosciuto finora, oggi saltano con la Technological Disruption, assieme a tantissimo altro. Ma di nuovo: i contemporanei di un fenomeno epocale di cambiamento sempre faticano a svegliarsi di fronte al nuovo, e questo si traduce in drammi, sempre. Quanti italiani oggi leggono i giornali al mattino cercando ansiosamente notizie sulle politiche del lavoro del Ministro Di Maio per laDisruption? Nessuno. Eppure la leadership mondiale non ha più dubbi sul fatto che essa ribalterà, come mai prima nella Storia, proprio l’occupazione di numeri impressionanti nel globo.

Ma il disinteresse degli elettori si traduce direttamente in un’obbligata mancanza d’azione da parte dei politici e dei media sullo sviluppo dell’Italia nella Disruption. Politicanti e media devono ‘vendere’ in cambio di voti e di audience, e non venderanno mai cose che nessuno cerca nei giornali la mattina. Infatti i politici hanno il vincolo del breve mandato e l’ossessione cieca del voto-subito entro il mandato, per cui non s’impegneranno mai in politiche e dibattiti che all’italiano medio sembrano fantascienza, e dunque rimangono a rimestare sempre la stessa retorica acchiappa voti sui soliti temi. Idem per i media: essi sanno che la Disruption è una news che oggi si può vendere agli italiani solo al 300esimo posto dopo la Casta, la corruzione, il politici-ladri, gli immigrati, le polemiche Tv ecc, e trattano il tema principalmente come folklore da futuristi. Risultato: non un singolo organo di stampa italiano sta davvero informando su come sarà stravolta l’economia, la politica e la fabbrica sociale di ogni Paese moderno per mano della Disruption.

E così si compie un circolo vizioso devastante per l’Italia, che, come sempre accaduto, arriverà arrancando da fanalino di coda mentre Francia, Germania, Svezia, Svizzera, Gran Bretagna, Russia, Cina, Sud est asiatico e ovviamente gli USA si saranno già spartiti l’immensa torta del lavoro e del PIL da Disruption. Risultato: i giovani italiani nel precariato, disoccupazione, e ancora disperatamente dipendenti da quel rivolo che gli rimane del risparmio di nonni e genitori degli anni 70’-90’, prigionieri di un Paese sempre più PIGS. E non ho fatto un errore di battitura: proprio PIGS, Portogallo Italia Grecia Spagna, perché invece l‘Irlanda sta capendo e cavalcando la Disruption, è ha già preso il volo da quell’acronimo infame.

Ma non è destino degli Dei che debba andare così, tutto sta a voi assieme ai pochissimi divulgatori come me che vi mettono nelle mani gli strumenti per capire la Disruption e per sapere cosa farà al PIL e all’occupazione. Quindi ora vi elenco almeno le fondamentali idee su cosa, come elettori, dovete subito pretendere dalla politica come azioni, leggi, e investimenti. Per l’ultima volta: ne va dei vostri figli e dei giovani italiani appena giunti sul mercato del lavoro, ma anche di molti di voi non proprio anziani.

AZIENDA CHIAMA MINISTERO ISTRUZIONE… MA 24 SU 24, 7 SU 7.

Nel capitolo precedente ho riportato con insistenza ciò su cui ogni singolo esperto mondiale è concorde: “Per mettere al riparo i nostri figli, e i giovani già oggi al lavoro, dai maggiori rischi c’è una sola arma concreta: per i primi una formazione scolastica e universitaria più aggiornata possibile che li presenti al mondo del lavoro come appetibili; per i secondi l’impegno di Stato e aziende nella riqualificazione, ma a vita… I governi giocano qui il ruolo principale con interventi generosi nei bilanci”.

Ma ahimè gli analisti ci pongono un altro problema critico: la velocità di sviluppo delle nuove tecnologie per il lavoro è talmente forsennata che è già stato calcolato che diversi skills – così si chiamano le competenze centrali per la Disruption – che vengono insegnati agli studenti oggi, tempo che gli studenti si presenteranno ai colloqui di lavoro in aziende saranno già obsoleti. In parole semplici: mentre tu studi intensamente un’applicazione di Machine Learning per l’edilizia, Machine Learning ne ha scovata una migliore, tu ti presenti al colloquio di lavoro e il datore se ne fa poco di te. Scrive il Massachusetts Institute of Technology Initiative on the Digital Economy: “Le tecnologie cambiano i modelli di business e molto spesso questi si traducono in uno sconvolgimento simultaneo del set di skills che le aziende necessitano. I business leaders sono concordi nel segnalare che già oggi questo gli crea difficoltà nell’assumere”. Questa non è una finezza che colpirà gli super specializzati: sarà un problema enorme proprio sul mercato del lavoro dei giovani, e altrettanto enorme per eventuali programmi di apprendistato, che rischiano di diventare degli autogoal con sprechi di finanziamenti enormi.

Ma la soluzione c’è, ed è la prima azione di partnership fra governo e aziende che va assolutamente chiesta dagli elettori. PROPOSTA 1.

Nel capitolo “DISRUPTING LA POLITICA DOMESTICA COME MAI PRIMA. BIG DATA”, nella seconda parte di questo articolo, davo conto dell’inimmaginabile potere di efficiente governanace che le tecnologie di Big Data possono oggi dare al governo. La stessa Cloud prevista in quel dirompente progetto dovrà essere usata da tutto il sistema produttivo italiano di beni e servizi in un dialogo diretto, proprio in tempo reale, col Ministero dell’Istruzione Ricerca e Università (MIUR), che gli segnali esattamente come sta cambiando la natura degli skills dentro le aziende, gli ospedali, e le varie istituzioni. Il MIUR, come sollecitano gli esperti internazionali, dovrà avere l’elasticità e prontezza di riflessi di trasmettere immediatamente a scuola e università il messaggio dei datori di lavoro, affinché il MIUR stesso in collaborazione con i docenti si attrezzi per cambiare in corso d’opera l’insegnamento degli skills ai giovani futuri dipendenti. Questo è il tipo di ambizioso progetto che un Paese oggi deve essere in grado d’intraprendere se davvero è serio sulla difesa del lavoro. Un salto innovativo in linea con gli attori vincenti nella Disruption. Scrive McKinsey Global: “I governi devono totalmente riconsiderare i modelli scolastici odierni. La questione è urgente, e devono mostrare una leadership di grande coraggio nel riscrivere i curricula. E’ un’elasticità che da decenni il mondo del lavoro attende”.

IL RESKILLING E’ SULLA BOCCA DI TUTTI. MA DEVE ESSERE INTELLIGENTE.

Come detto nel capitolo precedente “L’impresa del reskilling (riqualificazione) di milioni d’italiani non è un optional, è l’aria da respirare, e ogni singolo analista al mondo oggi lo dice chiaro: i governi giocano qui il ruolo principale con un intervento generoso nei bilanci”. Purtroppo su dove l’Italia degli asfittici bilanci dell’Eurozona troverà le risorse per riqualificare masse di lavoratori e per evitarci una vera catastrofe sociale soprattutto fra i dipendenti maturi, non ho la più pallida idea.  Su come procedere strategicamente gli esperti sono chiari. PROPOSTA 2.

Sarà un lavoro di reskilling (o di upskilling) dei lavoratori a vita, per ogni settore che fa PIL italiano. Dovrà essere intelligente, il che significa innanzi tutto che va fatto in partnership con il settore privato dell’Italia, il quale deve saper dimostrare una Vision ben oltre la sua tradizionale e provinciale parcellizzazione. Ma soprattutto le tecnologie di Big Data (di nuovo) dovranno essere usate da governo e datori di lavoro per “better forecasting data and planning metrics”, cioè saper prevedere le svolte e pianificare con largo anticipo la richiesta dei talenti, su cui poi appunto lanciare in tutto il Paese programmi di reskilling (o diupskilling) con chirurgica precisione (come indicato nella PROPOSTA 1).

PUNTARE SU ENABLING, E AVVISARE SU REPLACING.

Dunque l’Italia è alla storica sfida dell’Occupazione & Disruption. Il potere globale di quest’ultima è senza limiti, ma i governi possono governarla per tutelare l’impiego nella colossale tempesta dei cambiamenti, e di questo sto trattando qui. In questo sforzo il governo deve comprendere un aspetto cruciale che distingue le tecnologie della Disruption: esse si dividono in due rami, quelle di tipo Enabling e quelle di tipo Replacing. Come spiegato nel capitolo precedente, la Disruption porterà sia una richiesta di lavori già esistenti riformulati in nuove versioni, che proprio nuove professioni che oggi non esistono. In questo caso essa permetterà– sarà Enabling – vasti bacini di posti di lavoro. Ma è anche vero che essa spazzerà via schiere di mestieri perché le macchine ‘pensanti’ li rimpiazzeranno – sarà quindi Replacing. Ne consegue una scelta politica. PROPOSTA 3.

E’ totalmente futile ed economicamente distruttivo continuare a spendere sia fondi pubblici che fondi privati (delle famiglie) per formare giovani, o per incoraggiare lavori, destinati alla categoria dove le tecnologie saranno di tipo Replacing, poiché significa destinare esseri umani a un suicidio lavorativo certo. Ho trattato in modo esaustivo quali sono i settori professionali più favoriti e quali invece i più condannati dalla Disruption nel capitolo precedente. Occorre dunque una campagna di consapevolezza a carico del governo italiano che sia capillare e immediata nel tempo, così da permettere sia al settore pubblico che alle famiglie di agire cambiamenti in questo senso. Dall’altra parte l’Italia dovrà investire massicciamente nell’adozione del maggior numero di tecnologie Enabling per ovvi motivi di creazione di lavoro, ma dovrà anche essere scaltra nell’incoraggiare quelle che si adattano meglio alla struttura sociale, alla conformazione territoriale e produttiva del nostro Paese. Un esempio concreto: siamo uno dei popoli più longevi del mondo, perciò la cura extra ospedaliera dei nostri anziani arricchita dalle nuove tecnologie Enabling del settore è garanzia di creazione d’innumerevoli mansioni a ogni livello di complessità (settore del Personal Care). Sono mansioni che saranno utili a nuovi impieghi sia per i cittadini meno skilled che per gli specialisti. La medesima strategia va applicata alla nostra struttura architettonica, geografica, energetica et al., per di nuovo generare ampio impiego.

STATISTI, GRANDI IDEE: GLI INVESTIMENTI DELLA VISION NAZIONALE.

Non siamo, purtroppo, una nazione che si è mai distinta nella Storia moderna per la Vision, che è la dote degli Statisti di rilanciare in avanti con grandi idee su investimenti strategici, lungimiranti e dirompenti. Governare un Paese è un compito che comprende in sé migliaia di micro aspetti, micro politiche, micro nomine e un lavoro legislativo che di conseguenza è sfinente fra micro regolamenti, decreti, normative. Ma il vero mestiere del leader è quello proprio di dettare alla nazione le grandi ambiziose direttive, cioè appunto le Vision, che davvero disegneranno il futuro di milioni di cittadini. Oggi con la Disruption l’esistenza di queste grandi ambiziose direttive non è più un fiore all’occhiello per una nazione, al contrario, fa la differenza fra esistere o perire, fra potersi permettere una democrazia compiuta o languire nella servitù moderna. PROPOSTE 4,5,6,7.

Ho già pubblicato nella seconda parte di questo articolo quattro proposte di ampiezza nazionale e dirompenti per l’economia e per l’occupazione dell’Italia che il governo dovrebbe con urgenza considerare. Le trovate coi seguenti titoli:

DISRUPTING LA POLITICA DOMESTICA COME MAI PRIMA. BIG DATA.

DISRUPTING L’INTERO PIL ITALIANO COME MAI PRIMA: L’ESERCITO DEI DEVELOPERS.

DISRUPTING LA STORIA DEL COMMERCIO IN ITALIA: GLI SMART LOGISTIC NETWORKS.

DISRUPTING L’OCCUPAZIONE IN ITALIA: I PUNTI PRECEDENTI E LA SCUOLA DELLA DISRUPTION.

In questi tre interventi a puntate su Occupazione & Disruption ci sono abbastanza chiarimenti, dati, e proposte innovative per tutelare due generazioni d’Italiani a fronte del più dirompente cambiamento occupazionale dal 1775 a oggi. Continuo a ripeterlo: le soluzioni a problemi sistemici devono essere sistemiche, il resto sono truffe vendute da politici cinici a un pubblico stupido, i cui figli poi piangeranno per generazioni.

Economia, Rivoluzione digitale

Occupazione & Disruption: Cosa devono sapere i tuoi figli. Lavoro sì, Lavoro no.

di Paolo Barnard (qui)

PARTE SECONDA

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Riprendo dalla parte precedente. Nel vitale tema di Disruption & Mondo del Lavoro abbiamo già elencato dei fatti chiari.

A): La Disruption sta piombando sul mercato del lavoro con un grande pericolo: una violenta disparità nei redditi fra chi nella forza lavoro la saprà cavalcare e chi meno.

B): Ci sarà un effetto di trasformazione di questi tutte le professioni esistenti, principalmente per l’effetto di Artificial Intelligence (AI) e di Machine Learning, che rappresentano molto di più di ciò che l’arrivo dei personal computers rappresentò per tutte le professioni 40 anni fa. Questa trasformazione farà però nascere lavori che oggi non esistono.

C): Alcune professioni saranno eliminate del tutto. Le più a rischio di sparizione sono quelle caratterizzate da mansioni ripetitive, perché per esse l’AI è un portento.

D): Per mettere al riparo i nostri figli, e i giovani già oggi al lavoro, dai maggiori rischi c’è una sola arma concreta: per i primi una formazione scolastica e universitaria più aggiornata possibile che li presenti al mondo del lavoro come appetibili; per i secondi l’impegno di Stato e aziende nella riqualificazione, ma a vita.

E): L’idea di risolvere ogni problema di esclusione dal mondo del lavoro a causa della Disruption impiegando i Redditi di Cittadinanza è in ogni caso precaria, ma nell’Italia ingabbiata da limiti di spesa pubblica soffocanti (Eurozona), essa è fallimentare.

F): Diffidate di chiunque si esprima su questo tema di Disruption & Mondo del Lavoro in termini in bianco e nero, come chi dice: “Sarà un paradiso di nuovi lavori per tutti” vs “Sarà la fine del lavoro e vivremo emarginati mentre le macchine faranno tutto”.

Capire le tendenze in modo intelligente è ciò che salverà i vostri figli studenti, o i giovani occupati, da enormi incertezze nel mondo del lavoro. E io scrivo per permettervelo. Continuiamo con più dettagli sui quali lavori sono a rischio e quali invece no.

DOVE CADRA’ LA SCURE E DOVE INVECE CI SARA’ RICHIESTA.

Leggendo i grandi studi su Disruption & Mondo del Lavoro delle maggiori Consultancies del mondo, come PwC UK, Deloitte, McKinsey, o Accenture e di alcuni top accademici del settore – loro sono i massimi esperti, avanti anni rispetto ai Ministeri del Lavoro e molto più scientifici – si nota un accordo di tutti su quanto segue. Almeno nella prima fase della Disruption, i settori dove le perdite d’impiego saranno più forti a causa dell’AI, della robotica, e in genere delle nuove tecnologie, sono (in ogni settore cadranno diversi mestieri):

Impiegati, contabili e amministrativi; manifatturiero e manodopera produttiva; costruzioni ed estrazioni; avvocatura e giudici; installazioni e manutenzione; operatori gru e trattoristi; alcune mansioni in agricoltura; meccanici e riparatori; le arti, design, intrattenimento, settore sport e media; alcune mansioni in hotel e viaggi.

Quelli che invece guadagneranno maggior impiego in assoluto sono:

Business e finanza; managers; informatica e matematica; architettura e ingegneria; rappresentanti; istruzione e formazione; farmacisti; infermieri e OSS; assistenti all’infanzia; camerieri; pensatori creativi e manager per la Disruption.

Tutti gli altri settori coi loro mestieri stanno nel mezzo, ma, come già detto, nessuno sarà risparmiato dalle nuove tecnologie. Però attenti, frenate subito.

E’ dunque vero che schiere di persone perderanno il loro lavoro così come l’hanno sempre conosciuto, ma la Disruption anche in questi casi offre possibilità di recupero, nella riqualificazione, nell’aumento di richiesta per certe professioni, e nel fatto che nasceranno lavori che oggi non esistono.

Tutto qui dipende da due fattori in ordine d’importanza: la velocità dei governi nel legiferare misure per cavalcare la Disruption e per favorire la nascita dei nuovi lavori; e l’intelligenza dei datori di lavoro nel capire che l’epoca dell’egoismo del profitto è morta, gli porterà solo fallimenti certi e che invece il futuro digitale impone intelligenza, che significa coordinamento fra aziende, e fra di esse e lo Stato.

E’ per questo che io oggi ‘grido’ a voi elettori/genitori di capire cosa sta accadendo subito, ora, non domattina, e di agire di conseguenza presso i partiti di riferimento e la stampa. Pena lo scempio dell’occupazione giovanile, ma anche di molti altri, in Italia.

RE-IMPIEGO E NUOVE PROFESSIONI.

Entro il 2030 si stima che fino a 375 milioni di posti di lavoro globalmente dovranno essere reskilled, cioè riqualificati. Ad esempio: nel manifatturiero e nella manodopera produttiva, dicono gli esperti, cadranno mansioni nelle mani dell’AI e robotica, ma il lavoratore potrà essere re-impiegato in fasi diverse del lavoro aumentando la produttività. Gli servirà solo un reskilling. Il colosso cinese dell’e-commerce Alibaba ha calcolato che i suoi robot da magazzino risparmiano a ogni magazziniere almeno 50.000 mosse fisiche al giorno, riducendone molto lo stress fisico ma soprattutto liberandogli tempo per aumentare la produttività, e senza lavorare un minuto di più nell’orario regolare. Naturalmente Alibaba li ha reskilled. Quindi l’impresa del reskilling di milioni di italiani non è un optional, è l’aria da respirare, e ogni singolo analista al mondo oggi lo dice chiaro: i governi giocano qui il ruolo principale con un intervento generoso nei bilanci.

Ma una nazione con vincoli di budget al limite del sadismo sociale (citaz. Sapelli) come diavolo farà a riqualificare sul lavoro due o tre milioni d’italiani? Oltretutto gli studi ci avvisano di una cosa: si è detto che il reskilling è l’ordine di scuderia di chiunque, ma va fatto velocemente, perché lasciare languire nella terra di nessuno i lavoratori in transito, significa perderli per strada con danni economici enormi. Vi dico subito fin da ora che addossare questo immane compito ai datori di lavoro, blandendoli con sconticini fiscali e mezze misure come i mini-bot, è prima di tutto ingiusto, ma poi tecnicamente impossibile. Come farà l’Italia soffocata nei bilanci dall’Eurozona, quando, come ho già scritto diverse volte, tutti gli esperti mondiali invocano chiaramente interventi di governo?

Si è detto che esiste un consenso generale degli analisti sul fatto che nasceranno nuove professioni, o vi sarà più richiesta di alcune. Partiamo dalle seconde. Già ora la Disruption, nelle parole di 20.000 imprenditori europei da tutti i settori principali e intervistati dalle Cosultancies, sta imponendo un aumento vertiginoso nella richiesta di alcune professioni, che si prestano per assorbire sia una quota di futuri licenziati (reskilled), che i giovani post laurea. Offro tre esempi rappresentativi di altri per non dilungarmi con trenta, in ordine crescente di complessità:

1) Rappresentanti. I prodotti di domani stanno nascendo in queste ore o sono sconosciuti oggi, oppure saranno gli stessi di oggi ma radicalmente innovati. Occorrono disperatamente venditori che siano formati prima di tutto a spiegare quei prodotti, poi a venderli a privati e governi, ma anche per raggiungere nuove fasce di clienti alle quali l’azienda non è abituata.

2) Gli analisti dei dati. Non occorre un dottorato per questa mansione, ma di certo un buon reskilling anche in assenza di laurea. Le aziende oggi sanno che Big Data è la scoperta nucleare del commercio di prodotti e di servizi, cioè saper analizzare e trarre conclusioni intelligenti dall’immane massa di dati che la Disruption gli mette a disposizione. Il successo si gioca qui, nel terzo millennio. La richiesta di analisti dei dati è destinata a esplodere fra pochissimi anni.

3) Per i laureati brillanti c’è già ora spazio per ricoprire un ruolo dirigente richiestissimo nei maggiori settori di commercio e servizi, cioè il Manager della Disruption. E’ colui che si specializza nel guidare l’azienda (piccola, media, grande), ma anche il settore pubblico, nella tempesta di cambiamenti che l’era digitale porta ogni minuto.

In generale grazie alla Disruption sono previsti globalmente entro il 2030: 130 milioni di nuove assunzioni in Sanità generale e assistenza agli anziani; 50 milioni nelle tecnologie; 20 milioni nel settore energetico.

Le professioni del tutto nuove che si prevede nascano grazie allaDisruption, sono (non chiedete i nomi esatti di questi mestieri perché neppure ancora esistono):

Gli specialisti intra-umani, cioè intelligenza emotiva, capacità di persuasione, gestori delle emozioni umane nel sociale, e i creatori di motivazione; i pensatori creativi in ogni settore, sia scientifico che industriale che amministrativo, poiché  essere super specializzati ma ottuse ‘scatole di dati’ non innova nulla in azienda; gli ottimizzatori delle energie rinnovabili; gli operatori nella lotta al cambiamento climatico.

Come scritto nel riquadro sopra, e non smetterò mai di sottolinearlo, ogni singolo esperto in Occupazione & Disruption esistente ‘grida’ sempre la medesima cosa, che la Consultancy McKinsey&Co. ha espresso nel dicembre 2017 con una frase lapidaria: “La moltiplicazione dei lavori potrebbe più che compensare le perdite a causa dell’automazione. Ma nulla accadrà per magia – richiederà che i governi e il business sappiano creare le opportunità”. E qui non posso che ripetermi: è per questo che io oggi ‘grido’ a voi elettori/genitori di capire cosa sta accadendo subito, ora, non domattina, e di agire di conseguenza presso i partiti di riferimento e la stampa. Pena lo scempio dell’occupazione giovanile, ma anche di molti altri, in Italia. Non fate l’errore di pensare “…dai, c’è tempo, oggi abbiamo ben altro a cui pensare“, equivale a iscriversi come Paese alla classe dei perdenti, e di nuovo: chi piangerà saranno i nostri giovani e giovanissimi.

Fine seconda parte

Economia, Rivoluzione digitale

Occupazione & Disruption: Cosa devono sapere i tuoi figli.

di Paolo Barnard (qui)

PRIMA PARTE

Definizione di Technological Disruption: un cambiamento in tecnologia così potente da trasformare in breve la vita umana sul Pianeta Terra. Nella Storia: il fuoco, l’agricoltura, la matematica, la stampa, le macchine a vapore, l’elettricità. Oggi per Technological Disruption s’intende l’arrivo delle nuove tecnologie digitali potenziate dall’Artificial Intelligence, che stanno cambiando davvero tutto.

INQUADRARE IL PROBLEMA. COSA STA ACCADENDO ALLE NOSTRE VITE.

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Quando nel 1775 lo scozzese James Watt diede vita alla più dirompente Disruption della Storia con l’invenzione della macchina a vapore, ecco cosa accadde alle nostre vite:

La cosa mozzafiato di questo grafico (Brynjolfsson-McAfee, 2014) è il dato sul grado di sviluppo sociale umano, che significa benessere e quindi possibilità democratiche. Per 9.700 anni filati le condizioni di vita del popolo comune rimasero sostanzialmente identiche, a un livello abominevole, spesso peggio degli animali selvatici. Poi arrivò la Disruption di Watt – e delle scienze post Galileo con l’elettromagnetismo di Faraday e di Maxwell – e in Occidente tutto cambiò di colpo, perché cambiò il lavoro, aumentarono i redditi e con essi la rivendicazione dei diritti. E’ vero che la Disruption di allora si portò dietro una buona dose di lacrime e sangue prima di darci la modernità del benessere, che tuttavia furono nulla confronto a 9.700 anni di standard di vita abietti oltre l’immaginabile. Ma l’altra faccia, gloriosa, di quell’esplosione tecnologica fu di fornire alle lotte sociali mezzi tecnologici di diffusione, e quindi di successo, impensabili prima, fino appunto alla moderna civiltà.

Oggi la Disruption delle nuove tecnologie digitali potenziate dall’Artificial Intelligence (AI) sta scatenando un’altra storica impennata dell’umanità, che è però di molto superiore a quella di Watt per l’enorme potere tecnologico odierno. E di nuovo tutto si gioca su come cambierà il lavoro. Entro il 2035, quindi parliamo soprattutto del destino dei nostri figli ma anche dei trentenni di oggi, avremo questo:

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Il grafico c’illustra il grado di penetrazione delle più dirompenti tecnologie della Disruption nel mondo di tutti i giorni, cioè nel lavoro. Davvero tutto sta cambiando, esattamente come tutto cambiò dopo macchina a vapore ed elettromagnetismo, ma mi rendo conto che voi, come i contemporanei di Watt e Maxwell, fate una grande fatica a rendervene conto. Tuttavia il rischio fatale e, non esagero, tragico per l’Italia del lavoro è di rimanere indietro. Significherebbe un prossimo secolo di arretratezza e bassa economia per tutti i nostri giovani e per i loro figli. Nel 2016 Il World Economic Forum lo disse senza mezzi termini:

Con cambiamenti così veloci, la capacità di anticipare la futura richiesta di competenze, di nuovi lavori e i loro effetti sull’occupazione è sempre più cruciale per i governi e per il business… Chi non si prepara affronterà costi sociali ed economici enormi“. Scrollare le spalle da scettici e illudersi che “…dai, c’è tempo, oggi abbiamo ben altro a cui pensare“, equivale ad iscriversi come Paese alla classe dei perdenti, e di nuovo: chi piangerà saranno i nostri giovani e giovanissimi.

L’articolo che precede questo vi ha spiegato l’AI e per un buon motivo: essa cambierà il mondo del lavoro esattamente come la scoperta del linguaggio ha cambiato la storia della specie umana. Perché intelligenza è tutto, muove tutto, interpreta tutto, serve in tutto. Demis Hassabis, CEO di Google DeepMind cioè l’azienda che sta al centro della galassia AI, ha detto:

Il nostro goal è di conquistare l’intelligenza. Poi di usarla per risolvere tutti gli altri problemi”.

INQUADRARE IL PERICOLO: DISRUPTION & DISEGUAGLIANZA DEI REDDITI PER CHI RIMANE INDIETRO.

Il pessimismo delle prossime righe è realismo necessario a capire quale sfida affrontiamo come nazione, ma su di esso è nostro dovere cercare poi i rimedi possibili, ed esistono per fortuna.

Quando si parla di Disruption e AI in relazione al mondo del lavoro, tutti subito corrono a pensare ai robot e agli operai licenziati. Di certo questo sarà un problema, ma non tanto quanto s’immagina. Più avanti ne parlerò. In realtà il vero grande pericolo nella Disruption è che essa, ad oggi, sempre più è sinonimo di questo: un vertiginoso aumento della disparità dei redditi, più che perdita incontrollabile del lavoro.

Il primo campanello d’allarme che deve suonare nelle orecchie dei genitori italiani viene da una serie di dati americani, che come sempre da 60 anni anticipano quelli europei. Nei primi 15 anni di digitalizzazione dell’economia USA, le disparità di redditi fra colletti blu (licenza liceale) e colletti bianchi (lauree) schizzò in alto, perché i secondi grazie alla formazione digitale universitaria poterono approfittare dei nuovi lavori ben pagati, gli altri no e subirono in pieno l’impatto devastante del crash bancario del 2008. Addirittura il fenomeno ha raggiunto un livello di gravità tale che fra i colletti blu in America c’è un’epidemia di suicidi per disperazione, descritti in uno studio del Premio Nobel Angus Deaton e di Anne Case nel 2014.

Vero è che gli Stati Uniti sono un incubo d’abbandono sociale dei deboli, dove il Welfare quasi non esiste, ma l’Europa delle Austerità sta demolendo il suo Welfare ogni giorno di più, e i criminosi limiti di spesa pubblica che impone agli Stati membri escludono in via categorica che i vari schemi di Reddito di Cittadinanza abbiano un potere di fuoco sufficiente a evitare al nostro Paese un’Apartheid fra inclusi ed esclusi nella Disruption. Paradossalmente invece ha senso che negli Stati Uniti, detentori di moneta sovrana e sovrani nel Parlamento, molti economisti dell’era digitale stiano parlando di Universal Basic Income (un tipo di Redd. di Citt.) proprio per salvare gli esclusi: loro se lo potrebbero permettere, noi no.

Per i gravi motivi detti sopra, assolutamente non fatevi ingannare da chi, come questo governo, rassicura milioni di giovani con queste soluzioni. No: finché Eurozona sarà, il realismo mi costringe a dirvi che l’unica arma che rimane ai vostri figli per difendersi dal destino denunciato da Angus Deaton e Anne Case è una formazione solidissima ai nuovi lavori della Disruption (che non sono solo tecnologia, come spiegherò successivamente).

Dunque è chiarissimo il messaggio per genitori e ragazzi, che riassumo:

La seconda ondata di digitalizzazione in corso oggi con la Disruption porta soprattutto con sé il pericolo di un enorme divario nei redditi, oltre a una sostanziale dose di lavori perduti. Questo non solo fra colletti blu e colletti bianchi, ma anche fra i nostri presenti e futuri colletti bianchi, dove chi all’università ha studiato gli skills (competenze) avanzati per la digitalizzazione (non solo tecnici ma anche umani) avrà i lavori migliori, chi ha comunque un laurea ma priva di quel sapere sarà lasciato indietro con forti rischi economici.

Allora diventa prioritario per tutti, genitori e ragazzi, sapere quali sono quegli skills e se le scuole superiori e università italiane sono davvero attrezzate per insegnarli. Dei primi parlerò in altro momento, ma la risposta alla seconda domanda è no.

Il Ministero dell’Istruzione Università e Ricerca (MIUR) ammette oggi a denti stretti, nel rapporto Scuola Digitale, una situazione formativa italiana desolante a fronte della Disruption. Ecco alcuni fatti pubblicati dal MIUR:

– I dati OCSE dicono che ogni quindicenne italiano usa il computer in classe molto al di sotto della media europea, molto meno dei greci, e quasi un terzo del tempo di un australiano.

– Sempre media OCSE: i docenti italiani son in assoluto i meno preparati all’era digitale.

– Nel Digital Economy Index l’Italia languisce al 25mo posto su 28 Paesi, ha lacune dappertutto, e nella velocità di connessione alla Rete è in fondo alla classifica europea con un umiliante 9.2 Mbps, davanti solo a Grecia e Cipro. Nelle aule si soffre moltissimo di questo.

– Il MIUR scrive di suo pugno: “… il processo di diffusione della scuola digitale negli ultimi anni è stato piuttosto lento… azioni spesso non incisive e non complessive”. (si consideri che un Ministero sempre abbellisce la realtà, quindi…)

Sapere è lavoro, ma un buon lavoro oggi, nella Disruption, significa sapere molto. Con una situazione del genere c’è da mettersi le mani nei capelli e di certo le misurette post Job Act tipiche di questo governo, almeno per ora, sono inadeguate alla realtà. E la realtà è questa:

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Questa mappa ci racconta tutto. L’Italia non solo sprofonda nell’economia tradizionale (a causa soprattutto dell’Eurozona), ma colpevolmente i suoi governi degli ultimi 15 anni l’hanno tenuta fuori dalla realtà, cioè dalla Disruption, e infatti siamo gialli, cioè quasi ultimi nell’innovazione, e dunque fra gli ultimi nelle prospettive di lavoro dei nostri figli. Questo è quanto, purtroppo. Le più estensive ricerche sull’impatto delle nuove tecnologie sul lavoro (Deloitte,Accenture, McKinsey&Co., MIT et al.) includono il seguente dato: globalmente da 1 miliardo a 2 miliardi di lavoratori perderanno il lavoro entro il 2030, la maggioranza in Occidente, e molti dovranno essere ri-formati. Con limiti di spesa pubblica drammatici, chi si farà carico di questo? Inoltre viene posto un altro problema: la scuola deve avere una conoscenza avanzatissima della Disruption in continuo aggiornamento, perché è molto probabile che una parte degli skills insegnati oggi saranno obsoleti per il mondo del lavoro nel giro di 5-8 anni in media. Con un ritardo nelle scuole e università italiane di questo genere cosa farà l’Italia? Il presente governo ha piani adeguati nei programmi? Io non li ho trovati.

INQUADRARE QUALI LAVORI SONO A RISCHIO, QUALI MUTERANNO RADICALMENTE.

Il campo qui è vastissimo, perché sappiamo che generalmente un Paese moderno ospita oltre 900 mestieri, e siccome una buona parte delle nuove tecnologie della Disruption stanno sbocciando in queste ore o sbocceranno appena domani, è impossibile davvero essere precisi. Ma una cosa è più che evidente: la tecnologia su cui già ora si possono fare previsioni certe è proprio l’AI di Machine Learning che vi ho appena spiegato qui. Questo perché è una tecnologia perfetta per sostituire i lavori ripetitivi d’ufficio, per far funzionare la logistica aziendale, per far ‘pensare’ i robot nelle industrie, ma anche per sostituirsi all’umano in compiti complessi all’interno di molti mestieri sofisticati.

La MIT Initiative on the Digital Economy per dare al pubblico un’idea del grado di penetrazione praticamente ovunque di Machine Learning, cioè del fatto che davvero saranno pochissimi i lavori di domani che non avranno almeno in qualche segmento una AI a sostituire qualcosa o qualcuno, afferma che il mestiere in assoluto più ‘blidato’ contro la Disruption è il… massaggiatore. All’altro estremo invece le mansioni che sembrano davvero destinate a essere falcidiate sono gli impiegati, i contabili, gli amministrativi in generale. Ma andiamo più nello specifico, perché mentre è scontato che fra i colletti blu tanto dovrà cambiare, molti genitori e studenti ancora non comprendono purtroppo cosa accadrà alle professioni dei colletti bianchi, degli specializzati, che siano medici, avvocati, commercialisti, o persino ingegneri informatici (esempio estremo, ma anche fra loro cadranno teste con l’AI).

Fine prima parte.

Economia, Rivoluzione digitale

Iniziamo con l’innovazione. L’Intelligenza Artificiale sarà sempre più presente. Ecco la grande trasformazione delle economie avanzate.

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CAPIRE L’ARTIFICIAL INTELLIGENCE NON E’ PIU’ UN OPTIONAL. ECCOLA SPIEGATA (dal blog di Paolo Barnard qui)

Nell’educazione politica dei cittadini va oggi inserita come prioritaria la comprensione dell’Artificial Intelligence (di seguito AI).

Così come cinquant’anni fa l’arrivo del personal computer ha cambiato ogni angolo della vita privata, professionale, economica e politica, così è oggi l’AI, solo immensamente di più. Le ‘macchine pensanti’ saranno ovunque e gestiranno quasi tutto, punto. Ma su cosa davvero sia l’AI, e cosa sarà, c’è un’enorme confusione, soprattutto a causa delle fantasie cinematografiche e dell’iperbole nei media. L’AI va quindi capita con lucidità. Ma attenti: date le sue straripanti applicazioni nella politica, economia, istruzione, lavoro e salute, oggi non saperlo non è più un optional.

Dovete iniziare da questa domanda: gli umani già posseggono l’intelligenza, frutto di un improvviso e ancora misterioso salto genetico avvenuto fra 200 e 100 mila anni fa in un ramo di primati; allora perché oggi stiamo ossessivamente cercando di crearne un’altra, quella artificiale?

Esiste solo una risposta: perché quella artificiale dovrà essere molto più potente di quella umana. Infatti non avrebbe senso investire miliardi e lavorare decenni per riottenere delle capacità artificiali pari a quelle naturali dell’uomo. Ma qui ho appena usato un termine che è la chiave di tutta la comprensione della vera AI: “capacità”. Infatti l’attuale AI non ha assolutamente nulla di intelligente, cioè nulla di neppure lontanamente comparabile alle funzioni cognitive del cervello umano; essa ha unicamente delle capacità computazionali prodigiose che gli derivano da istruzioni sempre più sofisticate. Fra capacità artificiali e intelligenza naturale esiste un divario di dimensioni colossali. L’aver usato Intelligence nella locuzione Artificial Intelligence ha portato a un’incomprensione enorme in tutto il mondo, e infatti la locuzione più idonea sarebbe stata Capacità Artificiale, non intelligenza artificiale.

Da più parti, in tema di AI, giungono apocalittici avvisi e scenari che ipotizzano un mondo da incubo dove super macchine capaci di pensieri e sentimenti propri potrebbero schiavizzare la razza umana e dunque conquistare il potere. O peggio: impossessarsi delle atomiche ed estinguerci. Queste sono sciocchezze, che appunto spariscono quando si ha chiara la sopraccitata differenza fra capacità artificiali e intelligenza naturale. Quest’ultima, che appartiene unicamente a noi, è, e quasi certamente rimarrà, irraggiungibile dalle macchine, ed è bene subito chiarirvi il motivo. Purtroppo mi devo soffermare parecchio su questo punto perché se rimaniamo distratti dall’AI fantasy dei film, finiamo per non capire niente del colossale impatto che questa tecnologia davvero avrà sulla politica, l’economia, l’istruzione, il lavoro e la salute degli umani.

SCORDATEVI C-3PO E TERMINATOR.

Prima cosa sia chiara un’altra distinzione: non esiste solo la AI, ma anche la AGI, che è la Artificial General Intelligence. La prima si riferisce a macchine che sotto la totale istruzione e direzione dell’uomo svolgono compiti estremamente complessi, come: tradurre le lingue all’istante; trovare segni patologici invisibili ai medici negli esami clinici; predire i Mercati nelle variabili indecifrabili ai traders; riconoscere miliardi di volti e collegarli senza errore ai conti correnti o ai file di Polizia; interpretare e catalogare migliaia di miliardi di dati in frazioni di secondo per uso e consumo umano, ecc. Quindi si badi bene: stiamo parlando sempre di capacità eccezionali, e non d’intelligenza cognitiva tipica dell’umano. La seconda, l’AGI, è invece il sogno dei tecnologi: le stesse macchine, con le stesse capacità, ma dotate di totale autonomia sia nell’imparare per conto proprio che nel ‘pensare’ per conto proprio alle soluzioni. Cioè che non richiedano più nessuna istruzione e direzione dell’uomo. Di nuovo però, si badi bene: parliamo in questo caso di un passo oltre, ma sempre di tecnologie e nulla a che vedere con l’esatta riproduzione di un cervello umano. Quindi neppure l’AGI rappresenta davvero le futuristiche, anche se emozionanti, fantasie alla Star Wars, Blade Runner e filone successivo.

Che replicare esattamente un encefalo umano dentro un’AGI, cioè creare la cosiddetta Superintelligence, fosse un’impresa pressoché irraggiungibile fu la chiara intuizione del padre dei computers, Alan Turing, il genio matematico inglese scomparso nel 1954. Turing lasciò ai posteri una sfida in questo senso, contenuta nel celeberrimo Turing Test che includeva anche una versione aggiornata col nome di Imitaton Game: in questi test si sarebbe misurato se mai un computer avrebbe ingannato la mente umana mostrando intelligenza superiore (e qui si parla d’intelligenza complessiva, non di abilità agli scacchi o a Go). Fu un primo tentativo di far comprendere quanto lunga in realtà fosse la strada prima di poter davvero decretare che una macchina sa pensare come un uomo, ammesso che quella strada esista in assoluto. Alan Turing lasciò infatti una predizione pessimistica in questo senso, nelle seguenti lapidarie parole: “La questione se le macchine possono pensare è talmente insignificante da neppure meritare una discussione”. I fatti gli stanno dando pienamente ragione a 60 anni di distanza e dopo salti tecnologici giganteschi: la Superintelligence non solo non c’è, ma si allontana sempre di più.

Considerate le seguenti cose, solo quattro punti per far capire, perché davvero dobbiamo sterilizzare il campo dalle fantasie degli esaltati sulla AI, pena il perdere uno dei più importanti treni politici ed economici della Storia, che è la vera AI:

  1. A) Nella Image Recognition, una branca della AI, ancora oggi per ottenere da una macchina ciò che il nostro cervello fa in una frazione di secondo occorrono sforzi tech immensi. Immaginate un numero 9 scribacchiato male: l’occhio e cervello umani dopo pochi istanti, senza alcuno sforzo, sanno capire se si tratta davvero di un 9 o di una g, o di disegni infantili di un girino o di un palloncino attaccato al filo, ecc. Per far sì che un computer arrivi a questo misero risultato, il lavoro di software e di artificial neural networking che gli va insegnato è estenuante. Da qui immaginate cose come la contemplazione di un affresco, e la miriade di stimoli che un cervello umano ne riceve, che vengono capiti all’istante, e che sa poi riprodurre in ogni campo cognitivo in pochi secondi per, infine, produrre azioni di ogni sorta; e di nuovo immaginate cosa ci vorrà per attrezzare un computer ad avere quelle stesse capacità se un 9 scribacchiato male richiede oggi sforzi di decine di ricercatori per farglielo azzeccare.
  2. B) Si fa un gran parlare in AI degli Artificial Neural Networks, cioè imitazioni delle strutture neuronali del nostro cervello messe dentro i computers per renderli più ‘intelligenti’. Sono tecnicamente fondamentali, ma anche qui la realtà è disarmante. Il cervello umano ha 85 miliardi di neuroni interconnessi, e nessuno al mondo oggi sa davvero come funziona neppure un singolo neurone. Alla New York University il luminare delle neuroscienze Rodolfo Llinas ha tentato per anni di capire come agisce il mega neurone del calamaro gigante, cioè come fa ad esempio a fagli distinguere un capodoglio da una roccia, ma è ancora… in alto mare. Perciò quando nella fantasia popolare si parla di AI o di Artificial Neural Networks come se fossimo a un passo dal trovare cervelli umani artificiali perfettamente riprodotti che ci faranno psicoterapia in un ‘Apple consultorio’, o che svolgeranno indagini di polizia, si parla di stupidaggini.
  3. C) Un altro trofeo del nuovo mondo in AI sono i sistemi di navigazione che tutti usiamo in auto e quelli ancor più sofisticati in arrivo per il futuro Driverless di auto, camion, aerei, drones ecc. Cose strabilianti senza dubbio, ma se si parla di esse come fosse intelligenza si va sul ridicolo. Il cervello umano racchiude in pochi cm quadrati delle capacità computazionali simultanee nella gestione dello spazio-tempo e nella sua valutazione cognitiva che nessun computer neppure lontanamente oggi sa riprodurre. Le api hanno appena 800.000 neuroni in un cervello grande come la capocchia di uno spillo, ma posseggono sistemi di navigazione talmente sofisticati che, per riprodurli, a noi occorrono computer giganteschi con l’appoggio di enormi strutture sia terrestri che nello spazio. Anche questo vi dà il senso della distanza fra macchine ‘intelligenti’ e natura davvero intelligente.
  4. D) Hanno fatto molta impressione sul pubblico le notizie delle prodezze di AI come Deep Blue e AlphaGo, cioè dei set d’istruzioni ‘pensanti’ dentro una macchina che hanno sconfitto giocatori-geni umani. Da lì molti hanno immaginato che eravamo a un passo dalla AGI detta Superintelligence, ma assolutamente no. Ciò che non viene fatto capire al pubblico è l’infinita differenza che c’è fra un cervello che impara senza alcuna istruzione su come imparare (l’umano), e un cervello che invece prima di imparare deve essere fornito da un esterno delle istruzioni su come imparare (la AI). Per essere chiari: un infante di 2 anni apprende un codice immensamente complesso come quello del linguaggio e dei suoi contenuti di coscienza senza che nessuno gli infili nel cranio un software su come apprendere linguaggio e coscienza. Invece un’AI prima di imparare il linguaggio e i suoi contenuti dovrà sempre dipendere dall’intelligenza umana che gli sappia ficcare dentro istruzioni sempre più complesse su come E’ vero che si parla di macchine avanzatissime che oggi apprendono alcune cose da sé, tuttavia all’inizio della catena c’è d’obbligo la discrezionalità delle istruzioni umane su come apprendere, cosa che nella biologia umana non accade, noi nasciamo già completi. Ma soprattutto un altro punto.

Come faranno gli scienziati ad arrivare a riprodurre in una macchina i meandri dell’intelligenza se neppure ancora sanno minimamente come questi funzionino in un encefalo biologico? Davvero la Agi con Superintelligence sono ancora fantasie.

E quindi non è un caso che dopo 60 anni dal genio di Alan Turing arrivi proprio oggi una botta di mesto realismo sulla testa della cosiddetta AI Community. Si parla sempre più fra i top esperti di un ‘inverno’ che sta calando sulla AI. Quello che è oggi considerato il Pitagora della AI, Yann LeCun, era stato assunto da Facebook come Guru supremo della loro AI nella speranza di avvicinarsi alla Superintelligence, ma oggi LeCun si sta defilando da Zuckerberg, e sta più nell’ombra.

Tutto questo per dare ai lettori un quadro informato e realistico di cosa davvero s’intende oggi per Artificial Intelligence, quando tutti sparlano di AI come macchine che schiavizzeranno il mondo e di scenari futuri da Isaac Asimov. Non fatevi impressionare dal fatto che Silicon Valley di tanto in tanto riunisca i massimi cervelli in dibattiti sull’etica delle future macchine ‘intelligenti’. DeepMind, che è il centro d’eccellenza sull’AI del colosso Google-Alphabet a Londra, ha lanciato Ethics&Society come laboratorio permanente di studio sulla moralità e sui benefici umani di queste tecnologie. Ma tutto ciò non significa affatto che dietro l’angolo davvero c’è il Terminatorpronto a comparire a schermi unificati nel Pianeta per annunciare la fine dalla razza umana. La discussione sull’uso delle tecnologie e sul loro impatto sull’umanità è, come dire, un contorno che sempre viene servito col piatto principale, e questo fin dall’invenzione della dinamite. Il fatto che le supertech possano finire in networks di controllo politico e di repressione di massa, o addirittura essere usate nelle armi di sterminio della specie, è del tutto vero, ma come sempre sarà la mano dell’uomo a decretarlo, non una Superintelligence che un mattino si sveglia a pigia i bottoni (per i Nerds: tech singularity is a joke, checché ne dica Elon Musk e altri infatuati come Ray Kurzweil).

Spero che siate arrivati fin qua. Ora la parte cruciale invece, perché rimane assolutamente vero che la AI come strumento di gestione comandato dall’uomo nella vita moderna e in ogni campo conosciuto – quindi dalla politica alla Medicina, dalle comunicazioni all’industria, dai servizi alla finanza, dall’istruzione al mondo del lavoro – sia oggi la più grande rivoluzione nelle nostre vite dopo l’arrivo dei computer, ma molto più dirompente, per cui nessuno la deve ignorare, pena rimanere esclusi in una vita da analfabeti ottocenteschi.

Quindi per completare il quadro generale di cosa sia la realistica AI e di come appunto cambierà quasi tutto, vanno descritti i tre pilastri che la compongono e di cui già si sente parlare, ad esempio, nelle offerte lavorative, nella innovation aziendale, e nelle infrastrutture nazionali: MACHINE LEARNING, DEEP LEARNING e gli ARTIFICIAL NEURAL NETWORKS.

MACHINE LEARNING.

Nasce attorno ai primi anni ’80 e la grande innovazione che porta è di sostituire i codici di software scritti a mano dai programmatori con un altro tipo d’istruzioni per i computers affinché… imparino da soli. L’idea fu che se una macchina, invece di dipendere al 100% dal software umano per sapere come svolgere un compito, fosse riuscita a usare il suo enorme potere di calcolo per apprendere, migliorare il proprio giudizio e poi completare quel compito, ovviamente i risultati sarebbero stati mille volte maggiori. Quindi invece di mettere un tradizionale software nel computer (Machine), i tecnici gli permettono d’imparare (Learning) ficcandogli dentro enormi quantità di dati e di algoritmi che appunto gli permettono d’imparare da solo come svolgere quel compito. Cosa accade in pratica dentro al cervello della macchina? Accade che gli algoritmi, che sono in sé istruzioni, studiano la massa dei dati in arrivo, ne traggono insegnamenti, selezionano ciò che è più funzionale, e poi offrono all’uomo un compito finito o una decisione su come fare qualcosa o la previsione di qualcosa.

mighty-ai2Per dare un esempio si consideri l’applicazione oggi più famosa di Machine Learning, che è la computer vision che sarà applicata ai mezzi di trasporto senza autista (Driverless). Il computer usa Machine Learning per dare un senso a oggetti e forme che si trova davanti e per svolgere un compito. Come detto sopra, il suo ‘occhio’ riceve dai tecnici immense quantità di dati su quegli oggetti e forme, impara a distinguerli usando i suoi algoritmi, e di conseguenza svolgerà poi il compito di guidare un’auto in mezzo a essi riconoscendoli e interpretandoli. Non fu facile per i ricercatori all’inizio: prendete un pedone. Prima che Machine Learning sapesse riconoscerlo ed evitarlo, dovette innanzi tutto imparare il concetto di dove inizia la sua forma e dove finisce, ci volle un lavoro computazionale incredibile. Eh sì, sembra assurdo, perché per noi l’idea di dove inizia e dove finisce una figura è scontata, ma non per un computer, che deve imparare anche quello fra miliardi di altre banalissime cose. Ma la velocità dei processori oggi è tale per cui i progressi di Machine Learning sono stati stupefacenti, ed è già in uso in una miriade di applicazioni industriali, aziendali e tecnologiche, la più importante delle quali è nella Medicina diagnostica. Grazie a Machine Learning, un computer sa ‘vedere’ milioni d’immagini nelle lastre, sa razionalizzarle, sa imparare cosa è cosa, e poi usa questo suo sapere su una determinata lastra per trovare ciò che l’occhio del medico potrebbe non aver visto.

DEEP LEARNING & ARTIFICIAL NEURAL NETWORKS.

Sono i gemelli che sempre sentite nominare quando si parla di AI e di Machine Learning. Sono in pratica lo stesso concetto di Machine Learning ma ancor più sofisticato e molto più potente nel funzionamento. Partiamo dai secondi.

Come dice il nome, Artificial Neural Networks, essi sono la riproduzione (assolutamente rudimentale oggi) del sistema dei neuroni del cervello umano ma dentro un computer. In altre parole: non più i codici software, ma una simil-biologia umana per far funzionare le macchine ‘pensanti’. Anche qui l’idea ha circa 50 anni, ma solo di recente è decollata. I ricercatori fanno strati di neuroni artificiali – attenti: non sono micro cosine di plastica e rame, ma algoritmi – che si connettono fra di loro. Queste connessioni, sia chiaro, non sono neppure lontanamente ramificate e capaci come quelle biologiche, poiché sono costrette entro un ristretto numero di possibilità. Ora, per capire cosa succede in un Artificial Neural Network e a cosa serve, passiamo a un esempio diretto.

Il computer dovrà imparare a riconoscere all’istante un volto di un cliente e ciò che egli ha nel cestino delle compere, per abbinare sia il volto che le compere al suo conto corrente mentre se ne esce con la spesa da uno smart-shop, senza più passare per nessuna cassa né estrarre il portafoglio (gli smart-shop sono già realtà). Ecco come i tecnici di Machine Learning fanno sì che un Artificial Neural Networkimpari da solo a svolgere questo compito. Iniziamo dal riconoscimento del volto: l’immagine viene scomposta in blocchi che arrivano al primo strato di neuroni artificiali. Questi valutano emettendo un giudizio chiamato weighting (soppesare), poi il tutto passa al secondo strato che fa la stessa cosa, e così via fino alla fine, dove tutti i weighting messi assieme arrivano a una conclusione ‘pensata’. Cioè: la forma ovaleggiante dell’immagine (cranio-mascella); il fatto che ha due palle colorate parallele (occhi); che ha attorno qualcosa di colorato (capelli); ci sono altre cose bilaterali (narici, orecchie); si muove (muscoli facciali), ecc., tutto questo viene soppesato dai vari strati di Artificial Neural Networks e alla fine la macchina arriva a una conclusione: è un volto.

Dovete immaginare che questa ‘scuola’ viene ripetuta dal computer milioni di volte, e che esso è sottoposto a un bombardamento di milioni di dati tipici dei volti, fino ad arrivare a una velocità istantanea di riconoscimento di un volto. Un Artificial Neural Networkgià esperto in questo abbina poi quella faccia con precisione perché la trova all’istante fra tutti i volti precedentemente caricati, ad esempio, da una banca, e questo serve poi a completare il compito specifico che era appunto il riconoscimento per addebitare il conto corrente relativo. Vi basta ora replicare questa strepitosa capacità in mille altri campi operativi, industriali, sociali, infrastrutturali, per comprendere perché oggi Machine Learning e Artificial Neural Networks sono sulla bocca di tutti.

Se avete capito fin qui, e mi sono spellato il cervello per essere chiaro, allora è facile capire cosa significhi Deep Learning. Non è altro che l’amplificazione della tecnica sopra descritta negli Artificial Neural Networks su scala sempre maggiore e affidando ai computers algoritmi sempre più sofisticati. Fu l’idea dello scienziato Andrew Ng (Baidu), che comprese che per sveltire l’apprendimento delle macchine ‘intelligenti’ – ma soprattutto per permettere loro apprendimenti sempre più astratti, e quindi vicini a quelli del cervello umano – le si doveva dotare di Artificial Neural Networks giganti e le si doveva sottoporre a dosi colossali di dati. Fu proprio Andrew Ng che ingozzando un computer con 10 milioni di video permise al suo Artificial Neural Network di imparare per la prima volta a riconoscere un gatto. Replicare questo metodo per permettere alle macchine di imparare a ‘pensare’ sempre di più e quindi a svolgere compiti sempre più complessi, è di fatto il Deep Learning.

SARA’ DAPPERTUTTO. ADESSO LA CONOSCETE. GIOVANI, COSA FARE.

Ci sono due categorie d’italiani per cui quanto sopra è essenziale, ma in due modi radicalmente diversi: gli adulti e i giovani. Per gli adulti conoscere l’AI, e più in generale la travolgente rivoluzione globale delle nuove tecnologie chiamata Disruption, ha un valore politico imprescindibile. Per i giovani, cioè dai bambini ai ragazzi, si tratta di capire che chi rimane fuori almeno dalla comprensione di base dall’AI e dalla Disruption è oggi identico all’incolpevole italiano che negli anni ’50 non sapeva ancora leggere e scrivere, e mestamente da escluso sociale guardava le lezioni del Maestro Manzi a “Non è mai troppo tardi” alla RAI in bianco e nero, mentre tutti gli altri partecipavano al grande boom economico del dopoguerra con lavori, sicurezza sociale, e un futuro per i figli.

Per capire il valore politico dell’AI non ci vuole un genio. Queste tecnologie hanno un potere di analisi dei dati sconfinato. Oggi l’adesione a Internet di quasi tutti i cittadini, o anche solo il possesso di un cellulare, significa che coloro che gestiscono il digitale ci carpiscono lecitamente (quindi non Cambridge Analytica o la NSA) milioni di dati al giorno su: cosa facciamo o dove siamo, e quando; cosa diciamo o cosa leggiamo di politicamente rilevante; cosa compriamo, e quanto; lo scontento e il malumore sociale, di chi e dove; e moltissimo altro. Fino a pochissimo tempo fa quella mole cosmica di dati era usata dalle classi dirigenti, fa cui i politici, neppure all’1% perché non esisteva la tecnologia per analizzarli tutti e trarne conclusioni utili. Oggi invece l’AI di Machine Learning e del Data Mining ha spazzato via i sondaggisti come le calcolatrici spazzarono via il pallottoliere, e permette a classi dirigenti e politici un potere di predizione e quindi di manipolazione del consenso inimmaginabili. L’essenza stessa dei maggiori partiti esteri è cambiata: l’AI è il primo strumento di cui si sono dotati, e come sempre l’Italia li imiterà. Non capire oggi il nesso fra politica e AI è esattamente come chi negli anni ‘50 si fosse rifiutato di capire il nesso fra l’arrivo della Tv e la politica.

Nell’economia nazionale, che sono i nostri lavori, redditi, pensioni, alloggi, salute, l’arrivo dell’AI significa una cosa semplice: amplificare il potere di tutto. Questo perché qualsiasi sviluppo dirompente che oggi si applica nell’istruzione, nell’agricoltura, nella finanza, nella sanità, nei trasporti, nelle infrastrutture, nell’industria, nell’azienda, sarebbe rimasto uno scatolone vuoto senza una tecnologia che ne sapesse analizzare e capire la cosmica quantità di nuovi dati, per poi suggerire innovazioni. L’AI esiste proprio per questo, e cambierà tutto.

Per i vostri figli piccoli, e per i ragazzi, posso solo ripetere ciò che ho già scritto tante volte. L’AI e la Disruption delle nuove tecnologie sta, in queste ore, ridipingendo il mondo del lavoro come mai nella storia umana. Ne ho già trattato lungamente. Uno può scalciare, può illudersi, e negare la realtà, faccia pure, sarà solo un perdente, come il povero italiano analfabeta che vagava le strade del boom economico del dopoguerra. Seguite il mio consiglio: leggete i pochissimi autori come me che vi stanno raccontando ‘live’, giorno dopo giorno, cosa succede a Disruption & Work e quali capacità (gli Skills) è oggi prioritario acquisire nell’era della Disruption. Ma, genitori dei piccoli e ragazzi adolescenti, io mi spingo ancora oltre: leggeteci, e poi confrontatevi con gli insegnanti, e se li troverete scettici o addirittura impreparati su questi temi fate manifestazioni per pretendere che vi tutelino con gli aggiornamenti, in particolare, ripeto, su Disruption & Work. Perché quando uno dei Signori del mondo di oggi, Google-Alphabet, scrive sulla home la frase che conclude questo paragrafo, un giovane deve schizzare sulla sedia come la dinamite se davvero sogna un lavoro dignitoso, una vita da persona libera: “Il 65% degli studenti di oggi lavoreranno in lavori che neppure ancora esistono”.

Ora sapete tutti almeno le basi, solide e informate, su cosa sai l’Artificial Intelligence, e perché non conoscerla non è più un optional. Ora fate la vostra parte e divulgate questo articolo.

(le immagini sono dei rispettivi proprietari)