Crisi di Governo, Politica

Servi di qualcuno

Tornare indietro per non morire americani o democristiani. Articolo di Sebastiano Caputo del 21 agosto 2019. Pubblicato sul sito L’intellettuale dissidente

“L’unità di crisi” di governo non è Italia ma all’estero. O almeno coincide con quelle che sono le traiettorie geostrategiche del nuovo corso globale. Non a caso l’appello lanciato nei giorni scorsi su una possibile alleanza tra Movimento 5 Stelle e Partito Democratico è arrivato dalla personalità italiana più autorevole e influente nel mondo sino-russo: Romano Prodi. Pochi lo sanno ma il fondatore dell’Ulivo è il nostro connazionale più accreditato a Mosca (è l’unico che viene ricevuto in privato da Vladimir Putin diverse volte all’anno) e a Pechino, non a caso è stata fortemente voluta dai vertici del Partito Comunista Cinese la sua adesione come membro all’Advisory Council della Belt and Road Initiative. Insomma “la Coalizione Ursula” è una chiara e puntuale risposta a quella che su queste colonne digitali avevamo definito la “nuova via talassocratica” di Matteo Salvini. E dopo la giornata surreale di ieri questa improvvisa sterzata sta prendendo forma lentamente. Ma prima di dire le jeux sont faits tutti devono salire al Quirinale. Giuseppe Conte a consegnare le dimissioni, Luigi Di Maio per portare sul tavolo il più alto numero di parlamentari, infine Matteo Salvini con la forza dei sondaggi e del consenso. E se è vero che il Movimento 5 Stelle è l’ago della bilancia che determina la nuova maggioranza, è ancor più vero che la Lega ha la possibilità di imporre al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella un “governo Conte Bis” con una condizione imprescindibile – la rimozione del Ministro dell’Economia Giovanni Tria – in alternativa ad elezioni anticipate in cui il programma politico di Matteo Salvini mettererebbe tra i primissimi punti l’uscita dall’Euro, sulla scia della Brexit voluta da Boris Johnson e la probabile rielezione di Donald Trump nel 2020.

Di fonte ad uno scenario simile, piuttosto che far saltare l’intera architettura europea con l’Italexit, dettata da un’agenda monocolore leghista (appoggiata da Fratelli d’Italia), preferirebbe sostituire il Ministro Tria, e attuare una manovra finanziaria espansiva che non rispetti le regole di Bruxelles sul deficit, come già fanno da anni Francia e Germania del resto. Se così fosse non solo si eviterebbe una convergenza del M5S con il PD – un vero e proprio schiaffo al popolo italiano che alle ultime elezioni europee aveva confermato la propria fiducia al governo gialloverde con il 51 per cento dei consensi – inoltre vorrebbe dire che quello strappo estivo di Matteo Salvini non era una forzatura improvvisata maun metodo forzoso calcolato per evitare a tutti i costi di mettere la firma su una ricetta economica in controtendenza con le promesse lanciate in campagna elettorale. Se questi fossero i presupposti non ci sarebbe ragione per Luigi Di Maio di rifiutare un “switch” all’Economia che tutto sommato converrebbe ad entrambi dato che saranno anche loro a doversi prendere la responsabilità di fronte agli elettori qualora la manovra finanziaria violasse quella definizione di “nuovo umanesimo” riportata più volte da Giuseppe Conte.

E piuttosto che ritrovarsi davanti ad un bivio che propone da un lato l’uscita dall’euro con la retrovia strategica anglo-americana senza ottenere altri vantaggi in termini di interessi nazionali (caos nel Mediterraneo allargato, sottomissione alla politica globale delle sanzioni, imposizione dell’acquisto degli F35, riconoscimento di governi calati dall’alto, adesione agli interventi militari, impossibilità di entrare nella Nuova Via della Seta) e dall’altro inserirsi nel filone euro-asiatico che come ha ricordato di recente Emmanuel Macron nel bilaterale con Vladimir Putin “si estende da Lisbona a Vladivostok” e allo stesso tempo subire le politiche di austerità in un’Unione incapace di rinnovarsi, tanto vale proseguire la via mediterranea, letteralmente “in mezzo alle terre”, che il governo gialloverde già aveva intrapreso, in un momento storico in cui i grandi blocchi geostrategici si stanno progressivamente ridefinendo. La politica è spregiudicatezza e sia Luigi Di Maio che Matteo Salvini hanno dimostrato in questi 15 mesi di averne, per cui non è da escludere un nuovo accordo fondato su un nuovo contratto di governo. Se Lega e M5S riescono a rinnovare la maggioranza su un “ConteBis” il governo esce più forte di prima perché potrà portare lo scontro allo stato verticale (Salvini e Di Maio insieme contro nemici interni del cosiddetto “terzo partito” ed esterni) e non orizzontale (Salvini contro Di Maio), altrimenti la sovranità” rimarrà uno slogan che li seppellirà ad entrambi. I primi moriranno americani, i secondi democristiani.

Austerity, Politica, Terremoto

L’Aquila 2009-2019 – La scuola è ancora in moduli provvisori: ‘Nei container di lusso lavoriamo per mantenere la comunità’

 

“La scuola dovrebbe essere una priorità per il futuro, ma è stata dimenticata”. Se c’è un caso emblematico della lentezza della ricostruzione pubblica, all’Aquila, è quello delle scuole. Nonostante le promesse e i soldi erogati, gli studenti sono ancora nei Musp (Moduli ad Uso Scolastico Provvisori), in periferia. Nessuna delle scuole del centro è tornata agibile. Clamoroso il caso del Cotugno, inizialmente fatto rientrare in un edificio ‘vero’, a seguito di una richiesta di accesso agli atti di alcuni genitori e insegnanti si è rivelato essere inagibile. Sfrattati per una seconda volta, dopo un periodo di ’scuola pomeridiana’ ospiti di altri istituti, hanno finalmente ri-ottenuto un Musp, anzi cinque, in parti opposte della città. “È un odissea che sembra non finire mai – spiega la dirigente scolastica Serenella Ottaviano -. Le scuole hanno lavorato tantissimo per mantenere la comunità e offrire il massimo dell’offerta formativa possibile, eppure a 30 chilometri da qui sembrano essersi dimenticati di noi”.

Fonte: ilfattoquotidiano.it

Africa, Europa, Immigrazione, Politica

Kagame: “La crisi migratoria è una creazione dell’Europa”.

Dal quotidiano ruandese The New Times riportiamo la traduzione di un’intervista al presidente Paul Kagame, che affronta temi cruciali per l’Africa visti da un’ottica – per una volta – non europeocentrica. Non sorprende che sottolinei il ruolo dell’Europa nell’attirare gli immigrati clandestini, lo scarso effetto dei miliardi di fondi affluiti in Africa (di cui molti avevano “un biglietto di ritorno”), l’atteggiamento ipocrita e presuntuoso tenuto da un’Europa peraltro in crisi. 

Il presidente Paul Kagame afferma che l’Europa ha investito miliardi in modo sbagliato e ha invitato i migranti. Considera il modello europeo di democrazia inefficiente e le élite africane problematiche.

In un’intervista esclusiva con il quotidiano austriaco Die Presse, il presidente Kagame, che si trovava nel paese europeo per il vertice di alto livello Europa-Africa che si è tenuto nella capitale Vienna, parla a lungo dei legami africani ed europei, del commercio, dell’impegno della Cina in Africa e degli aiuti.

Di seguito è riportata la versione tradotta dell’articolo originariamente pubblicato in tedesco.

Perché l’Europa ha riscoperto il suo interesse per l’Africa? A causa della crisi migratoria?

L’Europa ha trascurato l’Africa. L’Africa avrebbe dovuto essere un partner da scegliere anche solo i base alla nostra storia comune. Ma gli europei hanno semplicemente avuto un atteggiamento sbagliato. Sono stati presuntuosi.

L’Europa ha creduto di rappresentare tutto ciò che il mondo ha da offrire; che tutti gli altri potessero solo imparare dall’Europa e chiedere aiuto. Questo è il modo in cui gli europei hanno gestito l’Africa per secoli.

E questo sta cambiando ora?

Sta iniziando a cambiare. A causa di alcuni fatti.

Quali fatti?

L’Europa ha capito che le cose non sono così rosee nel suo stesso continente. La migrazione è solo una parte del problema, solo una parte di ciò per cui i cittadini europei sono scontenti. Basta guardare a tutte le proteste e al cambiamento del panorama politico. La rabbia è diretta contro gli errori commessi dalla leadership politica.

La popolazione africana raddoppierà entro il 2050. Solo per questa ragione, molte persone potrebbero prendere il cammino dell’Europa nei prossimi anni.

Non è solo una questione di dimensioni della popolazione. Quello che conta è il contesto in cui cresce la popolazione. La Cina ha 1,3 miliardi di abitanti. Tuttavia, non si sono viste legioni di cinesi migrare illegalmente in altri paesi.

Anche se la popolazione dell’Africa non crescesse, in molti posti la povertà sarebbe ancora così grande che le persone cercherebbero alternative. L’Europa ha investito miliardi su miliardi di dollari in Africa. Qualcosa deve essere andato storto.

Che cosa è andato storto?

In parte, è che questi miliardi avevano un biglietto di ritorno. Sono fluiti in Africa e poi tornati di nuovo in Europa. Questo denaro non ha lasciato nulla sul terreno in Africa.

Alcuni di questi soldi potrebbero essere scomparsi nelle tasche dei leader africani.

Supponiamo per un momento che sia così. L’Europa sarebbe davvero così pazza da riempire di denaro le tasche di ladri? Potrebbe anche esserci un’altra ragione per cui il denaro non ha prodotto risultati: perché è stato investito nel posto sbagliato.

Quindi dove dovrebbero andare i fondi per lo sviluppo?

Nell’industria, nelle infrastrutture e nelle istituzioni educative per la gioventù africana, il cui numero sta crescendo rapidamente. Questo è l’unico modo per avere un dividendo demografico.

La Cina sta investendo molto nelle infrastrutture. Le aziende cinesi stanno costruendo strade in Ruanda. I cinesi lavorano in modo più intelligente degli europei?

La Cina è attiva in Ruanda, ma non in modo inappropriato. Le nuove strade in Ruanda sono in gran parte costruite con denaro europeo. A volte ci sono subappaltatori cinesi.

Ritiene che l’impegno della Cina in Africa sia una buona cosa?

È buono, ma può ancora essere migliorato. Gli africani devono soprattutto lavorare su se stessi. In Ruanda, conosciamo la nostra capacità e quali proposte cinesi dobbiamo accettare, in modo da non sovraccaricarci di debiti. Ma ci sono anche paesi che non hanno fatto buoni accordi e ora si stanno strangolando.

Questi paesi sono incappati nella trappola del debito.

Non tutti, ma può succedere. Dipende da noi africani. Perché non sappiamo come negoziare con la Cina? Certamente i cinesi non sono qui solo come filantropi per aiutarci.

Quindi lei vede anche un problema relativo alle élite in Africa.

Decisamente. L’Africa è rimasta un continente da cui le persone semplicemente si servono.

Quale paese è servito da modello di sviluppo per lei? Singapore?

Abbiamo imparato alcune cose da Singapore. Collaboriamo ancora con Singapore oggi. Ma non abbiamo cercato di copiare nessun altro paese.

Quali sono i fattori chiave per lo sviluppo?

La prima cosa e la più importante è investire nella propria gente, nella salute e nell’educazione. In secondo luogo, devi investire denaro in infrastrutture e, in terzo luogo, in tecnologia.

Stiamo cercando di creare sistemi di valore che ci consentano di essere più efficienti: turismo, informatica, energia. Ma soprattutto vogliamo fornire una migliore educazione ai nostri cittadini per favorire l’innovazione e l’imprenditorialità.

Ha una visione su dove dovrebbe essere il suo paese tra 20 anni?

Abbiamo iniziato nel 2000 con un piano per il 2020. Ora abbiamo elaborato un nuovo piano dal 2020 al 2050, diviso in due fasi di 15 anni. La nostra visione è quella di costruire un paese stabile, sicuro, prospero e sostenibile, in cui i nostri cittadini possano vivere una vita buona in un ambiente incontaminato.

Lei è stato generale, ministro della Difesa e dal 2000 presidente…

Mi manca la mia vita come comandante militare e ministro della Difesa. (Ride). La preferivo alle sciocchezze che spesso devo affrontare.

L’ex presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, la ha fortemente criticata nel 2015 per aver cambiato la costituzione per rimanere in carica più a lungo. Si considera indispensabile per il benessere del suo paese?

Una cosa dovrebbe essere buona o cattiva solo perché Obama la vede in quel modo? In Germania, Angela Merkel ha corso per quattro elezioni. Nessuno si è inquietato. Non ho proposto io di cambiare la costituzione. Non sono stato coinvolto nella decisione, ma l’ho accettata. I ruandesi apprezzano il lavoro che ho svolto.

Chiaramente rimprovera all’Occidente di imporre i suoi standard democratici agli altri.

L’ipocrisia degli europei è sorprendente. Predicano ciò che non praticano loro stessi. Perché c’è questo fallimento in Europa? A causa della democrazia? Se democrazia significa fallimento, allora la democrazia europea non è qualcosa che dovrei praticare.

Come valuta la gestione europea della crisi dei rifugiati del 2015 ?

L’Europa ha un problema di migrazione perché non è riuscita ad affrontare il problema in anticipo. Invece di aiutare l’Africa, ha ulteriormente impoverito il continente. Non mi fraintenda: non sto dando all’Europa tutta la colpa del problema della migrazione.

È un problema condiviso. Gli africani devono chiedersi perché c’è questo caos con la gente che continua a fuggire dalle proprie terre. Di questo non può essere ritenuta responsabile l’Europa.

Ma gli europei vogliono modellare gli altri a loro immagine. Lamentano costantemente che l’Africa è piena di dittatori. Che è un modo per dire: “Noi sì che siamo liberi, l’Europa è il paradiso, vieni!”. Così l’Europa ha invitato gli africani. Fino ad oggi.

Alcuni leader dell’opposizione sono stati recentemente rilasciati dal carcere in Ruanda. Espandere lo spazio democratico è una parte della sua strategia di sviluppo?

Non sono sicuro che le persone abbiano la stessa cosa in mente quando parlano di democrazia. E cosa intende per “leader dell’opposizione”? Uno di loro ha infranto ogni tipo di regola quando si è proposta come candidata alla presidenza.

Questa storia è stata poi presentata come se volessi impedirle di partecipare alle elezioni. Questa donna avrebbe avuto zero possibilità di vincere anche alle elezioni come sindaco.

Se lei è così popolare, la repressione non dovrebbe essere necessaria.

Che cos’è la democrazia? Permettere ai malfattori di ottenere il sopravvento? L’altra donna che è stata rilasciata era stata condannata per avere collaborato con gli autori di genocidio. In altri paesi sarebbe stata giustiziata.

Allora, perché è stata rilasciata?

Abbiamo concesso la clemenza a molti. La nostra stessa gente ci richiama all’ordine, quando vedono assassini per le strade. Non ci fa piacere farlo, ma vogliamo avere un futuro comune nel nostro paese.

Quanto è fragile l’equilibrio in Ruanda? Solo 24 anni fa furono massacrate 800.000 persone.

Stiamo cercando di guarire la società. Molti parenti delle vittime lo trovano difficile da capire. Parliamo con loro. La politica non è un gioco. Riguarda la vita delle persone.

Die Presse

Christian Ultsch, 24 dicembre 2018

Europa, Federalismo, Politica, Sovranità

La strada è quella di un sovranismo debole, federalista. Mentre con l’Europa è necessario ripensare la nostra appartenenza in modo diverso da come è stato fino ad ora.

 

Dal Convegno dell’Associazione Aletheia organizzato lo scorso 2 febbraio 2019 gli intervento del Prof. Becchi. Il titolo del convegno è stata “Chi comanda a casa nostra?”.

Il Prof. Becchi affronta il tema del rapporto tra Costituzione italiana e Trattati europei (di Maastricht e di Lisbona), ma parte del suoi interventi indagano anche sul tema dell’appartenenza fino a evidenziare che si debba ricercare il sovranismo e con la particolare situazione italiana, che ha le caratteristiche di un laboratorio politico, può emergere un particolare sovrasmo debole e federalista, di Johannes Althusius (qui). Un sovranismo che non può essere forte, ma per le caratteristiche di chi Governa il Paese, esprimono oggi due sovranismi quello identitario della Lega (un tempo secessionistico) e quello solidaristico del Movimento 5 Stelle.

Conclude con un accenno alle prossime elezioni europee laddove ad oggi tutti i principali partiti affrontano il tema Europa con la medesima proposta politica ovvero che l’Europa deve cambiare, ma nessuno affronta il tema nodale, e cioè la necessità che si imponga un manifesto per la difesa delle identità dei popoli europei e una necessaria revisione del modello di appartenenza all’Europa.

Immigrazione, Politica, Sinistra

La tesi di sinistra contro i confini aperti – II Parte ⎮ vocidallestero.it

Il grande business e le lobby del libero mercato, per promuovere aggressivamente i propri interessi, hanno creato un culto fanatico a difesa delle tesi open border – un prodotto fatto proprio da una classe urbana creativa, tecnologica, dei media e della conoscenza, che fa i propri interessi oggettivi di classe per mantenere a buon mercato i propri effimeri stili di vita e salvaguardare le proprie carriere. La sinistra liberale ha rivenduto il prodotto aggiungendovi il ricatto morale e la pubblica vergogna nei confronti dei popoli, accusati di atti inumani verso i migranti. Eppure, una vera sinistra dovrebbe tornare a guardare alle proprie tradizioni e cercar di migliorare le prospettive dei poveri del mondo. La migrazione di massa in sé non ci riuscirà: crea impoverimento per i lavoratori nei paesi ricchi e una fuga di cervelli in quelli poveri. L’unica vera soluzione è correggere gli squilibri dell’economia globale e ristrutturare radicalmente un sistema progettato per aiutare i ricchi a scapito dei poveri, riprendendo il controllo degli stati, delle politiche commerciali e del sistema finanziario globale. 

La prima parte (qui).

INTERESSI SOCIETARI E RICATTO MORALE

Le frontiere aperte non hanno un mandato pubblico, ma le politiche dell’immigrazione che pongono l’onere della loro applicazione sui datori di lavoro anziché sui migranti suscitano un sostegno travolgente. Secondo un sondaggio del Washington Post e di ABC News, il supporto all’utilizzo obbligatorio del sistema federale di verifica dell’occupazione (E-Verify), che impedirebbe ai datori di lavoro di sfruttare il lavoro illegale, è quasi all’80%, più del doppio del sostegno alla costruzione del muro lungo il confine messicano [11]. Allora perché le campagne presidenziali ruotano attorno alla costruzione di un lungo muro di confine? Perché gli attuali dibattiti sull’immigrazione ruotano intorno alle controverse tattiche dell’ICE per colpire i migranti, soprattutto quando il metodo più umano e popolare, imporre ai datori di lavoro l’onere di assumere in primo luogo forza lavoro legale, è anche il più efficace? [12]. La risposta, in breve, è che le lobby delle imprese hanno bloccato e sabotato i tentativi come E-Verify per decenni, mentre la sinistra dei confini aperti ha abbandonato qualsiasi seria discussione su questi temi.

Recentemente, la Western Growers Association e la California Farm Bureau Federation [associazioni di categoria degli agricoltori, in California e negli Stati Uniti sud-occidentali, ndr], tra gli altri, hanno bloccato una legge che avrebbe reso obbligatorio l‘E-Verify, nonostante diverse concessioni a favore delle aziende [13]. I democratici sono stati totalmente assenti da questo dibattito. Di conseguenza, i lavoratori delle economie devastate dall’agricoltura statunitense continueranno a essere invitati nel paese con la promessa di lavorare, per essere sfruttati come lavoratori a basso costo e illegali. Mancando di pieni diritti legali, sarà impossibile sindacalizzare questi non-cittadini, che saranno tenuti nella costante paura di essere arrestati e criminalizzati.

Non esiste una crisi migratoria” è diventato uno slogan comune adesso tra i sostenitori delle frontiere aperte – e tra molti commentatori tradizionali. Ma che piaccia o no, livelli così alti di migrazione di massa da essere radicalmente rivoluzionari sono impopolari in ogni parte della società e in tutto il mondo. E le persone tra le quali sono impopolari, i cittadini, hanno il diritto di voto. Quindi la migrazione produce sempre più una crisi fondamentale della democrazia. Qualsiasi partito politico che intenda governare dovrà accettare la volontà del popolo, o dovrà reprimere il dissenso per imporre l’agenda dei confini aperti. Molti nella sinistra libertaria sono tra i sostenitori più aggressivi di quest’ultima soluzione. E per cosa? Per fornire una copertura morale allo sfruttamento? Per garantire che i partiti di sinistra, che potrebbero effettivamente affrontare uno qualsiasi di questi temi più approfonditamente a un livello internazionale, rimangano senza potere?

Chi vuole diffondere l’immigrazione ha due armi chiave. Una è il grande business e gli interessi finanziari che lavorano tutti dalla loro parte, ma un’arma ugualmente potente – impugnata con più esperienza dai sostenitori dell’immigrazione a sinistra – è il ricatto morale e la vergogna pubblica. Le persone hanno ragione nel vedere come moralmente sbagliati i maltrattamenti ai migranti. Molte persone sono preoccupate per la crescita del razzismo e dell’indifferenza verso le minoranze, che spesso accompagna il sentimento anti-immigrazione. Ma la posizione dei confini aperti non è all’altezza del loro personale codice morale.

Ci sono molti vantaggi e svantaggi economici in alti livelli di immigrazione, ma è più probabile che abbiano un impatto negativo sui lavoratori indigeni poco qualificati e a basso salario, mentre se ne avvantaggiano i lavoratori nativi più ricchi e il settore delle imprese. Come ha sostenuto George J. Borjas, funziona come una sorta di redistribuzione della ricchezza verso l’alto [14]. Uno studio del 2017 dell’Accademia Nazionale delle Scienze intitolato “Le conseguenze economiche e fiscali dell’immigrazione” ha rilevato che le attuali politiche sull’immigrazione hanno provocato effetti negativi in misura sproporzionata sui poveri e le minoranze americane, una scoperta che non sarebbe stata una sorpresa per personaggi come Marcus Garvey o Frederick Douglass. Senza dubbio anche loro, in base agli attuali standard, dovrebbero essere considerati “anti-immigrati”  per il fatto di aver richiamato l’attenzione sulle conseguenze.

In un discorso pubblico sull’immigrazione, Hillary Clinton ha dichiarato: “Credo che quando avremo milioni di immigrati laboriosi che contribuiscono alla nostra economia, sarebbe controproducente e disumano cercare di cacciarli” [15]. In un discorso privato, tenuto per i banchieri latino-americani, è andata oltre: “Il mio sogno è un mercato comune emisferico, con scambi aperti e confini aperti, ad un certo punto nel futuro, con un’energia che sia il più sostenibile e verde possibile” [16] (anche se in seguito dichiarò che intendeva che i confini fossero aperti solo per l’energia). Queste affermazioni, naturalmente, hanno fatto impazzire la destra anti-immigrazione e pro-Trump. Forse più rivelatrice, tuttavia, è la convergenza tra la sinistra dei confini aperti e la “rispettabile” destra pro-business, che è stata incarnata nelle dichiarazioni della Clinton. In un recente articolo di National Review in risposta al “nazionalismo” di Trump, Jay Cost ha scritto: “Per dirla senza mezzi termini, non dobbiamo piacerci l’un l’altro, purché continuiamo a fare soldi l’uno con l’altro. Questo è ciò che ci manterrà uniti“. In questo mostruoso sub-thatcherismo, i Buckleyiti [i conservatori americani – da William Buckley, intellettuale e scrittore americano, ritenuto uno dei padri della Nuova Destra, ndt] parlano esattamente come i “cosmopoliti” liberali – ma senza il fascino o l’estro dell’autoinganno morale.

Come figlia di migranti, e avendo trascorso la maggior parte della mia vita in un paese con livelli di emigrazione persistentemente elevati – l’Irlanda – ho sempre considerato la questione della migrazione in modo diverso rispetto ai miei benintenzionati amici di sinistra nelle grandi economie che dominano il mondo. Quando l’austerità e la disoccupazione hanno colpito l’Irlanda, dopo che miliardi di denaro pubblico sono stati utilizzati per salvare il settore finanziario nel 2008, ho visto il mio intero gruppo di amici andarsene e non tornare mai più. Questo non è solo un problema tecnico. Tocca il cuore e l’anima di una nazione, come una guerra. Significa la costante emorragia di giovani generazioni idealistiche ed energiche, che normalmente ringiovaniscono e ri-prefigurano una società. In Irlanda, come in ogni paese ad alta emigrazione, ci sono sempre state campagne e movimenti anti-emigrazione, guidati dalla sinistra, che chiedevano la piena occupazione in tempi di recessione. Ma raramente sono abbastanza forti da resistere alle forze del mercato globale. Nel frattempo, le élite al potere durante un periodo di rabbia popolare, colpevoli e nervose, sono fin troppo felici di vedere una generazione potenzialmente radicale disperdersi in tutto il mondo.

Sono sempre stupito dall’arroganza e dalla strana mentalità imperiale dei progressisti britannici e americani pro-open border che credono di compiere un atto di carità illuminata quando “accolgono” i dottori di ricerca provenienti dall’Europa orientale o dal Centro America, portandoli a giro e servendo loro cibo. Nelle nazioni più ricche, la difesa delle frontiere aperte sembra funzionare come un culto fanatico tra veri credenti – un prodotto del grande business e delle lobby del libero mercato fatto proprio da un gruppo più ampio della classe urbana creativa, tecnologica, dei media e della conoscenza, che sta facendo i propri interessi oggettivi di classe per mantenere a buon mercato i propri effimeri stili di vita e intatte le proprie carriere, ripetendo a pappagallo l’ideologia istituzionale delle proprie aziende. La verità è che la migrazione di massa è una tragedia, e la classe medio-alta che ci moralizza sopra è una farsa. Forse gli ultra-ricchi possono permettersi di vivere in un mondo senza confini di cui sono aggressivi sostenitori, ma la maggior parte della gente ha bisogno – e vuole –  un’organizzazione politica coerente e sovrana per difendere i propri diritti di cittadini.

DIFENDERE GLI IMMIGRATI, OPPORSI ALLO SFRUTTAMENTO SISTEMATICO

Se le frontiere aperte sono “una proposta dei fratelli Koch”, a cosa somiglierebbe una autentica posizione di sinistra sull’immigrazione? In questo caso, invece di canalizzare Milton Friedman, la sinistra dovrebbe orientarsi sulla base delle sue antiche tradizioni. I progressisti dovrebbero concentrarsi sull’affrontare lo sfruttamento sistemico alla radice della migrazione di massa piuttosto che ritirarsi verso un moralismo superficiale che legittima queste forze di sfruttamento. Ciò non significa che la sinistra debba ignorare le ingiustizie nei confronti degli immigrati. Dovrebbe difendere vigorosamente i migranti dai trattamenti inumani. Allo stesso tempo, qualsiasi sinistra sincera deve prendere una linea dura contro gli attori societari, finanziari e di altro tipo che creano le circostanze disperate alla base della migrazione di massa (che, a sua volta, produce la reazione populista contro di essa). Solo una forte sinistra nazionale nei paesi piccoli e in via di sviluppo – agendo di concerto con una sinistra impegnata a porre fine alla finanziarizzazione e allo sfruttamento del lavoro globale nelle grandi economie – potrebbe avere qualche speranza di affrontare questi problemi.

Per cominciare, la sinistra deve smettere di citare la propaganda più recente del Cato Institute e ignorare gli effetti dell’immigrazione sul lavoro nazionale, in particolare sui lavoratori poveri che rischiano di soffrire in modo sproporzionato a causa dell’ampliamento dell’offerta di lavoro. Le politiche dell’immigrazione dovrebbero essere progettate per garantire che il potere contrattuale dei lavoratori non sia messo significativamente a repentaglio. Ciò è particolarmente vero in periodi di stagnazione salariale, sindacati deboli ed enorme disuguaglianza.

Per quanto riguarda l’immigrazione clandestina, la sinistra dovrebbe sostenere gli sforzi per rendere obbligatorio l’E-Verify e spingere per sanzioni severe ai datori di lavoro che non lo rispettano. I datori di lavoro, non gli immigrati, dovrebbero essere al centro delle attività di controllo. Questi datori di lavoro approfittano di immigrati privi dell’ordinaria protezione legale al fine di perpetuare una corsa al ribasso dei salari, evitando allo stesso tempo di pagare i contributi ed erogare altri benefici. Tali incentivi devono essere eliminati se tutti i lavoratori devono essere trattati in modo equo.

Trump si è lamentato in modo alquanto ignobile delle persone provenienti dai “cesso di paesi” del terzo mondo e ha portato i norvegesi come esempio di immigrati ideali. Ma i norvegesi venivano in America in gran numero una volta, quando erano poveri e disperati. Ora che hanno una democrazia sociale prospera e relativamente egualitaria, costruita sulla proprietà pubblica delle risorse naturali, non vogliono più venire [17]. In definitiva, la motivazione all’immigrazione di massa persisterà fino a quando i problemi strutturali che ne sono alla base rimarranno.

Ridurre le tensioni causate dalle migrazioni di massa richiede quindi di migliorare le prospettive dei poveri del mondo. La migrazione di massa in sé non ci riuscirà: crea una corsa verso il basso per i lavoratori nei paesi ricchi e una fuga di capacità e competenze in quelli poveri. L’unica vera soluzione è correggere gli squilibri nell’economia globale e ristrutturare radicalmente un sistema di globalizzazione progettato per aiutare i ricchi a scapito dei poveri. Ciò comporta, per cominciare, cambiamenti strutturali delle politiche commerciali che impediscono il necessario sviluppo, guidato dallo stato, nelle economie emergenti. Si devono contrastare anche gli accordi commerciali anti-lavoro come il Nafta. È ugualmente necessario affrontare un sistema finanziario che incanala il capitale dai paesi in via di sviluppo nelle bolle patrimoniali nei paesi ricchi, che aumentano le diseguaglianze. Infine, sebbene le sconsiderate politiche estere dell’amministrazione di George W. Bush siano state screditate, sembra continuare a vivere la tentazione di impegnarsi in crociate militari. Ci si dovrebbe opporre. Le invasioni straniere guidate dagli Stati Uniti hanno ucciso milioni di persone in Medio Oriente, creato milioni di rifugiati e migranti e devastato infrastrutture basilari.

Oggi,  mentre assistiamo all’ascesa di vari movimenti identitari in tutto il mondo, dovrebbe risuonare l’argomentazione di Marx secondo cui la classe lavoratrice inglese dovrebbe vedere la nazione irlandese come un potenziale complemento alla sua lotta, piuttosto che come una minaccia alla sua identità. La confortante illusione che gli immigranti vengano qui perché amano l’America è incredibilmente naif – naif quanto sostenere che gli immigrati irlandesi del XIX secolo descritti da Marx amassero l’Inghilterra. La maggior parte dei migranti emigra per necessità economiche e la stragrande maggioranza preferirebbe avere migliori opportunità a casa propria, con la propria famiglia e coi propri amici. Ma tali opportunità sono impossibili all’interno dell’attuale forma di globalizzazione.

Proprio come nella situazione descritta da Marx dell’Inghilterra dei suoi tempi, politici come Trump galvanizzano la propria base suscitando sentimenti anti-immigrazione, ma raramente, se non mai, affrontano lo sfruttamento strutturale – sia in patria che all’estero – e cioè la causa che sta alla radice della migrazione di massa. Spesso, aggravano questi problemi, ampliando il potere dei datori di lavoro e del capitale contro il lavoro, mentre indirizzano la rabbia dei loro sostenitori – spesso le vittime di questi poteri – contro altre vittime, gli immigrati. Ma nonostante tutte le spacconate anti-immigrazione di Trump, la sua amministrazione non ha fatto praticamente nulla per espandere l’implementazione di E-Verify, preferendo invece vantarsi di un muro di confine che non sembra materializzarsi mai [18]. Mentre le famiglie vengono separate al confine, l’amministrazione chiude un occhio sui datori di lavoro che usano gli immigrati come pedine in un gioco di arbitraggio del lavoro.

D’altra parte, i fautori della sinistra dei confini aperti potrebbero cercare di convincersi che stanno adottando una posizione radicale. Ma in pratica stanno solo sostituendo la ricerca dell’eguaglianza economica con la politica del grande business, mascherata da virtuoso identitarismo. L’America, che è ancora uno dei paesi più ricchi del mondo, dovrebbe essere in grado non solo di giungere alla piena occupazione, ma a un salario dignitoso per tutti, compresi quei lavori che i sostenitori delle frontiere aperte dichiarano che “gli americani non vogliono fare”. Dovrebbero essere condannati i datori di lavoro che sfruttano illegalmente i migranti per il lavoro a basso costo – con grande rischio per i migranti stessi – non i migranti che stanno semplicemente facendo ciò che le persone hanno sempre fatto quando affrontano le avversità economiche. Fornendo una involontaria copertura agli interessi della élite al potere, la sinistra rischia una significativa crisi esistenziale, poiché le persone comuni si orientano sempre di più verso i partiti di estrema destra. In questo momento di crisi, la posta in gioco è troppo alta per continuare a sbagliare.

Fonte: vocidallestero.it (qui) Articolo di Angela Nagel

 

NOTE
[11] “Immigration, DACA, Congress, and Compromise,” Washington Post, Oct. 20, 2017.
[12] Pia M. Orrenius and Madeline Zavodny, “Do State Work Eligibility Verification Laws Reduce Unauthorized Immigration?,” IZA Journal of Migration 5, no. 5 (December 2016).
[13] Dan Wheat, “Ag Groups Split over Latest House Labor Bill,” Capital Press, July 17, 2018.
[14] George Borjas, “Yes, Immigration Hurts American Workers,” Politico, September/October 2016.
[15] Borjas.
[16] Chris Matthews, “What’s Important about the Clinton Campaign’s Leaked Emails on Free Trade,” Fortune, Oct. 11, 2016.
[17] Krishnadev Calamur, “Why Norwegians Aren’t Moving to the U.S.,” Atlantic, Jan. 12, 2018.
[18] Tracy Jan, “Trump Isn’t Pushing Hard for This One Popular Way to Curb Illegal Immigration,” Washington Post, May 22, 2018.
Politica, Popolo vs Elite

Firma il Manifesto per una Economia Umanistica (di Valerio Malvezzi)

In questa lettera è condensata la consapevolezza che la libertà come l’abbiamo conosciuta ci è stata sottratta, in cambio ci è stato dato il mercato. Siamo diventati consumatori eravamo donne e uomini liberi. Lo sintetizza in modo lucido Valerio Malvezzi nel suo manifesto “Lettera aperta per una Economia Umanistica”. Un invito a leggerla fino in fondo, ma sopratutto a sottoscriverla. E’ venuto il tempo, non più rinviabile, di decidere da che parte stare. Decidere se continuare ad essere consumatore o donne e uomini liberi. Io scelgo di essere libero!

Dal sito Byoblu.com

Valerio Malvezzi al convegno “Spread, banche e sicurezza nazionale”, con le parole accorate del suo manifesto “Lettera aperta per una Economia Umanistica”, indirizzata a quei potenti della Terra che, comandando sui capitali e sulla finanza, tutto controllano, descrive la terribile realtà a cui i popoli oggi sono sottomessi. Il Mercato detta legge e i cittadini patiscono manovre finanziarie “lacrime e sangue”. I fondi speculativi privati possono vigilare sul loro stesso operato ma governi democraticamente eletti non possono decidere le loro politiche economiche. Il privilegio e l’arricchimento dei pochi si regge sul sacrificio e sulla povertà dei molti.

“Voi (politici) dovete fare una ed una sola cosa: chiedere a gran voce che l’economia torni sotto la morale perché per millenni, da Aristotele ad Adam Smith, tutti i grandi economisti erano filosofi morali. Questo è il tema cruciale della rivoluzione intellettuale del XXI secolo. Oggi ciò che domina il mondo è la finanza, che condiziona l’economia, che ricatta la politica al di fuori della morale”.

Serve una rivoluzione culturale che attraverso una economia umanistica possa rimettere “l’uomo al posto del mercato, il lavoro al posto del capitale, la produzione reale in luogo dei pezzi carta”.

Lettera aperta per una Economia Umanistica

Spero che esista al mondo una autorità inquirente, un magistrato che abbia titolo, ma prima ancora il coraggio di verificare ciò che sto per dire. Se cioè corrisponda a verità ciò che ho letto su organi di stampa, in articoli presto derubricati a notizie di secondo piano per addetti ai lavori, perché saremmo di fronte al più grande inganno finanziario della seconda decade del ventunesimo secolo.

La Banca Centrale Europea, il massimo organo di regolazione e di credibilità del sistema monetario e la sua vigilanza, che avrebbe il compito di vigilare sulla stabilità del sistema bancario, da anni sta guidando, con norme e regolamenti, le aggregazioni a fusioni bancarie, mediante stress test, volti a decidere chi debba essere fuso e sparire dal mercato. Se fosse vero che, dal 2014, tali analisi non siano state mai fatte dalla Banca Centrale o suoi uffici, ma appaltate, con modalità peraltro non trasparenti, a soggetti privati, investitori esteri, sarebbe un fatto di gravità inaudita e senza precedenti. Affidare a un operatore privato speculativo, BlackRock, un compito di vigilanza appare atto di palese conflitto di interessi.

Fuori dai tecnicismi giuridici, questo significa che tutto quanto avvenuto in questi anni nel mio Paese, l’Italia, in ordine ai riassetti proprietari del sistema bancario, si baserebbe su atti dettati da ragioni di necessità e urgenza basati su fondamenti tecnici non solo inesistenti, ma potenzialmente distorsivi del mercato. Milioni di risparmiatori e imprese hanno versato lacrime e sangue, letteralmente, per le conseguenze sia delle restrizioni del credito, sia per la distruzione del risparmio garantito dalla Costituzione Italiana.

Signori ignoti che da Paesi lontani movimentate la finanza mondiale, voi fate scrivere di agire per la stabilità del sistema bancario ma, nei fatti, voi rubate la vita e il futuro della povera gente, costringendo le imprese a chiudere, imprenditori a impiccarsi e darsi fuoco, anziani a vedere bruciare i risparmi di tutta una vita, fregati da tecnicismi giuridici incomprensibili, giovani ad emigrare perché avete gettato la liquidità sui tavoli delle borse, nei derivati e nei fondi speculativi, togliendola a chi sostiene i posti di lavoro. Voi fate sproloquiare astutamente di andare avanti, di riforme, di progresso, e fate raccontare che questo sarebbe l’Unione Bancaria Europea. In realtà non fate sapere al popolo le cose come stanno, e cioè che l’unico modo di procedere sarebbe quello di fermare tutto, fermare l’ingiustizia e tornare a un mondo giusto, ad una economia umanistica, nella quale sia l’uomo, e non il mercato, il cuore del nostro agire. Questa sarebbe la cosa giusta da fare, perché ciò che voi chiamate libero mercato altro non è che un sistema prevaricatorio di pochi che, mediante informazioni assunte in un sistema di relazioni sleali, si arricchiscono a dismisura ai danni di molti: i poveri, i semplici, le persone comuni, gli ultimi.

Signori politici, sembra che vi stiate occupando di questioni tecniche, tralasciando l’attacco al tema strategico. Scopo di una Banca Centrale è creare e gestire i soldi di un popolo. Per questo, la Banca Centrale deve essere detenuta dal popolo. Se invece, come accade ora, lo Stato, che quel popolo rappresenta, prende a prestito il denaro da un sistema di banche private, che a loro volta lo moltiplicano come i pani e i pesci, allora il governo sarà costretto a vessare il popolo di tasse e balzelli per ripagare il profitto indebito privato. Il cuore del problema politico è che non siamo più in una economia a regia pubblica, ma privata. Così stando le cose, siamo in una democrazia apparente, ma non di fatto, al punto che diventa perfettamente inutile e financo illusorio il diritto e l’esercizio del voto, poiché nessun governo, servo del sistema bancario privato, sarò mai in grado di esercitare il mandato del popolo sovrano. Signori politici, se noi non decidiamo di fare, finalmente, ciò che è giusto, costi quel che costi, invece di ciò che è ragionevole politicamente, allora non ci sarà mai speranza per la povera gente. Dobbiamo concentrarci sulle soluzioni alle ingiustizie e se il nostro sistema regolatorio non consente di trovare una soluzione, allora, ebbene, se ne deve convenire che si debba radere a zero questo sistema di regole ingiuste e crearne altre più eque. Lo dobbiamo fare perché non è più tollerabile, sull’altare della presunta efficienze, il sacrificio di tanti per il privilegio ingiusto di pochi.

So bene a quali rischi mi stia esponendo, anche per la credibilità correlata alla mia professione, nella quale quasi tutti recitano una diversa litania, per convenienza o interesse. Non mi interessa essere deriso; mi interessa essere vero, Ed è vero che, se la sofferenza di tanti è tollerata per il privilegio di pochi, allora questo sistema economico è, semplicemente, sbagliato.

Signori privati, voi oscuri demiurghi di sventura, voi dioscuri della povertà, voi saccenti profeti di tristezza, voi avete ignorato per vostro tornaconto il pianto di un popolo per anni, e lo ignorerete ancora, ma io sono qui a dirvi, ad annunciarvi, come ultimo dei cittadini, che il popolo sta cominciando a capire e che, quando il popolo si muove, le cose cambiano; e per questo semplice fatto cambieranno, che a voi piaccia, oppure no. Succederà perché, al di là di ciò che pensano i neoliberisti che ci raccontano da decenni che il pianeta sia guidato dai mercati, al contrario il mondo è guidato da tempo immemore dalla libera mente dell’uomo. Quella mente, per secoli, ha sempre condotto l’umanità sui binari da cui siamo usciti. Binari diritti, che non consentono una deroga di viaggio: la direzione si chiama morale.

Signori politici, voi siete degli illusi a pensare di potere risolvere i problemi del nostro Paese con gli accordi, con le deroghe, le riforme negoziate con l’Europa. E’ finito il tempo del politico; è giunto il tempo dello statista. Qui serve qualcuno che si alzi in piedi e dica, semplicemente, che l’Italia, erede di un pensiero millenario che parte dall’antica Grecia e attraversa il mondo latino e poi il razionalismo occidentale, è portatrice di una rivoluzione culturale. Quell’uomo dovrò dire al mondo che il sistema di pensiero che è alla base del modello economico degli ultimi quarant’anni non va riformato o migliorato con mediazione o negoziazione; esso va raso a zero.

Ci sono momenti nella storia nei quali, per procedere, bisogna distruggere fino alle fondamenta per poi ricostruire, su basi diverse. Io penso che fino a che il mondo politico non affronterà questa, che è la principale delle questioni, saremo sempre qui a vivacchiare da una elezione fintamente democratica alla successiva. Solo che, nei lustri, le generazioni italiane invecchiano, le donne incinte con gravidanza a rischio sono mandate a casa perché gli ospedali devono risparmiare, gli anziani devono rivolgersi a sanità private per evitare code interminabili, milioni di poveri non arrivano a fine mese e rovistano nei cassonetti, migliaia di imprenditori italiani si sono dati fuoco o impiccati per motivi economici, centinaia di migliaia di italiani giovani e per lo più acculturati fuggono a cercare lavoro all’estero, mentre i nostri telegiornali ci parlano solo di barconi.

Il sistema economico comporta una lotta che si ripete da decenni, mentre noi siamo qui a dibattere di sciocchezze, di percentuali di prodotto interno lordo, tra poltrone di velluto. Ma non capite che occorre alzarsi in piedi e dire, semplicemente; basta? Abbiamo un mondo in cui la gente crede davvero che non ci siano i soldi per fare le cose, quando la verità è che le cose si fanno col lavoro dell’uomo e che i soldi si creano premendo un bottone. Il problema è chi ha in mano quel bottone. Non è più tollerabile che il bottone della moneta sia nelle mani private: noi vogliamo che la mano che preme quel bottone torni a essere pubblica.

Abbiamo un mondo in cui la gente pensa davvero che il problema sia il debito pubblico, e nessuno ha compreso che esso è l’altro lato della medaglia che si chiama ricchezza privata. Il problema è chi detiene quel debito: noi vogliamo tornare ad avere nelle case italiane quel debito, come risparmiatori italiani, perché quel debito è contratto per la nostra casa, che si chiama Patria, e non siamo disposti a vendere il Colosseo o gli Uffizi a banche estere private, perché i sonetti di Dante e le opere di Cicerone non sono in vendita, poiché non è in vendita la nostra memoria. Non entrerò quindi nel tecnicismo delle scelte economiche necessarie per liberarsi dalla schiavitù dello spread, ma dico chiaramente ai politici che per risollevare l’Italia servirebbe un piano di espansione di spesa pubblica che le attuali regole europee non consentono. Siete degli illusi o dei pusillanimi a pensare di potere trattare con una tigre. La tigre si doma con la forza. La nostra forza è quella della ragione e della giustizia.

Voi dovete fare una e una sola cosa: chiedere a gran voce che l’economia torni sotto la morale. Per millenni, da Aristotele ad Adam Smith, tutti i grandi economisti erano filosofi morali. Questo è il tema cruciale della rivoluzione economica del ventunesimo secolo. Oggi ciò che domina il mondo è la finanza, che condiziona l’economia che ricatta la politica, al di fuori della morale. In questo schema le vostre tattiche sulle pensioni a quota cento o sul reddito di cittadinanza sono visioni di breve termine, collocate nel battito di ciglia tra un sondaggio e il successivo. So bene cosa state pensando: parlare di morale come struttura sovra-economica non porta voti, perché la gente non capisce. Non curatevi dei sondaggi, se avete a cuore il vostro Paese e sappiate che la gente è buona e, se voi parlerete il linguaggio delle persone e non delle burocrazie, capisce benissimo. La rivoluzione culturale alla base di qualsiasi speranza di salvezza non può che passare quindi da un manifesto per l’economia umanistica.

L’economia umanistica è la sfida di questo secolo, che seppellirà come incidente storico quella capitalistica. L’economia umanistica è ancella della filosofia morale, ma comanda la finanza, poiché la moneta è solo il prezzo delle cose, ma l’anima dell’uomo non è in vendita. Io sogno un manifesto per l’economia umanistica che, partendo da qui, da poche persone, dall’Italia, venga sottoscritto da tanti cittadini italiani e poi magari europei e forse un giorno del mondo. Il cuore del marcio degli ultimi quarant’anni almeno è il fatto che abbiamo costruito una economia a favore di alcune persone, e non delle persone.

Il cuore del documento di questo manifesto per l’economia umanistica deve essere l’uomo al posto del mercato, il lavoro in luogo del capitale, la produzione reale in sostituzione dei pezzi di carta. Se non avremo il coraggio di mettere nell’agenda politica al primo posto un manifesto per l’economia umanistica, saremo sempre schiavi di chi fa scrivere che il Botswana ha un rating superiore all’Italia perché ha miniere di diamanti. Dobbiamo spiegare al mondo che l’Italia vuole tornare a investire, bruciando le attuali regole del gioco sull’altare della giustizia, nelle proprie campagne, nei nostri campi, perché sono i nostri poeti che rispondono all’ignoranza dei diamanti del Botswana. Dai diamanti non nasce niente – cantava un italiano – dal letame nascono i fior.

Io sogno che sufficienti persone sottoscrivano idealmente questa lettera aperta, affinché il mondo politico italiano capisca che non è più il tempo di vivacchiare, ma il tempo di tornare a vivere. Troppe persone stanno cominciando nel mondo a intuire la verità sotto il velo dell’inganno. Prima o poi, da qualche parte, un manifesto per una economia umanistica nascerà. Nascerà perché il cuore di un popolo per decenni ingannato e oppresso non può che rinascere orgogliosamente dalle proprie ceneri. Quando, sul braciere di un manifesto per l’economia dell’uomo, saranno incenerite le carte che ci tengono in catene sotto quelle del capitale, sarà un giorno di giubilo. Io sogno che quel giorno nasca qui, da un piccolo Paese che tanto contributo ha dato nei millenni al pensiero dell’uomo. Io non so se vedrò da vivo quel giorno. So però che quello sarà un giorno radioso non soltanto per gli italiani che avranno insegnato al mondo ad alzarsi in piedi.

Quello sarà un attimo, indelebile, nella storia eterna dell’umanità.

Pavia, 26 gennaio 2019
Valerio Malvezzi

Firma il Manifesto per una Economia Umanistica

https://it.surveymonkey.com/r/EconomiaUmanista

Leggi i commenti di chi ha già firmato: https://it.surveymonkey.com/stories/SM-MK293X38/

Economia, Europa, Politica, Unione Europea, Verso le elezioni europee

La crisi che verrà, cambierà ancora lo scenario politico interno. E l’Europa franco-tedesca sarà sempre più forte.

Riprendo un articolo di Roberto Marchesi apparso sul sito de il Fatto quotidiano (qui) dal titolo “Questo ciclo economico è alla fine. Un’altra recessione è alle porte”. Ma anche altri annunciavano la recessione nel 2019. Nella speranza che la recessione resti tecnica e non si traduca in una nuova crisi economica, segno della chiusura del ciclo economico di crescita. Dimenticavo un crisi ora ci colpirebbe in modo drammatico non essendo come sistema paese riusciti a ritornare alla situazione pre-crisi 2008. Un dato è incontrovertibile, la recessione tecnica conseguenza di diversi fattori, tra i quali l’insufficienza delle politiche della precedente legislatura e del Governo Gentiloni troppo appiattite sui modelli imposti di austerità, consente, nostro malgrado di verificare se le misure messe in campo dal Governo del cambiamento sono state adeguate e sufficienti o dovranno essere implementate sforando quel limite anacronistico del 3% imposto da Bruxelless. D’ora in poi verificheremo cosa il Governo Conte sarà in grado di fare per affrontare la recessione e capire quali correttivi saranno adottati alla politica economica gialloverde. Spero sicuramente in una manovra correttiva, ma non di aumento delle imposte, semmai di espansione, a deficit, della spesa produttiva e degli investimenti necessari per stimolare l’economia in recessione. Un anno bellissimo lo ha definito il Presidente Conte, lui è consapevole che saremo pronti a osannarli se ci salveremo, ma anche pronti a spazzarli via se falliranno. E’ indubbio che le crisi economiche hanno già fatto vittime illustri. Nel 2008 la grande crisi ed il governo Berlusconi in carica proprio dal 2008 è finito con Governo in vitro guidato da Monti. Siamo nel 2019 e la recessione tecnica, rischia di diventare una seconda crisi che metterà a dura prova i debiti sovrani. Ma Draghi non interverrà prontamete. Attenderà che la crisi si evidenzierà in modo chiaro prima di proporre un nuovo QE alle cui condizioni gli Stati non metteranno ostacoli. Altra cessione di sovranità, in cambio di una ombrello protettivo. Uno scenario che speriamo sia scongiurabile. L’Europa delle banche sarà pronta ad approfittarne e vorrà la rivincita sui populismi. Arriverà la proposta di Debito pubblico europeo (di figli e figliastri ovviamente). E l’accordo di Aquisgrana tra Francia e Germania recentemente siglato sarà messo in atto. Saranno loro a governare il debito pubblico dell’area euro. Saranno loro a pretendere un”Unione europea a due velocità. Un’Europa che illusoriamente si presenterà con due facce, ma il risultato non sarà altro che quello che è già prestabilito, un ulteriore passo verso l’integrazione europea a guida franco-tedesca, dove la parte tedesca continuerà a guidare le politiche europee e la parte mediterranea continuerà a restare su quel piano inclinato quanto basta per non scivolare nell’abisso. Un colonialismo interno vestito da cooperazione solidaristica. Ma il punto è il seguente: la nostra attuale classe politica si accoderà o farà saltare il tavolo?

Quando si parla di borsa e mercati, parlare di “fine di un ciclo” significa innanzitutto dire che una burrasca per i risparmiatorista arrivando. In questa occasione non si tratterà di una semplice “correzione” (riaggiustamento dei valori, nda) ma sarà certamente una fase recessiva probabilmente lunga e pesante, visto che, oltre ai fenomeni soliti (di seguito descritti), questa avrà caratteristiche globali molto più ampie e contemporanee. Sarà perciò impossibile, nello spazio breve di questo articolo, descrivere compiutamente l’intero intreccio di tutti questi fenomeni, e le responsabilità di chi li governa, ma colgo l’occasione di un chiarissimo articolo pubblicato questo mese dalla popolare rivista americana Fortune, sotto il titolo: “The end is near for the economic boom” (La fine è vicina per il boom economico), per suonare anche qui le sirene, perché quando una crisi arriva negli Usa diventa sempre globale.

Vediamo dunque quali sono questi indicatori economici che fanno scattare l’allarme.

Il primo è il Treasury yield curve (vedi grafico sotto), quello che segna la differenza tra il rendimento delle obbligazioni di medio-lungo periodo da quelle a breve scadenza. E’ un classico: quando questo indicatore arriva all’inversione, cioè quando i bond di breve periodo danno rendimento maggiore di quelli a lunga scadenza, significa che il mercato è arrivato al punto di “correzione” ovvero: l’ottimismo deve essere sostituito dalla prudenza.

L’altro sicuro indicatore che preannuncia l’inversione di tendenza, e l’imminente entrata in recessione, è quello della disoccupazione.

Davvero curioso questo indicatore, perché è come guardarsi allo specchio, ti vedi al contrario di come sei in realtà e di come ti vedono tutti gli altri. Quando esso segnala il massimo del bel tempo significa che è in arrivo la tempesta! E’ davvero strano, ma finora non ha mai fallito!

L’anomalia sta (forse) nel fatto che, essendo un indicatore molto seguito anche a livello popolare, il bassissimo livello dei disoccupati consente all’indice della “confidenza”, cioè il gradimento popolare, di volare alto anche se in realtà, proprio sul piano economico, segnala “brutto tempo in arrivo” a causa dello squilibrio che si viene a creare per l’eccessivo ottimismo.

Un indicatore che invece tutti capiscono è quello dell’indebitamento, sia pubblico che privato che sta salendo senza freni e senza alcun serio motivo. Geoff Colvin, l’autore dell’articolo di Fortune citato sopra, attribuisce questa imprudenza all’eccesso di confidenza, ma sulla crescita della spesa pubblica la responsabilità (anzi, l’irresponsabilità) non può essere d’altri che di Trump, che evidentemente cura altri interessi invece che quelli della nazione.

Ma anche l’indebitamento privato è arrivato ad un livello preoccupante, e non otterrà grandi benefici dalla “flat tax” di Trump, dato che non ce n’era bisogno. Infatti le imprese, mediamente, si sono indebitate senza che ve ne fosse reale bisogno dato che il loro boom economico dura da decenni avendo attraversato senza gravi danni tutte le recessioni incontrate. “Bonanza” è cominciata per loro da Reagan in poi e dal 1997 (anno della completa liberalizzazione delle banche) la media annuale degli utili (fino al 2017) è stata del 7,2% (indice S&P).

Non sapendo come investire proficuamente quella “manna” dal cielo optano in gran parte sul “buy-back”, cioè l’acquisto di azioni proprie che, pur dando maggiore solidità finanziaria all’impresa (spesso non necessaria), non trova poi fattivo utilizzo imprenditoriale. Sono come la medicina data a chi non ne ha bisogno. Finirà col far male invece che bene.

Infatti, con una disoccupazione così bassa questa orgia di utili inutili produrrà solo inflazione, che la Banca Centrale (la Fed) sarà disarmata a quel punto a contrastare, perché Trump sta già usando dissennatamente tutti gli strumenti di politica economica al solo scopo di produrre (per se stesso) “armi di distrazione di massa” senza benefici reali per l’economia e per la gente, che anzi viene sempre più mortificata dalle sue scelte strampalate.

Persino Bernanke, l’ex presidente Fed repubblicano che si è trovato nel 2008 proprio nel vortice della prima “Grande Recessione” della storia economica, e ha trovato nella sperimentazione su larga scala del Quantitative Easing la via per accompagnare coerentemente il presidente Obama fuori dalla crisi, ha avuto parole di forte critica per Trump: “Questi stimoli all’economia arrivano nel momento sbagliato, Wile E. Coyote is going to go off the cliff” (mentre Willy Coyote vola giù dal precipizio).

Ci sarebbe ancora molto da dire ancora sulle politiche di Trump: la guerra dei dazil’autarchial’arroganza politica con cui vuole trattare nemici e alleati allo stesso modo, ecc. ecc. ma qui non ho più spazio. Questo ciclo economico va ad esaurirsi proprio nel momento peggiore. Ci sono già tutti i segnali della depressione in arrivo (ma non aspettatevi, avverte Geoff Colvin, che siano gli economisti a suonare la sirena, “loro non lo fanno mai!”), tuttavia, inspiegabilmente, la cosa non sembra interessare l’amministrazione Trump.

Tra pochi giorni (il 15 settembre) saranno dieci anni esatti dal grande crollo in Borsa del 2008 che ha accompagnato il fallimento di Lehman Brothers. Speriamo che la storia non si ripeta.

Europa, Politica, Sovranità

Perchè Draghi fa’ paura. Come Stalin. di M. Blondet

“Un paese perde sovranità quando il  debito è troppo alto”,  ha esalato Mario Draghi   in audizione all’europarlamento giorni fa.

Sui blog di chi capisce queste cose, ci si è stupiti e indignati. Alcuni  sarcastici:  Draghi ha riportato in vigore la schiavitù per debiti, un  grande progresso del  capitalismo. I commenti sottolineano la palese menzogna: il Giappone ha un debito del 240 per cento e non ha perso sovranità. Altri fanno notare invece che il Venezuela ha un debito pubblico del 23%, quindi dovrebbe essere solidamente sovrano..

Altri replicano che il debito è fa perdere sovranità solo se si è nell’euro, ossia se non  si ha una propria banca centrale d’emissione e prestatore d’ultima istanza. . Che uno stato  perde sovranità quando ha  debito denominato in moneta straniera, come noi italiani con l’euro – che per noi è una moneta straniera, che non possiamo manovrare.

Uno stupore generale perché pare che Draghi non sappia quello che fa  alla BCE, ossia creare  denaro dal nulla in quantità illimitata, cosa che fanno anche stati sovranissimi come il Giappone e gli USA.

Stupore che Draghi  dica  cose come:

“un paese perde la sua sovranità (…) quando il debito è così alto che ogni azione politica deve essere scrutinata dai mercati, cioè da persone che non votano e sono fuori dal processo di responsabilità democratica”.

“Ci sono i mercati. I mercati dicono a un paese cosa ci si può permettere e cosa no, cosa è credibile o cosa no”.

Ancor più stupisce che Draghi, per  smentire coloro che credono che l’Italia avesse la sovranità monetaria prima di entrare nell’euro – o diciamo, prima dell’81, quando la Banca d’Italia  aveva l’obbligo di comprare i titoli di debito  del Tesoro  eventualmente invenduti, egli replica: “Anche quelli che svalutavano regolarmente non avevano sovranità, perché quando si guarda a come si misura la sovranità,  la  stabilità dei prezzi e controllo dell’inflazione e della disoccupazione, questi paesi facevano peggio di quelli che si agganciavano (al marco) se si guarda ai numeri in 15-20 anni” (…).

Dunque Draghi ignora che  svalutare è  appunto un atto della sovranità  politica? Come lo è, al contrario, decidere di agganciare la lira al marco?  Ci si deve chiedere  che cosa intenda alla fine questo banchiere centrale per “sovranità”: pare averne una idea estremamente equivoca. La  confonde  con concetti diversi, come”forza”, potenza,  ricchezza eccetera.  Gli sfugge completamente – possibile? – che “sovranità” è una condizione giuridica:  la condizione di  indipendenza  legale,  analoga nell’individuo privato  alla “personalità giuridica”:  uno che ha personalità giuridica   è uno che può stipulare contratti, sia il suo reddito modesto o ricchissimo, non è quello che fa differenza.

Draghi dice  altre cose strane: che prima, c’era “Il caro vita”, miseria e guerra.  Prima, c’era disoccupazione  maggiore di oggi: cosa  falsissima. Dice che oggi  “la  moneta unica ha rafforzato l’occupazione dal 59 al 67%  e diminuito la  disoccupazione”.   Dice che le banche greche oggi “sono ben capitalizzate”. Dice che “c’è unanimità nel consiglio direttivo che la probabilità di una recessione sia bassa”, proprio mentre  i dati dell’economia tedesca cadono.

Insomma dice, con quella faccia sempre uguale e la voce sempre calma, tante enunciazioni smentite dai fatti reali, che alla fine, l’impressione che incute è di sottile, gelido terrore. Il terrore che ti prende quando ti   trovi davanti ad un autistico psicopatico, cui è stato dato il potere supremo, quello monetario.

Il terrore poi cresce quando si  deve constatare che quella di Draghi non è una sua privata follia.  Lo  stesso rapporto falso con la realtà lo ha  rivelato  condivisa per esempio dal governatore di Bankitalia, il grandemente inadempiente e non-sorvegliante Visco, che in una conferenza alla Scuola di Sant’Anna ha esalato:

Se c’è una tassa iniqua è proprio l’#inflazione, perché è regressiva e impedisce di occupare le persone: prima che ci fossero gli strumenti di #politicamonetaria per contrastarla, i tassi di disoccupazione erano alti e le crisi industriali parecchie”. 

 

Visco: “In Italia abbiamo avuto periodi con inflazione al 20%, non c’erano strumenti di politicamonetaria per contrastarla: fu con il divorzio Bankitalia/Tesoro che venne riportata al 5-6% e la “tassa di inflazione” spa  Alla  presentazione di  “AnniDifficili” a Pisa

 

Una frase così falsa da lasciare senza fiato.

“Embé, da un governatore non se po’ sentì ’sta cosa”, commenta uno.

Zibordi: “Ma che razzo dite ? negli anni ’70 la distribuzione del reddito a favore del lavoro dipendente raggiunse il massimo. L’inflazione era alta, ma perché la quota del reddito che andava al lavoro era alta (e gli aumenti salariali spingevano l’inflazione)”. E lo dimostra con questa tabella:

Leonardo Sperduti: “Negli anni 70 la capacità di risparmio netto è stata massima. Ma a loro piace cambiare la storia e rinnegare i dati”.  …”Siamo ancora al livello che emettere moneta crea automaticamente e direttamente inflazione? Quanta moneta è stata emessa dalle banche centrali mondiali? A quanto è l’inflazione in Europa, USA, UK, Giappone ecc?”.   Infatti s’è instaurata la deflazione,  ela BCE non riesce a portare l’inflazione almeno al 2%, come sarebbe obbligata a fare.

Inflazione tassa regressiva? Che colpiva i poveri?

“Allora, gli operai compravano casa e facevano laureare i figli. Ovvio che i rentier si sentissero erodere il potere”, rimbecca uno. “Guarda caso in quei periodi di inflazione brutta brutta, anche gli operai delle acciaierie compravano case ed appartamenti”, rincara un altro.   E il tutto comprovato con tabelle e statistiche di quegli anni della lira e della sovranità monetaria.

Disoccupazione anni 70, media 6%. Inflazione anni 70, media 16%- Oggi: Inflazione 2018 1,1%; Disoccupazione 11%

E non è nemmeno vero che l’inflazione abbia raggiunto il 20%, come afferma mentendo Visco (e con lui Giannino  Oscar, il laureato di Chicago):

Ma chiunque abbia vissuto quegli anni  da adulto e lavoratore, lo sa e lo conferma: l’inflazione conviveva col pieno impiego, anzi i politici erano “ossessionati dal pieno impiego” (disse Andreatta), e il risparmio privato degli italiani aumentò fra i più alti del mondo.

Anche il PIL reale (ossia al netto dell’inflazione) cresceva negli anni “bui” della lira svalutata e inflazionata: del 4% annuo. Oggi, nella stabbilità dell’euro, cresce dello 0,2% annuo. (Dragoni su dati CGIA)

Con che faccia Visco e Draghi – ed evidentemente  gli altri membri della BCE – dicono il contrario? E’   perché condividono totalitariamente – e totalitariamente impongono alla realtà e ai popoli –   la loro ideologia.  In ciò somigliano terribilmente al PCUS degli anni ‘3, dello stalinismo sovietico,    quando le radio proclamavano “la vita diventa ogni giorno più facile e felice, grazie al compagno Stalin!”, e intano la gente faceva le file davanti alle botteghe perché mancavano il latte, le salsicce, il formaggio  e il pane,  perché il Partito stava  “eliminando i kulaki come classe”, provocando la carestia. Nessun riscontro con la realtà fletteva la visione ideologica dei capi, nessuna pietà li piegava. Quando Svetlana,  la figlia di Stalin, di ritorno dalla  vacanza in Crimea, disse a papà che attraversando l’Ucraina aveva visto cadaveri  sulle massicciate  e folle di scheletri che si affollavano attorno al treno chiedendo un tozzo di pane, Stalin  ordinò: quando i  treni attraversano l’Ucraina, abbassare le tendine!

Daghi , Visco ispirano lo stesso terrore e ci convincono che siamo entrati in un nuovo totalitarismo e ”regno della menzogna”, anti-umano e distruttore di popoli. Non sono lontani di aver fatto ai greci ciò che gli ideologici del PCUS fecero aikulaki, ma Draghi dice che adesso le banche greche sono ben capitalizzate…E i media,come allora, giurano su queste odiosità e falsità e le diffondono come fossero il Verbo, l’Autorità salvifica.

Anche Ashoka Mody,  l’economista di Princeton, ha notato lo stesso scollamento fra il reale e le espressioni di Draghi quando costui ha celebrato festosamente il ventennio dell’euro. “Il tributo di Draghi all’euro rivanga miti già da lungo tepo confutati”

E Mody ne esamina quattro. Il primo:

E’ il mercato unico a necessitare di una moneta unica. No, non è vero”.

Mody cita una serie di studi complessi che  smentiscono come il commercio  sia migliorato “eliminando i costi dei pagamenti in valuta estera e degli accordi e del rischio di cambio delle coperture”. Li lasciamo ai lettori  più eruditi, perché noi ci accontentiamo di una tabella:  dove si vede che la Germania ha aumentato il commercio  con paesi che non hanno l’euro (Polonia, Ungheria, Cechia) e  diminuito i rapporti commerciali con Francia e Italia, paesi   che hanno l’euro.

“La sovranità monetaria crea più problemi di quanti ne risolva, dice Draghi.  Ma è  così?”

Draghi lo afferma  mostrando come si comportarono i governi e i politici  negli anni 70-80,quando abusarono del potere  sovrano delle loro banche centrali di stampare moneta, creando  vasti deficit di bilancio.  Dice insomma che farebbero lo stesso oggi.  Mody risponde che gli anni ‘7’0 furono anni “eccezionali”, in parte l’inflazione aumentò per  i rincari petroliferi, che portarono anche un brusco rallentamento della crescita, facendo entrare l’Occidente intero nel periodo chiamato di “stagflazione” (inflazione con stagnazione).  Ma poi le nazioni occidentali hanno imparato a disciplinare se stesse anche non adottando una moneta unica. Mody ricorda che   la speculazione (di oros) che  forzò  il Regno Unito ad uscire dal serpente monetario nel’92,  “fu una benedizione  mascherata da maledizione”, perché allora l’economia inglese crebbe grazie alla svalutazione della sterlina. (e potrebbe dire lo stesso dell’Italia, che subì lo stresso attacco). Mody cita uno studio importante degli economisti “ Jesús Fernández-Villaverde, Luis Garicano e Tano Santos  che  hanno sostenuto il contrario : l’euro ha indebolito la disciplina macroeconomica. Una politica monetaria comune per la zona euro ha portato i tassi di interesse a scendere troppo rapidamente per i paesi con strutture istituzionali deboli. I governi di questi paesi hanno approfittato dei tassi di interesse più bassi per aumentare , in deficit, i benefici  ai gruppi  favoriti (i parassiti)  piuttosto che impegnarsi nella più dura attività di investimento per aumentare i loro potenziali tassi di crescita. Lungi dall’infliggere la disciplina, la moneta unica l’ha sovvertita.

Soprattutto, “è sconcertante che Draghi non prenda in considerazione  il beneficio più importante della sovranità monetaria, la capacità di assorbire forti shock economici attraverso  le svalutazioni del tasso di cambio.  […] Il  deprezzamento per assorbire gli shock è inequivocabilmente auspicabile. Inoltre, nella misura in cui   la svalutazione del cambio accorcia il periodo di sofferenza a seguito dello shock, aiuta anche ad evitare le recessioni estese, che  questa  recente ricerca sottolinea che minano  il potenziale di crescita a lungo termine .

Altra falsa asserzione di Draghi, gravissima:

L’eurozona promuove la convergenza economica. No non lo fa.

“I padri fondatori dell’euro avevano ragione, dice Draghi,  che la “cultura della stabilità”imposta  dalla moneta unica avrebbe promosso maggiore crescita e occupazione. E cita a prova  la “convergenza”, il restringimento delle differenze di reddito pro capite tra i paesi membri della zona euro. Draghi riconosce che il Portogallo e la Grecia hanno stagnato e divergono piuttosto che convergere. E stranamente, non cita l’Italia (che non converge affatto, ndr.) . Tuttavia, in difesa della tesi di convergenza, indica i paesi baltici e la Slovacchia come successi.

Dopo aver dimostrato i motivi del tutto speciali per cui “la Slovacchia , entrata nell’eurozona nel 2009, l’Estonia nel 2011, la Lettonia nel 2014 e la Lituania nel 2015”  erano già fortemente convergenti prima  grazie anche al loro solido capitale umano (di lavoratori qualificati) ereditati dagli anni sotto la pianificazione socialista” come documentato quiqui , Mody rimprovera apertamente Draghi: “un  simile  uso selettivo delle prove è altamente discutibile” sul piano scientifico. Il fatto che non citi l’Italia che sta divergendo, e  citi l’Estonia che  converge, è profondamente  disonesto.  E’ la disonestà “col paraocchi” e “ammantata di  superiorità”  di un  ideologo che non vuole riconoscere la realtà, quando smentisce le sue teorie, invece di riconoscerle sbagliate.

Le conseguenze di una tale falsa narrativa possono essere gravi”, avverte Mody.

“I premi Nobel George Akerlof e Robert Shiller sottolineano il ruolo cruciale che le “storie” giocano nel determinare politiche e risultati economici. Ripetute all’infinito, le storie che ci raccontiamo diventano la nostra forza motivante, che ci spinge a ignorare le prove contrarie.  Mentre si diffondono,  hanno un “impatto economico”. Spesso un impatto politico più terribile”, dice l’economista indo-inglese.

Noi,  nel nostro piccolo, non abbiamo bisogno  di attendere i suddetti premi Nobel: abbiamo visto i danni che la “narrativa” marxista e sovietica, applicata dal KGB,  ha inflitto alla  Russia e all’Est europeo in mancato sviluppo e perdite umane.

Ma soprattutto nella chiusa del suo discorso, Draghi proclama che “l’unione monetaria era necessaria per porre fine a secoli di “dittature, guerre e miseria” e invece l’euro è “il segno definitivo  del “ del “progetto politico europeo”, che unisce gli europei “in libertà, pace, democrazia e prosperità”. E qui  davvero, dice anche Mody,  il discorso di Draghi   diventa “scary”, ossia  “fa paura”: “perché le nazioni europee sono più divise che mai, dal tempo della seconda guerra mondiale, e l’euro ha contribuito notevolmente ad approfondire l’euroscetticismo”, e in Francia la “democrazia” di Macron spara sui cittadini non meno della dittatura di Maduro.

Austerity, Europa, Politica

La recessione tecnica in Italia, le cause, le soluzioni

Alla fine tanto tuonò che piovve. Chi masochisticamente mi legge sa che, personalmente, parlo della possibilità, anzi della probabilità, di recessione da giugno-luglio quindi sono tutto meno che stupito della cosa. Secondo  il mio modesto parere bisognerebbe allungare un po’ la vista e vedere le possibili uscite dalla situazione attuale, anche se le soluzioni possibili hanno il gusto della fantascienza nella situazione politica attuale.

Comunque anni, anzi ormai decenni, di taglio alla spesa pubblica ed austerità, anni di consentitemelo, di balle sull’austerità espansiva, anni di cattivi professori , di politici ignavi o autoreferenziali, non si cancellano in tre mesi:

Alcuni dati:

L’Italia non sta entrando in recessione tecnica. Semplicemente non ne è mai uscita. Interessante il paragone con quanto successo negli USA negli anni 30 della grande recessione:

Anche durante gli anni 30 del secolo scorso negli USA nella cosiddetta “Grande Depressione” ebbero momenti di leggera crescita, con altri in cui la crescita fu assente. Perfino gli USA si avviavano ad una piccola recessione nel 1938, poi questa venne risolta, anche se non in modo positivo. Dopo Monaco (1938) e lo smembramento della Cecoslovacchia iniziò un riarmo mondiale di cui gli USA riuscirono ad approfittare. Per fare un esempio la Curtiss iniziò a produrre questo per la Francia (ordinati nel primo lotto 100 con 173 motori, ed altri furono ordinati dal regno Unito).

Cosa sarebbe necessario per uscire dalla recessione? Non una guerra, speriamo, ma uno shock economico, cosa che non è possibile fare quando si deve discutere con un organo burocratico esterno del 2,4%, del 2% del 1,6% del PIL. Proprio la struttura di definizione del budget europeo, la mancanza d uno strumento monetario specifico di accompagnamento, non fa altro per paesi con una struttura economica come quella italiana, ma anche come quella francese, attenzione, che proseguire nella politica depressiva. Possiamo aspettarci che l’estero spinga, con le esportazioni, la nostra crescita? Non ci sono prospettive positive:

Questo 1,4% che vedete è su base annua perchè mese su mese siamo a -0,8% , una vera e propria caduta. Gli effetti della fine del QE sono molto più forti di quanto ci si aspettasse anche perchè accompagnati ad un rallentamento mondiale (vedremo il caso Cina a parte, ma non è positivo). Allo stato attuale bisognerebbe dare un forte shock a consumi ed agli investimenti interni, quindi si al RdC, ma anche a forti investimenti infrastrutturali, al salvataggio diretto di aziende industriali, interventi in manutenzione subito. Ad esempio subito rifacimento del tratto E45 chiuso, subito obbligare Autostrade ala ricostruzione dei ponti. Subito far costruire bus alla Italiana Autobus, appena salvata, ma , letteralmente, da domani per quello che c’è e domani con nuovi bus ibridi ed elettrici. Chi parla di crescita, i politici che affermano che il governo fa poco, in parte con ragione, inizino ad andare a Bruxelles a protestare contro le politiche restrittive comunitarie, oppure tacciano, perchè sappiamo bene chi, in questo momento, sta tirando il freno a mano.

Giornalismo, Politica

Essere sovranista non è mica fuorilegge, dice Maria Giovanna Maglie

Tra Lega e M5s non rientra la polemica sulla decisione di Raiuno di affidare alla giornalista una striscia quotidiana dopo il Tg1 delle 20 (che fu di Biagi, Di Battista e Berti). Che afferma: “Sono turbata dal provincialismo che fa reputare così decisivi cinque minuti televisivi, senza capire che oggi i social contano molto di più”.

Lunedì Maria Giovanna Maglie dovrebbe decidere se firmare il contratto per la conduzione della striscia informativa post Tg1 che le ha proposto la direttrice di Raiuno Teresa De Santis. Ma a giudicare dal tasso di alta tensione politica e aziendale che ha caratterizzato il primo giorno di febbraio, il suo non si annuncia come un un weekend facile. Ieri sulla sua designazione alla striscia che fu di Enzo Biagi ma che lei, ha detto all’Agi, vorrebbe come quella di “Batti e ribatti” di Pierluigi Battista (due minuti di monologo, tre di intervista a un personaggio)si è scatenato di tutto, fino alle risse via comunicati e tweet tra gli alleati di governo: i cinquestelle che non digeriscono la designazione della sovranista vicina alla Lega, per stopparla si sono appellati al presidente della Rai Marcello Foa e adesso stanno valutando anche di  scrivere all’ad Fabrizio Salini.

Motivi addotti: i famigerati 150 milioni di lire dei rimborsi spese della sua prima vita in Rai, accusa che però finì con l’archiviazione, tanto che ora Maglie minaccia di portare in tribunale chi continua a sbandierare quell’accusa (“mi comprerò una casetta alle Eolie”, ha detto all’Agi), ma anche la sua antica vicinanza a Bettino Craxi.

Il fatto di essere, insomma legata , dicono i Cinquestelle “al vecchio sistema”. Un vecchio sistema, che ha ricordato il presidente leghista della commissione Trasporti, Alessandro Morelli, accorso in suo aiuto, ha sempre dominato in Rai, mentre il vero cambiamento, sostiene “dovrebbe consistere nella scelta di un vero professionista, piuttosto che di un amico degli amici”. 

Mentre su Facebook il pd Michele Anzaldi, osservando che “i due partiti che volevano i partiti fuori dalla Rai ora decidono anche chi deve condurre un singolo programma” definiva “indecente lo spettacolo che Lega e M5s stanno dando sulla Rai”, il caso Maglie colonizzava anche Twitter: Giuliano Ferrara, detentore nel 2011 dell’ultima striscia post Tg1 soccorreva l’amica stemperando i toni  (“lasciate che Maria Giovanna Maglie venga a noi nel posto che fu di Biagi, Battista e Berti. È una stronza simpatica”). Ma i cinguettii antiMaglie dei cinquestelle si moltiplicavano, con un portavoce del Movimento, Michele Gubitosa che ricordava pure che la giornalista “non è iscritta all’albo dei giornalisti da tre anni”. 

Già, perché al mattino, al risveglio, il primo metaforico strattone alla Maglie era arrivato da un tweet del segretario dell’Usigrai Vittorio Di Trapani che svelava la sua mancata iscrizione da tre anni all’Ordine dei giornalisti.  “Non mi pare una faccenda di grande importanza, dall’84 a tre anni fa non facevo mica parte dell’ordine dei pasticcieri. Mi sono semplicemente dimenticare di pagare la mia quota, l’iscrizione annuale era un’operazione di cui si occupava mio padre, che oggi non c’è più”, ha così commentato la faccenda con l’Agi Maglie, interpretando comunicati e  tweet contro di lei come  parte di “un fuoco preventivo teso a far saltare la mia conduzione della striscia”.

Stupefatta dalla rivolta scatenata dall’ipotesi di una sovranista a capo della nuova striscia informativa di Raiuno,  ha chiarito che essere sovranista “non è fuorilegge, non significa mica essere brigatisti, non vedo nulla di male ad essere simpatizzanti di questo governo”. E stupita pure dal terrore che suscita il suo nome a Raiuno ha chiarito di essere “turbata dal provincialismo che fa reputare così decisivi cinque minuti televisivi, senza capire che oggi i social contano molto di più”. Se accetterà (sempre che da qui a lunedì l’offerta sia ancora in piedi) non avrà niente da ridire sul tetto del compenso dei 240 mila euro: “È una regola applicata un po’ a tutti. Non a Fabio Fazio naturalmente”. 

Chissà se a questo punto riuscirà a realizzare la versione 2.0 di ‘Batti e ribatti’, la striscia informativa del Tg1, con cui 15 anni fa Pierluigi Battista superava il 20 per cento di share. Intanto la conduttrice designata ha incassato il suo sostegno: “Non condivido il sovranismo ma non vedo perché non dovrebbe avere spazio in Rai. Non sopporto quelli che, dopo aver occupato militarmente tutti gli spazi della tv pubblica, compresa l’Usigrai, si trasformano in verginelle e protestano perché in quegli stessi spazi si siede chi politicamente la pensa diversamente da loro”, ha chiarito l’editorialista del Corriere della Sera, ancora più deciso sulla questione della mancata iscrizione della Maglie all’ordine dei giornalisti negli ultimi tre anni: “L’ordine dei giornalisti è una creatura fascista che andrebbe abolita. Non esiste in nessun’altra democrazia occidentale. Gli antisovranisti e  i filoeuropei della Rai dovrebbero saperlo”.

Fonte: agi.it (qui)

Globalizzazione, Immigrazione, Politica, Sinistra

La sinistra è sempre stata contro le immigrazioni di massa. Poi si è venduta al neoliberismo… ⎮ vocidallestero.it

Com’è stato possibile che in questi ultimi anni la sinistra sia diventata propugnatrice delle tesi open border, nate all’interno dei circoli anarco-capitalisti e da sempre sostenute dai think tank della destra economica radicale? Come può non rendersi conto che la libertà di migrare, lungi dall’essere un diritto inviolabile dell’uomo, non è altro che una delle quattro libertà fondamentali di circolazione alla base della dottrina economica neoclassica – nello specifico quella della forza lavoro – e che come tale viene fortemente sostenuta proprio dal grande business? Questo lungo articolo tratto da American Affairs, che presentiamo in due puntate, cerca di spiegare i sommovimenti storici e culturali – che gettano come sempre le radici nella svolta reazionaria neoliberale degli anni ’80, innescata dalle politiche di Reagan e della Tatcher – che hanno prodotto questa mutazione antropologica della sinistra, passata dalle tradizionali posizione anti-immigrazioniste legate al movimento operaio e sindacale all’accettazione dogmaticamente moralistica dei confini aperti.

Prima del “Costruite il muro!”, c’era il “Butti giù questo muro!”. Nel suo famoso discorso del 1987, Ronald Regan chiese che la “cicatrice” del Muro di Berlino fosse cancellata e ribadì che l’oltraggiosa restrizione alla circolazione che esso rappresentava equivaleva niente di meno che a una “questione di libertà per tutto il genere umano”. Continuò dicendo che quelli che “rifiutavano di unirsi alla comunità della libertà” sarebbero “stati superati” come risultato dell’irresistibile forza del mercato globale. E così fu. Per celebrare, Leonard Bernstein ha diretto una rappresentazione dell’”Inno alla gioia” e Roger Waters si è esibito in “The Wall”. Le barriere alla mobilità del lavoro e dei capitali crollarono in tutto il mondo; fu dichiarata la fine della storia; e seguirono decenni di globalizzazione dominata dagli Stati Uniti.

Nei suoi 29 anni di esistenza, circa 140 persone sono morte cercando di superare il Muro di Berlino. Nel mondo promesso della libertà e della prosperità economiche globali, sono morte 412 persone soltanto l’anno scorso nel tentativo di attraversare il confine tra Messico e Stati Uniti, e più di tremila sono morte l’anno prima nel Mediterraneo. Delle canzoni pop e dei film di Hollywood sulla libertà non c’è traccia. Cosa è andato storto?

Naturalmente, il progetto reaganiano non si concluse col crollo dell’Unione Sovietica. Reagan – e i suoi successori di entrambi i partiti – ha usato la stessa retorica trionfalistica per vendere lo svuotamento dei sindacati, la liberalizzazione delle banche, l’espansione delle esternalizzazioni, e la globalizzazione dei mercati lontano dal peso morto degli interessi economici nazionali.

Per questo progetto è stato centrale l’attacco neoliberale alle barriere nazionali alla circolazione della forza lavoro e dei capitali. In casa, Reagan sovrintese a una delle più significative riforme a favore dell’immigrazione nella storia americana, il “Reagan Amnesty” del 1986, che ampliò il mercato del lavoro permettendo a milioni di migranti illegali di ottenere uno status legale.

Inizialmente, i movimenti popolari che lottavano contro differenti elementi di questa visione post-Guerra Fredda insorsero da sinistra, nella forma di movimenti anti-globalizzazione e successivamente di Occupy Wall Street. Ma, mancando del potere negoziale per sfidare il capitale internazionale, questi movimenti di protesta non si risolsero in nulla. Il sistema economico globalizzato e finanziarizzato ha tenuto nonostante tutte le devastazioni che ha provocato, anche durante la crisi finanziaria del 2008.

Oggi, il movimento anti-globalizzazione di gran lunga più visibile ha preso la forma di una forte reazione contro i migranti, guidata da Donald Trump e altri “populisti”. La sinistra, nel frattempo, non sembra avere altre opzioni che ritrarsi inorridita dal “Muslim ban” di Trump e dalle nuove storie sull’ICE che bracca le famiglie di migranti; può soltanto reagire contro qualsiasi cosa Trump stia facendo. Se Trump è a favore dei controlli sull’immigrazione, la sinistra chiederà l’opposto. E così oggi i discorsi sui “confini aperti” sono entrati nel dibattito liberale mainstream, quando una volta erano confinati ai think tank radicali del libero mercato e ai circoli anarco-libertari.

Anche se nessun importante partito politico di sinistra sta offrendo proposte concrete per una società realmente senza confini, accogliendo gli argomenti morali della sinistra open-border e gli argomenti economici dei think tank del libero mercato, la sinistra si è messa all’angolo. Se “nessun essere umano è illegale!”, come affermano i canti di protesta, la sinistra sta implicitamente accettando la tesi morale a favore di nessuna frontiera o sovranità nazionale. Ma quali implicazioni avrà l’immigrazione illimitata su progetti come la sanità e l’educazione pubbliche universali, o la garanzia dei lavori federali? E come potranno i progressisti spiegare questi obiettivi in modo convincente all’opinione pubblica?

Durante la campagna delle primarie democratiche del 2016, quando il redattore di Vox Ezra Klein suggerì le politiche open border a Bernie Sanders, il senatore com’è noto dimostrò la sua età rispondendo: “Confini aperti? No. Quella è una proposta dei fratelli Koch” [1]. Questo per un attimo portò confusione nella narrazione ufficiale, e Sanders fu velocemente accusato di “parlare come Donald Trump”. Sotto le differenze generazionali rivelate da questo scambio, in ogni caso, c’è un tema più grande. La distruzione e l’abbandono delle politiche del lavoro implicano che, al momento, i temi dell’immigrazione possano essere messi in scena soltanto all’interno della cornice di una cultura di guerra, combattuta interamente sul terreno morale. Nelle intense emozioni del dibattito pubblico americano sulla migrazione, prevale una semplice dicotomia morale e politica. È “di destra” essere “contro l’immigrazione” e “di sinistra” essere “a favore dell’immigrazione”. Ma l’economia della migrazione racconta una storia diversa.

GLI UTILI IDIOTI

La trasformazione della posizione open border in una posizione di “sinistra” è un fenomeno del tutto nuovo ed è in contrasto con la storia della sinistra organizzata in diversi modi fondamentali. I confini aperti sono da lungo tempo un grido di battaglia per la destra degli affari e del libero mercato. Attingendo da economisti neoclassici, questi gruppi hanno sostenuto la liberalizzazione della migrazione sulla base della razionalità del mercato e della libertà economica. Si oppongono ai limiti alla migrazione per le stesse ragioni per cui si oppongono alle restrizioni sui movimenti di capitali. Il Cato Institute, finanziato dai Koch, che promuove anche l’abolizione delle restrizioni legali sul lavoro minorile, ha prodotto una difesa radicale delle frontiere aperte per decenni, sostenendo che il sostegno alle frontiere aperte è un principio fondamentale del libertarismo e “Dimenticate il muro, è già tempo che gli Stati Uniti abbiano confini aperti” [2]. L’Adam Smith Institute ha fatto lo stesso, sostenendo che “le restrizioni all’immigrazione ci rendono più poveri” [3].

Seguendo Reagan e figure come Milton Friedman, George W. Bush ha sostenuto la liberalizzazione della migrazione prima, durante e dopo la sua presidenza. Grover Norquist, zelante difensore dei tagli fiscali di Trump (e di Bush e di Reagan), per anni si è scagliato contro l’intolleranza dei sindacati, ricordandoci che “l’ostilità verso l’immigrazione è stata tradizionalmente una causa sindacale” [4].

Non ha torto. Dalla prima legge che limitava l’immigrazione nel 1882 a Cesar Chavez e ai famosi lavoratori multietnici della United Farm che protestavano contro l’uso e l’incoraggiamento, da parte dei datori di lavoro, dell’emigrazione illegale nel 1969, i sindacati si sono spesso opposti alla migrazione di massa. Videro l’importazione deliberata di lavoratori illegali a basso salario come un indebolimento del potere contrattuale della forza lavoro e come forma di sfruttamento. Non c’è modo di aggirare il fatto che il potere dei sindacati dipende per definizione dalla loro capacità di limitare e ritirare l’offerta di lavoro, cosa che diventa impossibile se un’intera forza lavoro può essere sostituita facilmente ed economicamente. Le frontiere aperte e l’immigrazione di massa sono una vittoria per i padroni.

E i padroni la supportano quasi universalmente. Il think tank e organizzazione di lobbying di Mark Zuckerberg, Forward, che promuove la liberalizzazione delle politiche migratorie, elenca tra i suoi “fondatori e finanziatori” Eric Schmidt e Bill Gates, nonché amministratori delegati e dirigenti di YouTube, Dropbox, Airbnb, Netflix, Groupon, Walmart , Yahoo, Lyft, Instagram e molti altri. La ricchezza personale cumulata rappresentata da questa lista è sufficiente a influenzare pesantemente la maggior parte delle istituzioni di governo e dei parlamenti, se non a comprarli del tutto. Sebbene spesso celebrati dai progressisti, le motivazioni di questi miliardari “liberali” sono chiare. Non dovrebbe sorprendere la loro generosità verso i repubblicani dogmaticamente schierati contro il lavoro, come Jeff Flake della famosa “Gang of Eight“.

Certo, l’opposizione sindacale alla migrazione di massa nelle epoche precedenti è stata a volte mescolata con il razzismo (che era presente in tutta la società americana). Ciò che viene omesso nei tentativi dei libertari di diffamare i sindacati come “i veri razzisti”, tuttavia, è che ai tempi dei sindacati forti, questi erano in grado di usare il loro potere anche per organizzare campagne di solidarietà internazionale con i movimenti dei lavoratori in tutto il mondo. I sindacati hanno aumentato i salari di milioni di membri non bianchi, mentre oggi si stima che la de-sindacalizzazione costi ai maschi neri americani 50 dollari a settimana [5].

Durante la rivoluzione neoliberale di Reagan, il potere sindacale subì un duro colpo dal quale non si è mai più ripreso e i salari sono rimasti fermi per decenni. Sotto questa pressione, la sinistra stessa ha subito una trasformazione. In assenza di un potente movimento operaio, è rimasta radicale nella sfera della cultura e della libertà individuale, ma può offrire poco più di proteste inoffensive e appelli al noblesse oblige nella sfera dell’economia.

Con le immagini oscene di migranti a basso reddito che vengono braccati come criminali dall’ICE, di altri che affogano nel Mediterraneo, e la preoccupante crescita del sentimento anti-immigrazione in tutto il mondo, è facile capire perché la sinistra vuole impedire che i migranti illegali diventino bersagli e vittime. E con ragione. Ma agendo sulla base del giusto impulso morale a difendere la dignità umana dei migranti, la sinistra ha finito per trascinare la linea del fronte troppo indietro, difendendo efficacemente lo stesso sistema di sfruttamento della migrazione.

I benintenzionati attivisti di oggi sono diventati gli utili idioti del grande business. Adottando la difesa dei “confini aperti” – e un feroce assolutismo morale che considera ogni limite alla migrazione come un male indicibile – qualsiasi critica al sistema di sfruttamento delle migrazioni di massa viene effettivamente respinta come bestemmia. Persino politici saldamente di sinistra, come Bernie Sanders negli Stati Uniti e Jeremy Corbyn nel Regno Unito, sono accusati di “nativismo” dai critici se riconoscono a un certo punto la legittimità delle frontiere o delle restrizioni sulla migrazione. Questa radicalismo delle frontiere aperte in definitiva giova alle élite dei paesi più potenti del mondo, indebolisce ulteriormente il lavoro organizzato, deruba il mondo in via di sviluppo di professionisti di cui ha disperato bisogno e mette i lavoratori contro i lavoratori.

Ma la sinistra non ha bisogno di credermi sulla parola. Basta chiedere a Karl Marx, la cui posizione sull’immigrazione lo farebbe bandire dalla sinistra moderna. Anche se la velocità e le dimensioni attuali dei fenomeni di migrazione sarebbero stati impensabili ai tempi di Marx, egli espresse una visione estremamente critica degli effetti della migrazione che si verificò nel diciannovesimo secolo. In una lettera a due dei suoi compagni di viaggio americani, Marx sosteneva che l’importazione di immigrati irlandesi poco pagati in Inghilterra li costringeva a una concorrenza ostile con i lavoratori inglesi. Lo vedeva come parte di un sistema di sfruttamento, che divideva la classe operaia e che rappresentava un’estensione del sistema coloniale. Scrisse:

A causa della concentrazione sempre crescente delle locazioni, l’Irlanda invia costantemente il proprio surplus umano al mercato del lavoro inglese, e quindi fa scendere i salari e riduce la posizione materiale e morale della classe operaia inglese.

E la cosa più importante di tutte! Ogni centro industriale e commerciale in Inghilterra ora possiede una classe operaia divisa in due campi ostili, proletari inglesi e proletari irlandesi. Il comune lavoratore inglese odia il lavoratore irlandese come un concorrente che abbassa il suo tenore di vita. Rispetto all’operaio irlandese, si considera membro della nazione dominante e conseguentemente diventa uno strumento dell’aristocrazia e dei capitalisti inglesi contro l’Irlanda, rafforzando così il loro dominio su se stesso. Ama i pregiudizi religiosi, sociali e nazionali contro il lavoratore irlandese. Il suo atteggiamento nei suoi confronti è molto simile a quello dei “bianchi poveri” verso i negri negli ex stati schiavisti degli Stati Uniti. L’irlandese lo ripaga con gli interessi nella propria moneta. Vede nell’operaio inglese sia il complice che lo stupido strumento dei governanti inglesi in Irlanda.

Questo antagonismo è artificialmente tenuto in vita e intensificato dalla stampa, dal pulpito, dai fumetti, in breve, da tutti i mezzi a disposizione delle classi dominanti. Questo antagonismo è il segreto dell’impotenza della classe operaia inglese, nonostante la sua organizzazione. È il segreto con cui la classe capitalista mantiene il suo potere. E quest’ultima è abbastanza consapevole di questo [6].

Marx continuava dicendo che la priorità per l’organizzazione dei lavoratori in Inghilterra era “far capire agli inglesi che per loro l’emancipazione nazionale dell’Irlanda non è una questione di giustizia astratta o di sentimento umanitario, ma la prima condizione della loro emancipazione sociale”. Qui Marx ha indicato la strada per un approccio che oggi difficilmente si trova. L’importazione di manodopera sottopagata è uno strumento di oppressione che divide i lavoratori e beneficia chi ha il potere. La risposta adeguata, quindi, non è un moralismo astratto sull’accoglienza di tutti i migranti come un atto immaginario di carità, ma piuttosto affrontare le cause profonde della migrazione nel rapporto tra le economie grandi e potenti e le economie più piccole o in via di sviluppo da cui le persone migrano.

IL COSTO UMANO DELLA GLOBALIZZAZIONE

I sostenitori delle frontiere aperte spesso trascurano i costi della migrazione di massa per i paesi in via di sviluppo. In effetti, la globalizzazione crea spesso un circolo vizioso: le politiche commerciali liberalizzate distruggono l’economia di una regione, che a sua volta porta all’emigrazione di massa da quella zona, erodendo ulteriormente il potenziale del paese di origine e deprimendo i salari per i lavoratori meno pagati nel paese di destinazione. Una delle principali cause della migrazione di manodopera dal Messico agli Stati Uniti è stata la devastazione economica e sociale causata dall’Accordo Nord Americano di Libero Scambio (NAFTA). Il Nafta costrinse gli agricoltori messicani a competere con l’agricoltura americana, con conseguenze disastrose per il Messico. Le importazioni messicane sono raddoppiate e il Messico ha perso migliaia di allevamenti di suini e coltivatori di mais a favore della concorrenza statunitense. Quando i prezzi del caffè sono scesi al di sotto del costo di produzione, il Nafta ha proibito l’intervento statale per mantenere a galla i coltivatori. Inoltre, alle società statunitensi è stato permesso di acquistare infrastrutture in Messico, tra cui, ad esempio, la principale linea ferroviaria nord-sud del paese. La ferrovia quindi interruppe il servizio passeggeri, determinando la decimazione della forza lavoro ferroviaria dopo aver schiacciato uno sciopero selvaggio. Nel 2002, i salari messicani erano diminuiti del 22%, anche se la produttività degli operai aumentava del 45% [7]. In regioni come Oaxaca, l’emigrazione devastò le economie e le comunità locali, mentre gli uomini emigrarono per lavorare nelle fattorie e nei macelli dell’America, lasciandosi alle spalle donne, bambini e anziani.

E che dire della consistente forza lavoro qualificata e dei colletti bianchi emigrati? Nonostante la retorica sui “paesi cesso” o sulle nazioni “che non mandano i migliori”, il prezzo della fuga di cervelli per le economie in via di sviluppo è stato enorme. Secondo le cifre del Census Bureau per il 2017, circa il 45% dei migranti che sono arrivati ​​negli Stati Uniti dal 2010 ha un’istruzione superiore [8]. I paesi in via di sviluppo stanno lottando per far restare i propri cittadini qualificati e i professionisti, spesso istruiti con un costo elevato per le finanze pubbliche, perché economie più ricche e più grandi che dominano il mercato globale hanno la ricchezza per prenderli. Oggi il Messico è anche uno dei maggiori esportatori al mondo di professionisti istruiti, e la sua economia soffre di un persistente “deficit di occupazione qualificata”. Questa ingiustizia nello sviluppo non è certamente limitata al Messico. Secondo la rivista Foreign Policy, “ci sono più medici etiopi che praticano a Chicago oggi che in tutta l’Etiopia, un paese di 80 milioni di persone” [9]. Non è difficile capire perché le élite politiche ed economiche dei paesi più ricchi del mondo vorrebbero che il mondo “mandasse il suo meglio”, indipendentemente dalle conseguenze per il resto del mondo. Ma perché la sinistra moralista a favore dei confini aperti fornisce un volto umanitario a questo puro e semplice egoismo?

Secondo le migliori analisi dei flussi di capitali e della ricchezza globale di oggi, la globalizzazione sta arricchendo le persone più ricche dei paesi più ricchi a spese dei più poveri, e non viceversa. Alcuni lo hanno chiamato “aiuti al rovescio”. Miliardi di pagamenti di interessi sul debito passano dall’Africa alle grandi banche di Londra e New York. La grande ricchezza privata viene generata ogni anno in industrie estrattive di materie prime e attraverso l’arbitraggio del lavoro, e rimpatriata verso le nazioni ricche in cui sono basate le multinazionali. Fughe di capitali di trilioni di dollari si verificano perché le multinazionali approfittano dei paradisi fiscali e delle giurisdizioni segrete, rese possibili dalla liberalizzazione per mano dell’Organizzazione Mondiale del Commercio dei regolamenti sulla fatturazione “inefficienti per il commercio” e di altra politiche [10].

La disuguaglianza della ricchezza globale è il principale fattore di spinta che guida la migrazione di massa e la globalizzazione del capitale non può essere separata da questa materia. C’è anche l’effetto di richiamo dei datori di lavoro sfruttatori negli Stati Uniti, che cercano di trarre profitto da lavoratori non sindacalizzati e con salari bassi in settori come l’agricoltura, nonché attraverso l’importazione di una grande forza lavoro impiegatizia già addestrata in altri paesi. Il risultato netto è una popolazione stimata di undici milioni di persone che vivono illegalmente negli Stati Uniti.

Fonte: vocidallestero.it (qui) Articolo di Angela Nagel

NOTE

[1] Ezra Klein, “Bernie Sanders: The Vox Conversation,” Vox, July 28, 2015.

[2] Jeffrey Miron, “Forget the Wall Already, It’s Time for the U.S. to Have Open Borders,” USA Today, July 31, 2018.

[3] Sam Bowman, “Immigration Restrictions Make Us Poorer,” Adam Smith Institute, April 13, 2011.

[4] Grover G. Norquist, “Samuel Gompers versus Reagan,” American Spectator, Sept. 25, 2013.

[5] Bhaskar Sunkara, “What’s Your Solution to Fighting Sexism and Racism? Mine Is: Unions,” Guardian, Sept. 1, 2018.

[6] David L. Wilson, “Marx on Immigration,” Monthly Review, Feb. 1, 2017.

[7] David Bacon, “Globalization and nafta Caused Migration from Mexico,” People’s World, Oct. 15, 2014.

[8] Gustavo López, Kristen Bialik, and Jynnah Radford, “Key Findings about U.S. Immigrants,” Pew Research Center, Sept. 14, 2018.

[9] Kate Tulenko, “Countries without Doctors?,” Foreign Policy, June 11, 2010.

[10]Jason Hickel, “Aid in Reverse: How Poor Countries Develop Rich Countries,” Guardian, Jan. 14, 2017.

Gran Bretagna, Immigrazione, Politica

Corbyn: l’immigrazione di massa ha distrutto le condizioni dei lavoratori britannici.

Il leader del Labour Jeremy Corbyn dichiara esplicitamente quello che nel nostro paese una “sinistra” allo sbando non vuole ammettere: che l’immigrazione incontrollata serve a distruggere le condizioni del lavoro, sostituendo con manodopera sottopagata i lavoratori locali. A vantaggio unicamente delle imprese. Corbyn, immediatamente accusato di essere “ukippista” (e, si può immaginare, lo sarebbe di essere leghista qui da noi), fa una proposta razionale: l’immigrazione deve essere basata sui posti di lavoro disponibili e sulle capacità di svolgere quel lavoro. Per questo, ritiene indispensabile che con l’uscita dall’UE la Gran Bretagna esca anche dal mercato unico, che prevede la libera circolazione delle persone. Insomma, la Brexit a quanto pare ha schiarito le idee ai Labour, che pure erano per il Remain: meglio tardi che mai (a parte i molti lavoratori che ci hanno già rimesso il posto).

Il leader del Labour ha dichiarato ad Andrew Marr che il suo partito vuole lasciare il mercato unico.

L’immigrazione di massa dall’Unione Europea è stata utilizzata per “distruggere” le condizioni dei lavoratori inglesi, ha dichiarato oggi Jeremy Corbyn.

Il leader del Labour è stato incalzato a proposito della posizione del suo partito nei confronti dell’immigrazione durante il programma televisivo di Andrew Marr. E ha ribadito la sua convinzione che la Gran Bretagna debba lasciare il mercato unico, sostenendo che “il mercato unico dipende dall’adesione all’UE… le due cose sono inestricabilmente legate“.

Corbyn ha dichiarato che il Labour sostiene invece un “accesso al libero commercio senza dazi“. Tuttavia, altri paesi che hanno stretto questo tipo di accordo, come la Norvegia, hanno accettato le “quattro libertà” del mercato unico, che includono la libera circolazione delle persone. Il parlamentare laburista Chuka Umunna ha condotto un tentativo in parlamento di far restare la Gran Bretagna nel mercato unico, sostenendo che il 66 per cento dei membri del Labour vogliono rimanere. Nicola Sturgeon, del SNP (partito nazionale scozzese, ndT), ha affermato che “l’incapacità del Labour di schierarsi dalla parte del buon senso sulla questione del mercato unico li renderà colpevoli del disastro della Brexit quanto i Tories“.

Perorando la causa dell’uscita dal mercato unico, Corbyn ha usato un linguaggio che raramente gli abbiamo sentito usare – accusando l’immigrazione di avere delle ripercussioni sulla vita dei lavoratori britannici.

Il leader del Labour ha affermato che anche dopo l’uscita dall’Unione europea, comunque resterebbero lavoratori europei in Gran Bretagna e viceversa. E ha aggiunto: “Quella che cesserebbe sarebbe l’importazione all’ingrosso di lavoratori sottopagati dall’Europa centrale, per distruggere le condizioni del lavoro, in particolare nel settore edile”.

Corbyn ha affermato che proibirebbe alle agenzie di pubblicizzare offerte di lavoro in Europa centrale – chiedendo loro di “pubblicizzarle prima nella loro zona”. Questa idea si basa sul  “modello Preston”, adottato in questa località dalle autorità locali, nell’intento di dare la priorità alle imprese locali per i contratti del settore pubblico. Le norme dell’UE impediscono questo sistema, considerandolo una forma di discriminazione.

In futuro, i lavoratori stranieri “verrebbero da noi in base ai posti di lavoro disponibili e alla loro capacità di svolgerli. Quello che non permetteremmo più è questa pratica delle agenzie, svolta in modo piuttosto vergognoso – reclutare forza lavoro a salario basso e portarla qui, per licenziare la forza lavoro già esistente nell’industria edile, e poi sottopagarla. È spaventoso, e le uniche a trarne vantaggio sono le imprese”.

Corbyn ha anche affermato che un governo guidato da lui “garantirebbe il diritto dei cittadini dell’UE a rimanere qui, incluso il diritto al ricongiungimento familiare” e spererebbe in una disposizione reciproca da parte dell’UE per i cittadini britannici all’estero.

Matt Holehouse, corrispondente UK / UE per MLex, ha dichiarato che il modo di parlare di Corbyn era “Ukippista”.

Quando Andrew Marr gli ha chiesto se avesse simpatizzato per gli euroscettici – dopo avere votato in passato contro i precedenti trattati dell’UE, come quello di Maastricht – Corbyn ha chiarito la sua posizione sull’UE: è contrario a un “mercato libero senza regole in Europa”, ha affermato, ma ha sostenuto gli aspetti “sociali” dell’UE, come il sostegno ai diritti dei lavoratori. Tuttavia, non ha apprezzato il divieto di dare aiuti di Stato all’industria.

Sulle tasse universitarie, è stato chiesto a Corbyn: “Cosa intendeva quando ha detto che se ne occuperà?”. La risposta è stata che “riconosceva” che i laureati devono affrontare un enorme fardello per pagare le loro tasse, ma che non si impegnava a cancellare tutti i debiti degli anni precedenti. Tuttavia, il Labour una volta al governo abolirebbe le tasse universitarie. Se avesse vinto le elezioni del 2017, gli studenti nel 2017/18 non avrebbero pagato le tasse universitarie (o sarebbero stati rimborsati).

L’intervista ha anche riguardato il divario legato al genere negli stipendi della BBC. Corbyn ha affermato che il Labour punta a esaminare il problema del divario di stipendio legato al genere con audit in tutte le imprese e a introdurre una proporzione salariale – in un’impresa nessuno può ricevere uno stipendio più di 20 volte maggiore di quello del dipendente con il salario più basso. “La BBC deve guardare a se stessa… il divario retributivo è astronomico“, ha aggiunto.

Ha aggiunto che non pensava fosse “sostenibile” per il governo assegnare al DUP (partito politico protestante di estrema destra dell’Irlanda del Nord, ndT) un miliardo e mezzo di sterline  e di aspettare con impazienza un’altra elezione.

Fonte: vocidallestero.it (qui) articolo di Helen Lewis, 23 luglio 2017

Politica, Sondaggi

Sondaggi, Lega allunga sul M5s. E Conte interpella la Merkel

Le polemiche intorno al caso SeaWatch 3, che vedono ancora una volta Matteo Salvini protagonista di uno stop allo sbarco di poche decine di migranti salvati da una Ong, non hanno intaccato il consenso della Lega nei sondaggi. Nel corso dell’ultima settimana, al contrario, le intenzioni di voto portano il Carroccio 1,1 punti più in alto rispetto alla precedente rilevazione Swg, al 32,6%.

La linea dura sui migranti, piuttosto, sembra nuocere al Movimento 5 Stelle, in calo di otto decimali al 24,9% dei consensi.
Perdono quota, nella settimana conclusa il 28 gennaio, anche i partiti “tradizionali”. Negli ultimi sondaggi il Pd ha ceduto 0,7 punti al 17,2%, Forza Italia è arretrata di mezzo punto all’8,1%. Modesto incremento, infine, per Fratelli d’Italia che acquisisce un decimale al 4,5%.

L’istituto Swg, che ogni settimana compila un sondaggio politico per il Tg La7, ha calcolato il consenso potenziale del nuovo cartello politico lanciato da Carlo Calenda in vista delle elezioni dell’Europarlamento. Il listone “Siamo Europei” comprenderebbe Pd, +Europa, Verdi e altre liste civiche.

Il progetto progressista e filo europeista godrebbe di un consenso compreso fra il 20 e il 24%, equivalente più o meno la somma dei consensi riconosciuti ai singoli partiti. Un risultato discreto, ma insufficiente a scalzare M5S o Lega alle europee di fine maggio.

La crescita della Lega non lo si deve soltanto al successo della politica sull’immigrazione (perlomeno sotto il profilo dell’immagine). Sembra dovuta anche a un consenso più trasversale del provvedimento economico di bandiera del governo sulle pensioni: Quota 100.

Conte chiede consigli a Merkel su come arginare la crescita della Lega

Secondo il sondaggio Quorum/YouTrend trasmesso su SkyTg24, infatti, la finestra di pensionamento anticipato fortemente voluta dalla Lega piace al 60,8% degli italiani. Al contrario, il Reddito di Cittadinanza, il cavallo di battaglia dei Cinque Stelle, convince solo il 45,3% del campione (che in maggioranza si dice contrario al sussidio di disoccupazione).

L’approvazione del cosiddetto Reddito di Cittadinanza, non costerebbe invece consensi alla Lega, in quanto l’89,8% del suo elettorato approva questa misura. Questo nonostante il fatto che a beneficiarne pare che sarà soprattutto il Mezzogiorno. È al Sud infatti che il tasso di povertà, specie tra i giovani, è più elevato.

Insomma, il fatto che al World Economic Forum di Davos il premier Giuseppe Conte abbia confidato ad Angela Merkel che il M5s è “preoccupato”, non è poi così stupefacente. La perdita di terreno nei confronti dell’alleato Salvini continua, nonostante l’avvio del Reddito di cittadinanza.

Elezioni, Politica, Sondaggi

Sardegna. I primi sondaggi. Solinas (Cdx) in testa segue Zedda (Csx). M5S al 23,5%, PD al 12,6%, Lega al 14,6% e FI al 6,3%.

Sono i risultati di Swg pubblicato oggi dal quotidiano La Nuova Sardegna sulle intenzioni di voto dei sardi per le regionali del 24 febbraio.

Il candidato del centrodestra Christian Solinas avanti, anche se in calo rispetto a tre mesi fa e quello del centrosinistra Massimo Zedda che insegue al secondo posto staccando Francesco Desogus del M5s, terzo. Sono i risultati di un sondaggio di Swg pubblicato oggi dal quotidiano La Nuova Sardegna sulle intenzioni di voto dei sardi per le regionali del 24 febbraio.

Un’indagine che vede gli altri quattro aspiranti governatori molto lontani dai primi tre, mentre gli indecisi sono il 27%. Solinas, sulla base di una stima effettuata il 26 gennaio, avrebbe tra il 33% e il 37% dei consensi, in diminuzione rispetto alla ‘forbice’ del 36-40% del 26 ottobre 2018.

Zedda si attesterebbe tra il 29% e il 33%, in recupero rispetto al 27-31% di tre mesi fa. In calo anche Desogus che partiva a ottobre da un 26-30% di dichiarazioni di voto mentre a gennaio si riduce a un 22-26%. Molto lontani gli altri: Mauro Pili (Sardi Liberi) al 4-6%, Paolo Maninchedda (Partito dei Sardi) 1-3%, Andrea Murgia (Autodeterminatzione) 1-3% e Vindice Lecis (Sinistra Sarda) 0-2%. Nel complesso, la coalizione di centrodestra risulta abbondantemente in testa col 38,8% dei consensi (+7,7% rispetto alle politiche del 4 marzo scorso) mentre il centrosinistra si ferma al 29,3% (+8,6% nei confronti delle politiche).

Il Movimento 5 Stelle e’ accreditato di un 23,5% con un vero e proprio crollo – secondo il sondaggio – rispetto alle elezioni di un anno fa quando aveva ottenuto il 42,5% dei consensi. Tra i partiti – sempre secondo il sondaggio pubblicato da La Nuova Sardegna – crolla anche Forza Italia che passa dal 14,8% delle politiche al 6,3% e continua a perdere voti anche il Pd con il 12,6 % dei consensi a fronte del 14,8% del 4 marzo 2018.

La Lega, invece, cresce di quasi quattro punti passando dal 10.8% delle politiche al 14,6% delle intenzioni di voto del sondaggio Swg. L’alleato Partito Sardo d’Azione e’ accreditato di un 3,1%: non e’ possibile un raffronto con le politiche in quanto correva con la Lega ma solo con le regionali del 2014 quando aveva ottenuto il 4,7% dei voto. Per quanto riguarda l’orientamento di voto ai partiti gli indecisi sono il 28%.

Fonte: sardegnalive.net (qui)

Magistratura, Politica

Diciotti, Dagospia: la lettera di Matteo Salvini scritta da Giulia Bongiorno.

Non ci sarebbe Carlo Nordio, ma Giulia Bongiorno dietro alla svolta di Matteo Salvini, svolta segnata dalla lettera al Corriere della Sera in cui il vicepremier della Lega afferma che non deve essere processato e che dunque l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti richiesta dal tribunale dei ministri di Catania non deve essere accolta. La bomba la sgancia Daospia, che ricorda come l’avvocato Bongiorno, “che ben conosce l’ambiente dei magistrati, sa che vogliono farla pagare” a Salvini. E ancora: “La sentenza sui 49 milionidella Lega, le indagini sui fondi all’estero, le piste sui rapporti con la Russia: i filoni sono tanti ma finora nessuno ha davvero attecchito”. Ma in questo caso, secondo Dago, sarebbe diverso: “Se tre giudici chiedono l’imputazione coatta dopo che un pm (Zuccaro) ha chiesto l’archiviazione, vuol dire che hanno in mano qualcosa di giuridicamente solido“, spiega l’articolo.

E quel qualcosa di solido potrebbe stare nel fatto che la Diciotti era una nave della Guardia di Finanza, mentre la Sea Watch è una nave battente bandiera olandese si una Ong tedesca. Le argomentazioni giuridiche che in questi giorni Salvini usa contro l’Olanda potrebbero non reggere, dunque, nel caso della Diciotti. Insomma, la possibilità che Salvini rischi qualcosa in quel processoesistono. E se scattasse una condanna superiore ai cinque anni, come è noto, scatterebbe l’interdizione dai pubblici uffici. Inoltre, la legge Severino aggiungerebbe la sospensione dalla carica fino a 18 mesi, nonché l’ineleggibilità per chi ha condanne definitive superiori ai due anni. Queste le ragioni che, secondo Dagospia, avrebbero spinto la Bongiorno ad inserirsi nella vicenda e, soprattutto, a scrivere la lettera al Corriere della Sera, poi firmata da Salvini.

Euro, Germania, Politica, Unione Europea

La Germania crede nell’Euro finchè le conviene.

Nella bolla del benessere tedesco lo scontento di alcuni paesi europei per la moneta unica appare incomprensibile. A Berlino si temono però shock sistemici che cancellino i crediti della Bundesbank. Se l’Italia si avvita e trascina tutti, si torna al caro vecchio marco.

LA PIÙ GRANDE ECONOMIA NAZIONALE d’Europa è anche il più forte benefciario della valuta comune. Questa è l’opinione prevalente in Germania e spiega perché nello Stato tedesco sia ancora forte il con- senso all’integrazione europea e all’euro. Nonostante alcune palesi violazioni dei trattati europei, la maggior parte dei tedeschi non vede alcun motivo di pensare a un’eventuale uscita dalla moneta comune. Al contrario: i partiti tedeschi, a eccezione dei conservatori di Alternative für Deutschland (Alternativa per la Germania, AfD), fanno a gara a chi vorrebbe rafforzare l’integrazione politica europea. Soprat- tutto i Verdi si presentano come europeisti entusiasti e per questa loro posizione raccolgono molti consensi. Tuttavia, se l’andamento economico dovesse cambiare rotta e la Germania dovesse sobbarcarsi ulteriori rischi legati a debiti altrui, questo sostegno politico potrebbe mostrare i propri piedi d’argilla.

Spesso si dimentica che inizialmente i tedeschi nutrivano un grande scetticismo nei confronti dell’euro. Nel 1998 il 58% della popolazione tedesca si dichiara- va contraria all’introduzione di una valuta comune (1): l’euro era un progetto delle élite, non del popolo. Gli scettici avrebbero avuto ragione: i primi anni di moneta comune in Germania corrisposero a una crescita economica assai lenta e a una disoccupazione record. Per quattro anni, tra il 2002 e il 2005, l’economia tedesca rimase praticamente in stallo. Nel 2005 la disoccupazione era al 10,6%, cifra che non solo era superiore alla media dell’Eurozona (8,9%), ma era anche superiore alla disoccupazione in Italia (7,7%) e in Grecia (9,8%) (2). La Germania era il malato d’Europa. Il giornalista inglese David Marsh scrisse nel 2002 che l’economia tede- sca era come una nobile, vecchia Mercedes, bisognosa di una profonda revisione (3).

In Germania ci si chiese in quegli anni se il cambio, fssato tassativamente a 1,95583 marchi per euro, non fosse troppo alto. Un economista di fama come Hans-Werner Sinn, dell’Università di Monaco di Baviera, rilevò che quella tedesca stava diventando un’«economia da bazar», in cui non veniva più creata ricchezza. Sinn scrisse che i «lavoratori tedeschi [erano] i perdenti della globalizzazione» (4). Nel 2005 il cancelliere Gerhard Schröder uscì sconftto dalle urne. La responsabilità di governo fu allora assunta da Angela Merkel, che tuttavia trasse proftto dalle deci- sioni politiche prese dal suo predecessore.

Di questi dubbi oggi sembra non essere rimasta traccia. L’economia tedesca è considerata la locomotiva d’Europa: grazie alla sua fortissima concorrenzialità rie- sce a spazzar via tutti gli ostacoli sul proprio cammino. Malgrado alcune turbolen- ze, dal 2009 la Germania è cresciuta ininterrottamente: nel 2018 la disoccupazione è scesa ai minimi (3,5%), mentre paesi come l’Italia (11%) e la Grecia (20,4%) sof- frono per i molti senza lavoro (5).

In questo contesto, il robusto consenso alla moneta unica appare assoluta- mente comprensibile. La popolazione tedesca collega l’euro alla prosperità econo- mica e all’alto livello occupazionale. Ciò non implica che la politica della Banca centrale europea (Bce) sia sostenuta acriticamente. Ma a essere sempre più stigmatizzata è la «disinvolta» politica monetaria della Bce, non l’euro in quanto tale.

A partire dalla crisi fnanziaria, in Germania si sono levate forti critiche al salvataggio di altri Stati. Nella memoria restano in particolare gli aiuti concessi alla Grecia, disapprovati a più riprese anche da alcuni deputati del principale partito di governo (CDU). Tuttavia, queste critiche trascuravano spesso che non si stava sal- vando (tanto) la Grecia, ma i suoi creditori. Cioè soprattutto banche private tede- sche e francesi. Wolfgang Schäuble, il ministro delle Finanze dell’epoca, cercò di trasmettere alla popolazione tedesca l’impressione che i fnanziamenti concessi alla Grecia sarebbero stati prima o poi ripagati. In tal modo riuscì a placare i malu- mori che stavano sorgendo nei confronti della moneta unica.

Il 2015 è stato un anno decisivo per la Bce, che in questo periodo ha iniziato ad acquistare titoli pubblici degli Stati membri. Così facendo è andata incontro a notevoli rischi e si è resa dipendente dai governi e dalla loro politica fscale. A partire da questo momento, la Banca centrale – al pari degli altri creditori statali – è diventata ricattabile: gli esecutivi europei possono obbligarla a proseguire nella politica monetaria espansiva (denaro a buon mercato) con la minaccia di non ono- rare il debito. Inoltre, la motivazione addotta per giustifcare tale politica appare alquanto fragile: i presunti rischi di defazione erano già bassi nel 2015 e oggi sono praticamente scomparsi.

Probabilmente in nessun altro Stato dell’Eurozona la politica della Bce è criticata tanto come in Germania. Anche perché, sebbene Francoforte abbia annunciato che gli acquisti di titoli pubblici cesseranno nel 2019, non verrà ridotto l’alto stock dei titoli già acquistati. Si tratta di cifre notevoli: dalla primavera del 2015, l’Eurosistema ha acquistato titoli di Stato per 2 mila miliardi di euro. Alcuni osser- vatori tedeschi, come l’ex giudice costituzionale Udo Di Fabio, hanno disapprova- to questa scelta, perché secondo loro si sta aggirando il divieto – imposto dai trattati europei – di acquistare titoli pubblici degli Stati membri, o di fnanziarne direttamente i governi. Il Bundesverfassungsgericht (la Corte costituzionale tede- sca) ha chiesto perciò se esiste una differenza, all’atto pratico, rispetto all’acquisto di titoli di Stato sul mercato secondario da parte della Bce: i rischi legati ai fnan- ziamenti non gravano, in ultima analisi, su Francoforte?

Occorre sottolineare il rilievo assunto in questo dibattito dagli argomenti giu- ridici. I costituzionalisti tedeschi lamentano che il controllo democratico sulla Bce sarebbe insuffciente: se l’acquisto di titoli di Stato dovesse comportare un rischio d’insolvenza, gli Stati membri potrebbero essere chiamati a risponderne in solido. Detto altrimenti: non sono i singoli parlamenti nazionali, ma burocrati non eletti della Bce a contrarre rischi per le future generazioni. E se lo fanno dietro esplicito o implicito mandato politico, affermano alcuni critici tedeschi, dovrebbero allora essere modifcate le basi giuridiche della Banca centrale (6).

Si pone a questo punto la domanda se l’unione monetaria non sia stata concepita in modo sbagliato fn dall’inizio. Alcuni osservatori defnirono la valuta comune un castello di carte, perché non possiede i meccanismi necessari a reagire adeguatamente alle crisi fnanziarie.

In effetti, l’euro risente di problemi strutturali. I suoi architetti partirono dal presupposto che le prescrizioni di politica fscale dell’Unione sarebbero bastate a evitare crisi fnanziarie: se fossero stati rispettati i limiti del debito pubblico pregres- so e nuovo, non si sarebbero verifcate crisi nei singoli Stati membri. Questa rifes- sione manifestava tuttavia una grande ingenuità. L’autonomia fnanziaria dei gover- ni, insieme all’irrevocabilità – continuamente ribadita – dell’euro, fnivano con l’incentivare i singoli paesi a testare la disponibilità degli altri ad assisterli in caso di crisi. In ultima analisi, sono stati quanti andavano gonfando spensieratamente e irresponsabilmente la propria spesa pubblica ad avere vinto questa scommessa.

Tuttavia, non sarebbe corretto tacere sulle conseguenze negative che ciò ha avuto per la Grecia. Certo è che alcuni attori in Grecia approfttarono degli anni beati prima del 2010, trasferendo capitali all’estero in misura enorme per metterli al sicuro dal fsco greco. Le conseguenze di questo comportamento hanno dovuto pagarle anche coloro, tra i greci, che erano troppo poveri per trasferire capitali in Svizzera o altrove.

Inoltre, alla Bce mancava – e manca tutt’ora – una normativa per affrontare lo stato d’emergenza. In riferimento alla Repubblica di Weimar, Carl Schmitt dichiarò: «Sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione». Se all’inizio non era chiaro quale sarebbe stata l’istituzione europea in grado di agire in condizioni di crisi, presto divenne evidente che era proprio la Bce. A prescindere dall’esistenza o meno di alternative a tale delega di potere, la Bce resta oggi l’istituzione schmittianamente «sovrana» d’Europa, ma sottoposta solo a un blando controllo (7).

Durante la crisi è emerso come i presupposti del Trattato di Maastricht non fossero sostenibili. Le improvvisazioni a cui si è assistito hanno contribuito ad accrescere in Germania lo scetticismo sulla solidità dell’euro.

Altrettanto fallace era la supposizione che tutte le società europee fossero adeguate a convivere con un’unione monetaria rigida. Ma le preferenze sociali hanno un ruolo decisivo nella scelta dei regimi di cambio. A confronto con altri, l’euro è un sistema estremamente rigido, senza meccanismi di adeguamento. L’euro appare simile al gold standard nel periodo precedente alla prima guerra mon- diale. Lì, comunque, c’era sempre la possibilità di uscire temporaneamente dal sistema e di rientrarci in un secondo momento. Anche il Sistema monetario euro- peo (Sme) aveva tenuto in considerazione, almeno in parte, le diverse preferenze sociali, permettendo all’Italia un margine di oscillazione più che doppio rispetto agli altri paesi membri (+ 6%, contro + 2,25% degli altri paesi). All’euro, invece, manca qualsiasi fessibilità.

Nell’euforia degli anni Novanta (la Germania si era riunifcata, il comunismo era sconftto, la guerra fredda era fnita), le posizioni più prudenti non giocarono un ruolo importante. Uno sguardo alla storia del gold standard, tuttavia, avrebbe aiutato a comprendere meglio i rischi dell’unione monetaria. Accanto ad Argentina, Brasile e Cile, erano stati quattro paesi europei ad abbandonare temporaneamente quel sistema: Portogallo, Spagna, Italia e Grecia (8).

Oggi sono di nuovo in questione la stabilità dell’unione monetaria e i rischi provenienti dall’Italia. In Germania vengono discussi appassionatamente soprattutto i cosiddetti saldi Target 2. Nessun dibattito invece sugli sviluppi che hanno portato alla diffcile situazione economica attuale, proprio e soprattutto in Italia. Per molti osservatori internazionali è tuttavia chiaro che gli alti avanzi commerciali tedeschi hanno contribuito alla stagnazione economica in Italia e altrove. Invano il Fondo monetario internazionale e la Commissione europea invitano da anni la Germania a ridurre il proprio surplus. In ambito scientifco-accademico, da tempo alcuni osservatori stanno analizzando criticamente le conseguenze dei perduranti attivi commerciali. La grande dame della dottrina economica britannica, Joan Robinson, defnì una volta le economie nazionali con surplus commerciali «esportatrici di disoccupazione».

Il grosso dei politici e dei cittadini tedeschi, invece, non pensa che possa essere il proprio paese a destabilizzare l’Europa; piuttosto, si compiace della propria presunta superiorità. Solo con estrema lentezza la società tedesca inizia a comprendere che le molte crisi presenti in Europa potrebbero avere a che fare anche con il proprio mercantilismo. Ma in Germania si preferisce tapparsi le orecchie di fronte a questa argomentazione: la campionessa del mondo di export e di morale sembra vivere in un mondo a parte. La capacità di trovare un equilibrio tra i vari interessi in gioco non è completamente scomparsa, ma appare molto più fragile che in altre fasi dello sviluppo europeo.

Perciò molti osservatori non sono granché preoccupati per la sopravvivenza della moneta comune; temono piuttosto le conseguenze di una possibile perdita dei crediti della Bundesbank nell’Eurosistema. La Bundesbank vanta attualmente crediti verso la Bce per circa mille miliardi di euro, pari suppergiù a un terzo del pil tedesco. Ma in che misura sono pericolosi questi saldi Target 2, e perché esistono?

Gli esperti tedeschi stanno dibattendo su questi argomenti con inusuale durez- za. Alcuni, come l’economista di Colonia Martin Hellwig, negano che i crediti della Bundesbank abbiano una qualche rilevanza. Hellwig parla di un’«isteria del Target» tutta tedesca 9. Invece, per Hans-Werner Sinn (istituto Ifo di Monaco) questa posi- zione è una «mistifcante minimizzazione»: i Target 2, per Sinn, sono infatti una sorta di fdo concesso ad altri paesi, che con questi crediti possono acquistare beni e servizi 10. In compenso, la Germania riceverebbe un credito infruttifero e non ri- vendicabile legalmente verso la Bce. Ne consegue che se l’Italia abbandonasse l’euro, i debiti contratti da Bankitalia (circa 500 miliardi di euro) andrebbero molto probabilmente perduti, almeno in parte.

La nascita dei saldi Target 2 va ricondotta allo scetticismo dominante sia nell’Europa meridionale sia in quella settentrionale: le banche del Nord non vogliono elargire crediti al Sud, mentre numerosi europei del Sud non si fidano dei propri governi e cercano di portare i loro capitali altrove. Se le banche nordeuropee non avessero il grande timore di una crisi fnanziaria, le banche centrali nazionali non dovrebbero colmare questa lacuna.

Naturalmente questi trasferimenti di capitale sono del tutto legali in Europa. Diversamente dai periodi in cui il traffco di capitali era limitato in Europa e in altri paesi dell’Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), compresi gli Stati Uniti, oggi questi movimenti non confgurano illeciti. Ma la storia economica insegna che le crisi fnanziarie spesso si verifcano quando la popolazione non ha più fducia nel futuro del proprio paese. Ne è un esempio l’Argentina prima del 2002: chi poteva, trasferiva soldi in Uruguay o a New York. Il patriottismo dei patrimoni è storicamente un’eccezione.

Finora la Bundesbank ha cercato di placare le crescenti preoccupazioni. Johannes Beermann, che siede nel consiglio di amministrazione, ha ribadito nel luglio 2018 che i saldi Target 2 non costituiscono un problema, almeno fnché l’unione monetaria resta in piedi. Ma questo nessuno lo aveva messo in dubbio. Inoltre, continua Beermann, i crediti della Bundesbank sono verso la Bce, non verso singole banche centrali (11).

Nel 2018 si è proflata una battuta d’arresto nella lunga e continua crescita economica tedesca. La forte dipendenza della Germania dalle esportazioni si sta rivelando un rischio, dato che importanti paesi importatori – in primo luogo la Cina – si trovano ad affrontare un rallentamento economico. L’aspettativa domi- nante è che la Germania dovrà fare i conti con una crescita ridotta. Tuttavia, una grave crisi potrà verifcarsi solo se, contemporaneamente, si dovessero registrare una decisa riduzione del commercio mondiale, un Brexit caotico e un forte protezionismo statunitense.

La domanda è: tutto ciò metterebbe a rischio il sostegno politico all’euro?

Appare improbabile che una crisi economica, da sola, possa generare un rifuto dell’euro da parte della politica e della società tedesche. Ma un altro avvenimento potrebbe far sì che Berlino muti la propria posizione al riguardo: un’eventuale uscita dell’Italia dalla moneta unica.

A ottobre la Bundesbank si è chiesta che tipo di rischio il debito rappresenti per l’economia italiana. L’Italia ha bisogno di aiuti da parte di altri paesi europei? O è un paese in cui vivono cittadini relativamente benestanti, che non hanno bisogno di aiuti esterni? Le risposte fornite da Karsten Wendorff sono chiare: l’Italia non è un paese povero e non ha bisogno di aiuti. Piuttosto, gli italiani benestanti dovrebbero essere obbligati a investire parte del loro patrimonio in titoli di Stato. Con questi «titoli di solidarietà» i cittadini italiani sarebbero in grado di garantire per i debiti dello Stato italiano. Non si tratterebbe di una tassazione dei patrimoni, ma di un indirizzamento degli investimenti (12).

La posizione della Bundesbank rifette quella di numerosi osservatori tedeschi. L’alto livello del debito italiano viene considerato un problema risolvibile internamente. Questi osservatori rifutano perciò eventuali trasferimenti di capitale all’Italia o l’assunzione di rischi di credito. Anche il governo tedesco dovrebbe confrontarsi con queste posizioni, il che ovviamente vale anche per la persona che andrà a sostituire Angela Merkel. Non è chiaro quanto a lungo la cancelliera riuscirà a restare in sella, ma la sua perdita di autorità pare ormai irreversibile. A settembre non è riuscita a far rieleggere Volker Kauder come capogruppo dei cristiano-democratici; il suo successore, Ralph Brinkhaus, non cerca lo scontro, ma in materia di unione monetaria appare un sostenitore della responsabilità indivi- duale degli Stati europei. Probabilmente nel corso del 2019 Merkel dovrà abban- donare la guida del governo e sarà forse sostituita dalla nuova leader della CDU, Annegret Kramp-Karrenbauer. La prosecuzione della sua politica, così legata all’euro da esporre lo Stato tedesco a rischi considerevoli, appare dunque incerta.

Già oggi si discute di eventuali alternative alla rigida gabbia dell’unione monetaria. L’economista francese Jean Pisani-Ferry ha proposto nell’autunno 2018 di abbandonare il dogma di un’«unione sempre più stretta» (ever closer union) per sostituirla con un sistema più fessibile. L’Unione Europea dovrebbe concentrarsi su un’integrazione circoscritta ad alcuni ambiti irrinunciabili, gestiti da diversi «club». Uno di questi dovrebbe riguardare l’euro, il coordinamento fiscale, il controllo dei mercati e il superamento delle crisi fnanziarie (13).

La teoria di un radicale «alleggerimento» dell’Ue non trova ancora in Germania sostenitori di peso. I Verdi, oggi molto popolari, vogliono distinguersi come euro- peisti modello e hanno più volte chiesto un rafforzamento politico dell’Ue. Lo scorso agosto l’ex ministro degli Esteri Joschka Fischer, dei Verdi, ha prospettato due sole alternative: o l’Europa diventa una grande potenza con capacità di azione, mettendosi in tal modo nelle condizioni di affermare i propri interessi a livello globale, oppure è destinata al declino (14).

Finora in Germania non si comprende granché lo scetticismo mostrato da altri paesi rispetto alla politica europea. Il premier olandese Mark Rutte ha respinto nel giugno 2018 l’idea di un rafforzamento politico dell’Ue (15). Senza un’ampia coalizione non vi sarà alcuna spinta verso l’integrazione in Europa. Forse molti tedeschi benintenzionati non sono nemmeno consapevoli che, al di fuori dell’Eliseo e della cancelleria federale, non vi è oggi alcun sostegno di rilievo all’idea di un rafforzamento politico dell’Unione Europea.

La Germania si è ormai abituata all’euro, anche se questo non è divenuto un oggetto di culto come il marco tedesco. Jaques Delors disse che non tutti i tedeschi credevano in Dio, ma che tutti credevano nella Bundesbank. Oggi i cittadini tedeschi non mostrano altrettanta fiducia nella Bce. Una moneta instabile viene temuta ancora da molti quale fonte di turbolenze politiche. Una grave crisi in uno Stato membro e le connesse, eventuali perdite della Bundesbank potrebbero alimentare il consenso alla reintroduzione del marco.

 

Fonte: Articolo di Heribert Dieter traduzione di Monica Lumachi – Limes n. 12/2018.

1. «Mehrheit der Deutschen gegen den Euro», Tagesspiegel, 12/2/1998.
2. Economic Outlook 2011, Ocse, Annex Table 13, p. 235.
3. D. Marsh, «The German Engine is spluttering», Daily Mail, 9/9/2002.
4. H.-W. sinn, «Das deutsche Rätsel: Warum wir Exportweltmeister und Schlusslicht zugleich sind», Perspektiven der Wirtschaftspolitik, 7, 1, 2006, pp. 1-18.
5. Economic Outlook 103, Ocse, maggio 2018.
6. «Europa ist mehr als der Euro», Die Zeit, 31/8/2017, p. 26.
7. A. ritschl, «Wem gehört der Euro?», Neue Zürcher Zeitung, 15/7/2015.

8. Ibidem.

9. M. hellwig, «Wider die deutsche Target-Hysterie», Frankfurter Allgemeine Zeitung, 29/7/2018, p. 20.

10. H.-W. sinn, «Irreführende Verharmlosung: Die Target-Salden bringen Deutschland in Gefahr», Frankfurter Allgemeine Zeitung, 5/8/2018, p. 20.

11. J. BeerMann, «Wenn der Euro unverändert fortbesteht, ist Target kein Risiko», Die Welt, 20/7/2018, p. 15.
12. K. wendorff, «Rom sollte Italiener zur Solidarität verpfichten», Frankfurter Allgemeine Zeitung, 27/10/2018, p. 24.
Criminalità, Debito pubblico, Politica, Unione Europea

La verità sul debito italiano: siamo stati “rapinati” nel 1981

Dal sito libreidee.org (qui) – Spread e debito pubblico: fanno ormai parte delle nostre vite, ne sentiamo parlare continuamente, ossessivamente, tanto da preoccuparcene più della disoccupazione giovanile a livelli inverosimili e di una mancata crescita che ormai ci sta traghettando dalla crisi alla recessione. Eppure l’opinione pubblica ha talmente interiorizzato la narrazione mercato-centrica del mainstream che non sembra credere ad altro: siamo stati spendaccioni e irresponsabili (Piigs) e dobbiamo dunque espiare le nostre colpe con una giusta dose di rigore e disciplina. Dunque l’austerity è la giusta – nonché unica – strada da percorrere, così come vuole l’approccio dogmatico del modello economico neoliberista, il tatcheriano Tina, “there is no alternative”. Abbiamo un debito pubblico intorno al 130% del Pil, secondo in Ue solo a quello della Grecia, per cui meritiamo la condizione di sorvegliati speciali di Bruxelles e di essere dunque defraudati di una nostra politica fiscale autonoma (di quella monetaria siamo già stati privati). È la strada indicata dalla “virtuosa” Germania, esempio di disciplina e rispetto delle regole per noi italiani, così dissoluti e un anche un po’ scostumati. Ma quando si è creato il fardello del debito pubblico italiano? Tutto parte nel 1981, in cui accade un evento epocale, che fa da spartiacque nella storia della sovranità economica italiana: il famoso divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro.

Con un atto quasi univoco, cioè una semplice missiva all’allora governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, Andreatta mette fine alla possibilità del governo di finanziare monetariamente il proprio disavanzo. Rimuovendo l’obbligo Ilaria Bifariniallora vigente da parte di Palazzo Koch di acquistare i titoli di Stato emessi sul mercato primario, la Banca d’Italia dismette il ruolo di prestatrice di ultima istanza. D’ora in poi, per finanziare la propria spesa pubblica, l’Italia deve attingere ai mercati finanziari privati, con la conseguente esplosione dei tassi d’interesse rispetto a quelli garantiti in precedenza. Ma non solo: viene rivisto il meccanismo di collocamento dei titoli di Stato, introducendo il cosiddetto “prezzo marginale d’asta”, che consente agli operatori finanziari di aggiudicarsi i titoli al prezzo più basso tra quelli offerti e, quindi, al tasso di interesse più alto. Ad esempio, se durante un’emissione di 50 miliardi di Btp, 40 vengono aggiudicati a un rendimento del 3%, mentre il restante al 5%, alla fine tutti i 50 miliardi saranno aggiudicati al 5%! Gli effetti sono tanto disastrosi quanto immediati: l’ammontare di debito, che nel 1981 era intorno al 58,5%, dopo soli tre anni raddoppia e nel 1994 arriva al 121% del Pil.

Come riportato dallo stesso Andreatta alcuni anni dopo, questo stravolgimento strutturale era necessario per salvaguardare i rapporti tra Unione Europea e Italia, e per consentire al nostro paese di aderire allo Sme, ossia l’accordo precursore del sistema euro. Quando l’Italia fa il suo ingresso nell’euro non risponde ai parametri del debito pubblico richiesti da Maastricht, ma l’interesse politico e l’artefatto entusiasmo generale per la sua partecipazione hanno la meglio. Sarà la crisi del 2008 a far emergere tutti i limiti e la fallimentarietà di un’area valutaria non ottimale e insostenibile come l’Eurozona: l’Italia, come altri paesi, senza la possibilità di ricorrere alla svalutazione del cambio, non riesce a recuperare terreno. Il debito pubblico, che finora era rientrato in una fase discendente, passa dal 102,4% al 131,8% del 2017. Una crescita notevole, ma di gran lunga Ciampiridimensionata se paragonata all’incremento del debito pubblico di altri paesi dell’area euro, come Spagna, Portogallo e la stessa Francia.

Nello stesso arco temporale, infatti, Madrid ha visto il suo debito pubblico schizzare dal 38,5% al 98,3%, il che significa un tasso incrementale di circa il 150%! La crisi non ha risparmiato neanche il vicino Portogallo, che è arrivato lo scorso anno a un livello del debito molto vicino al nostro (125,7%), partendo da un “contenuto” 71,7% del 2008. Eppure i due paesi iberici hanno sforato ripetute volte il famigerato vincolo del 3% – parametro tanto assiomatico quanto infondato – permettendo così all’economia di tornare a crescere, a differenza di quella italiana che si è incamminata nel percorso distruttivo dell’austerity. Situazione analoga per la Francia, con un valore del debito pubblico allo scoppiare della crisi inferiore del 70% e che oggi si aggira intorno al 100%, ma senza che ciò le abbia impedito di aumentare la spesa pubblica e il deficit di bilancio, Beniamino Andreattaassicurando in questo modo la crescita del Pil.

Dunque, sintetizzando, il nostro famigerato debito pubblico è sì più elevato, ma è partito da una situazione di evidente svantaggio, ed è cresciuto in termini percentuali del tutto in linea con l’andamento degli altri paesi dell’euro a seguito della crisi; anzi, anche meno di altri, come abbiamo visto, e aggravato dalle politiche di austerity, i cui effetti deprimenti sull’economiasono conclamati. Rimane il problema dei tassi d’interesse (da cui il famigerato spread), da noi più elevati che altrove, proprio a causa delle modalità dei meccanismi di collocamento dei titoli di Stato introdotte a seguito dell’epocale divorzio tra i due istituti finanziari italiani. È stato stimato che in trent’anni abbiamo pagato la colossale cifra di 3mila miliardi di interessi sul debito pubblico! In queste circostanze a nulla valgono gli sforzi fiscali dell’Italia, che registra da quasi trent’anni avanzo primario, ossia quella situazione, del tutto antisociale, per cui lo Stato incassa più di quanto spende, esclusi gli interessi sul debito pubblico. Per onorare il costo del debito, ossia quell’assurda creazione del denaro dal denaro, vengono sottratte risorse finanziarie per servizi pubblici e sostegno alla popolazione in difficoltà. Dunque, una redistribuzione al contrario, dai cittadini ai mercati finanziari. Il tempo delle riforme è ormai improcrastinabile.

Fonte: Ilaria Bifarini, “Tutta la verità sul debito pubblico, contro le menzogne di Bruxelles”, da “Il Primato Nazionale” del 10 gennaio 2019.

Diritti fondamentali, Libertà di informazione, Politica

Assange difende la libertà ed è perseguitato. Grillo (2016): “Nessuno tocchi il soldato Julian Assange”. Perchè il M5S oggi tace?

Del caso Assange, in Italia, si parla poco, e male. Eppure la sua vicenda mette in gioco una delle questioni politiche più importanti di questi anni: quella della libertà di informazione, e dei suoi limiti. Assange, come noto, è stato tra i promotori di WikiLeaks, ha reso di pubblico dominio documenti di interesse pubblico, ma etichettati dai governi come confidenziali e segreti (è il caso, del 2010, dei documenti diplomatici statunitensi).

Arrestato in Inghilterra nel 2012 è stato costretto a chiedere asilo politico presso l’ambasciata ecuadoriana a Londra, per evitare il rischio di estradizione negli Stati Uniti. Assange è stato illegalmente trattenuto dal governo britannico senza una specifica accusa, gli sono state negati l’accesso alle cure mediche, all’aria aperta, alla luce del sole. Nel dicembre 2015, il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria ha riferito che Assange era stato «arbitrariamente privato della sua libertà», chiedendo il suo rilascio – cosa che l’Inghilterra si è ben guardata dal fare. La qualità della sua permanenza in ambasciata, del resto, è notevolmente peggiorata con l’entrata in carica del nuovo presidente ecuadoriano Lenín Moreno, il quale ha privato Assange dell’accesso a Internet, impedendogli di avere visitatori e di comunicare con la stampa. Julian Assange è costretto a vivere senza poter comunicare con il mondo esterno. Non vede i suoi figli da 8 anni. Questo è ciò che un uomo sta scontando in nome della libertà di informazione. Ma nessun giornalista italiano sembra averlo capito.

Solo Paolo Barnard si è recato davanti all’ambasciata dell’Ecuador a Londra dal 27 dicembre al 6 gennaio a manifestare per la libertà del giornalismo di usufruire dei whistleblowers senza rischiare la pena di morte o la galera a vita. Inutile dire che nessun giornale italiano ha sinora riportato la notizia. Con lui, il giornalista americano Angel Fox ha rivolto un appello al Movimento 5 Stelle affinché dia asilo in Italia ad Assange.

Come è noto Gianroberto Casaleggio aveva in diverse occasioni preso le difese di Assange e Grillo si era collegato con lui in occasione dell’incontro di Palermo di “Italia 5 stelle”. Nel novembre 2013 una delegazione del MoVimento guidata da Alessandro Di Battista lo aveva persino incontrato a Londra, nella sede dell’ambasciata dell’Ecuador, esprimendogli tutta la solidarietà per la sua battaglia. “Nessuno tocchi il soldato Julian Assange” si leggeva ancora nel blog di Grillo il 5 marzo del 2016.

Ora però che le sue condizioni si sono aggravate e che il M5s potrebbe fare qualcosa di concreto nei suoi confronti nessuno più ne parla. Ma al di là della incoerenza del M5s è uno scandalo che tutti i media italiani – televisioni e giornali – mantengano un assoluto silenzio su un caso che coinvolge direttamente la libertà di informazione: forse che a quest’ultima, in fondo, non tengano affatto, a dispetto dei tanti proclami contro il governo?

Forse è proprio dal governo italiano, che, speriamo, potrà essere fatta la prima mossa. Il Movimento 5 Stelle è nato proprio rivendicando quella trasparenza nell’informazione, quella libertà che l’esempio di Assange rappresenta nella sua più alta espressione. Lui sta pagando di persona, sta dimostrando cosa significhi opporsi davvero a quei “poteri” che il M5S voleva mandare definitivamente a casa. Che cosa aspetta, allora, a cominciare la battaglia in difesa di Assange? Julian Assange è un perseguitato politico. Se c’è un caso in cui dovrebbe essere valida la richiesta di asilo è proprio questo.

Fonte: blog di Paolo Becchi (qui)

Austerity, Europa, Politica

Recessione Europa: decisione politica, firmata Ue e Bce

Dal sito libreidee.org (qui) – I dati sulla produzione industriale che vengono man mano proposti sono sempre più inquietanti e lasciano intravvedere una situazione tutt’altro che positiva. L’area euro segna un -3,3% di produzione industriale, con un picco di -5,1% della Germania. E l’Italia, una volta tanto, fa un po’ meglio della media Ue, con 2,6% in meno. Si prevede un secondo trimestre 2018 con valori negativi per il Pil tedesco. Un disastro che non potrà non avere ripercussioni sull’andamento economico. In realtà tutto questo non è dovuto, per lo meno non ancora, ad una crisi finanziaria: mentre nel 2007-08 la crisi dei mutui subprime Usa portò a una crisi dell’economia reale per l’enorme distruzione di ricchezza finanziaria collegata, in questo caso la causa delle crisi economica sarà la volontà europea di crearla. Anche se l’innesco è stato un calo nei volumi del commercio internazionale, la risposta europea, che ripercorre quella post-crisi del debito interno ex 2011, non fa che accentuare, in modo pro-ciclico, questa variazione.

Dopo la crisi del 2009 l’Europa, terrorizzata dal proprio debito, ha perso il percorso della crescita strutturale in modo permanente. Stretta dalle paure del proprio debito, terrorizzata, guidata da una classe di economisti che, mi dispiace dirlo, inaltri momenti non avrebbero guidato neanche gli assessorati al bilancio di una grossa città italiana, l’Europa, ma soprattutto l’Eurozona, hanno abbandonato un percorso di crescita rischiando di intraprendere un cammino di involuzione e di riduzione della possibilità di crescita economica. La concentrazione unica su obiettivi di deficit invece che di crescita sta portando a un decadimento permanente e strutturale, non recuperabile nel medio periodo, della struttura economico-industriale dell’Euroarea, realizzando al contrario le fauste previsioni fatte dai firmatari del patto di Maastricht.

L’Eurozona si sta sempre di più rivelando come un’area di depressione economica e di conflitto sociale, non di crescita, giungendo al limite della repressione politica come in Francia. Siamo ancora in tempo per tornare indietro? No, senza una profonda revisione ideologica dei fondamenti europei; un cammino veramente difficile, perchè dovrebbe condurre al superamento di pregiudizi intellettuali (e, francamente, razziali) profondamente radicati. Significherebbe, in un certo senso, superare se stessa: e questa è la vera sfida del futuro. Per ora, purtroppo, governano sempre gli assessori provinciali…

Fonte: Guido da Landriano, “La recessione è una decisione politica di Bruxelles e Francoforte”, da “Scenari Economici” del 15 gennaio 2019.

Politica, Società

Quando parliamo di élite

Un invito alla lettura. Di seguito un articolo apparso sul sito Wittgenstein.it

Tra le risposte che Repubblica sta pubblicando all’articolo di Baricco su “popolo ed élite” (diciamo), ha avuto più attenzioni e consensi quella di ieri di Mariana Mazzucato, un po’ perché più polemica, un po’ perché propone letture assai diverse. A me pare che le sue critiche siano legate soprattutto a una diversa idea del significato di “élite” e che i due articoli quindi parlino di cose differenti (succede quando si usano parole semplici per etichettare cose complesse e poi si scivola a parlare delle etichette invece che delle cose complesse): fino a che si dà a élite una connotazione negativa (anzi, lo si usa proprio per disprezzare qualcosa) è ovviamente inutile discutere costruttivamente del ruolo delle élite e anzi – come mi pare pensi Mazzucato – è stupido persino provarci. Qui ne scrive anche Massimo Mantellini. Ma siccome – comunque la si pensi – l’equivoco è ricorrente, visto che se ne parlava su Twitter e visto che ognuno cita un suo libro, riprendo questa parte “etimologica” e logica da Un grande paese. Almeno abbiamo presente di cosa parliamo e perché non ci capiamo: detto che è prezioso provarci e parlarne, e che questo è – merito di Baricco e Repubblica – uno dei rari casi in cui se ne discute cercando di spiegare un cambiamento di cui molti parlano solo con grande vaghezza e povertà di analisi.

Per capire cosa sia successo – in America ma anche in Italia, ci arriviamo – bisogna prendere in considerazione l’uso di una manciata di -ismi, maneggiati da politologi, sociologi e commentatori con significati di volta in volta diversi o che si accavallano: elitismo, populismo, elitarismo, antielitismo, pluralismo, egualitarismo. Cerco di essere sintetico, che questa è la parte noiosa, ma ci sono rischi di equivoci con le parole di cui ci dobbiamo liberare.
Storicamente l’elitismo è stato due cose assai diverse: una teoria «descrittiva» di una realtà oppure un pensiero e un progetto. La prima constata e sostiene che il potere politico sia sempre in mano a un’élite di qualche tipo, a un gruppo di persone che lo detiene per censo o per appartenenza a un sistema, indipendentemente dai procedimenti democratici che glielo hanno consegnato. Quest’analisi può essere neutra, o più frequentemente critica, nelle sue banalizzazioni: spesso diventa sinonimo di «comandano sempre gli stessi», e genera quindi un «antielitismo» (rafforzato da «è tutto un magna magna») che predica la necessità di cambiare questo stato di cose. Però la teoria dell’elitismo può anche essere positiva, e trasformarsi allora in un’idea costruttiva e un pensiero politico: sostenendo che è giusto che a compiti straordinari si dedichino persone di qualità straordinarie a patto che ci sia un ricambio che garantisce la continuità di quelle qualità. Definendo quindi positivamente le élite come contenitori rinnovabili di qualità, merito e competenza.

Come si capisce, lo scarto tra i due modi di intendere l’elitismo deriva dal diverso modo di intendere la composizione delle élite e dai processi storici che le hanno formate: dove, come prevalentemente avviene oggi in Italia, le si ritengano consorterie di potere aliene da punti di merito e chiuse al ricambio, esse divengono un nemico da smantellare, e legittimano gli antielitismi. Se invece si dà al termine un significato più nudo e proprio, che definisce gli «eletti», non solo nel senso democratico (quelli che sono stati eletti) ma nel senso per cui si dice anche «il popolo eletto», ovvero coloro che hanno talenti e qualità eccezionali e superiori rispetto a un compito o un destino, l’elitismo che mira a promuoverli assume una connotazione positiva (migliori risultati nelle scelte delle classi dirigenti si avranno quindi quando gli eletti dalle loro qualità coincideranno con gli eletti dai voti: sintomo della realizzazione di una democrazia informata).

È interessante come l’accezione della parola cambi nelle varie lingue su Wikipedia. La pagina italiana si barcamena ma suggerisce l’accezione negativa:

L’elitismo è una teoria politica basata sul principio minoritario, secondo il quale il potere è sempre in mano a una minoranza. Si fonda sul concetto di élite, dal latino eligere, cioè scegliere (quindi scelta dei migliori). Termini interscambiabili con quello di élite sono aristocrazia, classe politica, oligarchia.

La pagina angloamericana è molto chiara sui due significati, privilegiando quello positivo ma mimetizzando il discutibile «ricchezza» in mezzo agli altri e più apprezzabili «attributi particolari» propri delle élite:

L’elitismo è l’idea o la pratica per cui gli individui che sono considerati membri di un’élite – un gruppo selezionato di persone con capacità personali superiori, dotate di intelletto, ricchezza, competenza o esperienza, o altri attributi particolari – sono quelli le cui opinioni su una materia devono essere prese in maggior considerazione o aver maggior peso; i cui giudizi o le cui azioni sono più probabilmente costruttivi per la società; o le cui straordinarie abilità o saggezze li rendono più adatti al governo. Alternativamente, il termine elitismo può essere usato per descrivere una situazione nella quale il potere è concentrato nelle mani di un’élite.

Al tempo stesso, Wikipedia in inglese ha una pagina dedicata alla «teoria delle élite» che corrisponde di più a quella italiana sull’elitismo.

La teoria delle élite è una teoria che cerca di descrivere i rapporti di potere nella società moderna. Sostiene che una piccola minoranza, formata da membri dell’élite economica e di apparati politici, detiene gran parte del potere indipendentemente dai processi democratici di uno Stato.

Wikipedia francese (elitismo deriva dal francese élite, che a sua volta deriva dal latino eligere) non ha una pagina dedicata all’elitismo, e affronta i possibili equivoci rimpiazzandola accortamente con la pagina «Elitismo in Francia»:

In Francia l’elitismo è l’attitudine a favorire la formazione di un’élite e l’accesso degli individui giudicati migliori ai posti di responsabilità. Si tratta in questo senso di un valore repubblicano riassunto in un motto rivoluzionario – «La carriera aperta ai talenti» – in opposizione alla selezione per nascita. Più recentemente ha acquistato una seconda accezione, di senso negativo, che indica la creazione di una distanza – politica o culturale – tra una classe dirigente e coloro che ne sono governati, in spregio alla volontà di una maggioranza.

«Un valore repubblicano», e «rivoluzionario». Più recentemente, ha acquistato una seconda accezione. Chissà se tra cinquant’anni – laddove si mantenesse la tendenza recente – le definizioni di Wikipedia saranno ancora queste, o se la «seconda accezione» avrà prevalso in tutte le lingue. D’ora in poi, per questo libro che cerca di immaginare una rivoluzione possibile, l’elitismo sarà quello dei francesi (quello per cui non ci vuole un grande pennello ma un pennello grande): «l’attitudine a favorire la formazione di un’élite e l’accesso degli individui giudicati migliori ai posti di responsabilità».

Mettiamoci allora d’accordo di chiamare invece «elitarismo» ciò che i critici dell’elitismo imputano all’elitismo: ovvero la tendenza a mantenere il potere all’interno di cerchie immutabili e prive di reali meriti e competenze, che non si possono quindi definire «elette». «Caste» sarebbe una parola adeguata, non fosse stata sputtanata dal recente periodo di qualunquismo demagogico (per quanto il libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo che l’ha resa popolare abbia molti meriti e non pecchi di qualunquismo). Oligarchie, forse.

Comunque, staccate tutto questo castello di accezioni dal significato del termine elitismo.
«Antielitismo» è il termine che invece indica l’opposizione all’elitismo in quanto tale: è antielitista chi contesta l’idea che a ruoli di potere e responsabilità debbano accedere persone di qualità superiori e straordinarie. Può sembrare sulle prime impensabile che esista una simile opinione, ma invece prospera per diverse ragioni. Una è la repulsione che presso alcuni suscita l’idea che ci siano persone di qualità superiori rispetto ad altre, repulsione dovuta a un eccesso di «correttezza morale», a un malinteso senso di uguaglianza. Dove l’uguaglianza è soppiantata dall’egualitarismo: invece di chiedere pari diritti e pari opportunità che ogni singolo possa sfruttare per ottenere dei risultati, queste persone chiedono che siano sempre pari anche i risultati. Un’altra ragione di adesione all’antielitismo è il meno leale fastidio nei confronti di qualunque élite a cui non si appartenga (le élite sono minoranze, i loro critici maggioranze anche se fingono di no): i sentimenti di invidia, frustrazione, competizione sono umani, e ancora di più lo è la percezione di una superiorità esibita e di una mancanza di umiltà da parte delle élite, per quanto capaci e competenti siano (parlo dopo della nostra difficoltà ad accettare le qualità altrui che non abbiamo, e ancora di più ad accettare «lezioni»). Un’altra spiegazione ancora è un equivoco «antielitarista», a cui sfugge la differenza tra le élite e le caste, soprattutto quando le seconde prevalgono e trascinano nelle loro indegnità tutto e tutti, spingendo a buttare l’acqua pulita assieme ai bambini sporchi (lo so, l’idea che i fallimenti di certe presunte élites non mettano in discussione l’elitismo somiglia molto alla tesi di quelli che dicevano che il fallimento del comunismo si dovesse alla sua mancata realizzazione, mentre il progetto era buono: ma la differenza è invece vistosa, in termini di successi storicamente dimostrati o no). Alcuni commentatori propongono che il contrario dell’elitismo sia il populismo, e si può dire in effetti che il populismo comprenda l’antielitismo. Ma nell’uso del termine populismo c’è anche un forte riferimento ai modi con cui il messaggio politico è trasmesso, principalmente attraverso la demagogia, ovvero l’assecondare (soprattutto a parole) le aspettative dei cittadini per ottenerne consenso, qualunque esse siano. Tanto è vero che oggi nel dibattito politico e giornalistico la parola populismo è usata spesso come sinonimo di demagogia. Ma un’altra accezione importante del termine populismo è quella che si riferisce all’esaltazione del mondo popolare e a tutto ciò che ne viene, in contrapposizione a ciò che è prodotto dalle élite. Quando gli esponenti politici di sinistra che hanno appena denunciato il «populismo» di Silvio Berlusconi dicono che bisogna imparare a recuperare il consenso, stare più a contatto col «territorio» e con la «gente», il loro è ugualmente populismo: che può anche essere una buona cosa (in teoria, in una democrazia, ciò che fa appello alla volontà di una maggioranza potrebbe essere buona cosa) a patto che il popolo sia informato, presupposto della democrazia.

Occhio che questo è lo snodo principale di tutti gli equivoci che si sviluppano intorno alle esaltazioni della democrazia, sincere o strumentali che siano. Una democrazia è un sistema di funzionamento delle comunità auspicabile, efficace e giusto perché consente che le opinioni e le scelte di tutti pesino, ma lo è solo se quelle opinioni e scelte sono informate, se nascono da dati sufficientemente completi e non falsi. Altrimenti è solo un sistema giusto, ma fallimentare e controproducente: una democrazia disinformata genera mostri maggiori di una dittatura illuminata, per dirla grossa. Funzionano bene le democrazie in cui i cittadini sono informati correttamente, e male quelle in cui non lo sono. Come diceva Goffredo Parise, «Credo nella pedagogia insieme alla democrazia, perché non c’è l’una senza l’altra». Frequente nel populismo è invece l’appello alla volontà popolare coordinato con un investimento deliberato sulla disinformazione dei cittadini.

Per completezza: spesso in relazione con questi -ismi si parla anche di pluralismo, ovvero della condizione tipica di molte società occidentali moderne in cui il potere non è concentrato ma diffuso in un ampio numero di luoghi e gruppi e comunità. Il pluralismo non è quindi in conflitto con l’elitismo, e anzi ne è complementare, nel senso che ho descritto finora.

Fonte: Wittgenstein.it (qui)