Economia, Gran Bretagna, Lavoro, Occupazione

Economia britannica, Disoccupazione al 4%, minimo da febbraio 1975. C’è piena occupazione fuori dall’euro.

Il mercato del lavoro britannico si è teso ulteriormente all’inizio del 2019, malgrado le prove di un diffuso rallentamento di un’economia sotto pressione per le incertezze della Brexit e i timori per i commerci globali.

Il tasso di disoccupazione britannico è rimasto stabile al minimo pluridecennale, mentre l’inflazione dei compensi, compresi i bonus, è rimasta invariata, secondo i dati ufficiali di questo martedì.

Il tasso di disoccupazione è rimasto invariato al 4,0% nel trimestre terminato a dicembre, in linea con le aspettative. Si tratta del minimo dal febbraio 1975.

Il numero di persone occupate nel Regno Unito è salito di 167.000 unità, più delle 152.000 previste.

Il numero delle richieste di sussidio, ossia della variazione nel numero delle persone che chiedono un sussidio di disoccupazione, è salito di 14.200 unità a gennaio dalle 20.800 di dicembre.

Gli economisti si aspettavano un incremento di 12.300 unità.

I compensi medi, esclusi i bonus, continuano a salire al tasso più rapido dalla crisi finanziaria di oltre 10 anni fa, schizzando del 3,4% nel trimestre terminato a dicembre. Il dato è in linea con le previsioni e col tasso rivisto di novembre.

Compresi i bonus, la crescita dei compensi è salita al tasso annuo del 3,4%, meno delle aspettative di un aumento del 3,5%. A novembre aveva registrato +3,4%.

La Banca d’Inghilterra ha parlato dell’aumento dei compensi e della sua pressione rialzista sull’inflazione dei prezzi al consumo per giustificare la necessità di alzare i tassi di interesse gradualmente, ma l’incremento dell’incertezza per quanto riguarda l’esito delle trattative sulla Brexit con l’Unione Europea ha convinto la banca centrale a non intervenire.

Nell’ultimo aggiornamento delle sue previsioni, la banca ha tagliato le stime di crescita britannica per via della Brexit e del rallentamento dell’economia globale. Gli analisti affermano che le ultime previsioni implicano due aumenti di un quarto di punto nei prossimi due anni, uno in meno rispetto a quanto stimato a novembre.

Nell’eventualità di una Brexit senza accordo, l’economista della BoE Gertjan Vlieghe ha affermato di aspettarsi che la BoE lasci i tassi invariati per un periodo più lungo o che possa persino tagliarli per supportare l’economia.

Fonte: Investing.it

Concorrenza sleale, Economia, Unione Europea

Paesi Europei dell’Est: la concorrenza sleale che danneggia l’Italia

ROMA – “Lascio l’Italia e ritorno in Polonia perché ormai qui non ho più lavoro e come me sono andati via, negli ultimi quattro anni, moltissimi polacchi. Il nostro Paese è in forte crescita e abbiamo speranza di ricostruirci una vita”. La storia di Magda Gyzov, una donna polacca di quarant’anni che, dopo diciotto anni vissuti in una piccola cittadina alle porte di Roma, ha deciso di lasciare l’Italia per ritornare in Polonia, è una storia che fa luce sulle molte contraddizioni di un’Europa che sta creando enormi squilibri all’interno degli stessi Paesi membri.

Ma cosa è accaduto negli ultimi venti anni per cui Paesi come l’Italia o la Spagna che hanno vissuto una forte immigrazione di persone che provenivano dall’Est Europa, ora vengono sorpassate proprio da quegli stessi paesi dell’Europa orientale da cui milioni di persone erano andate via?

È accaduto che dalla fine degli anni ‘80, con la caduta del muro di Berlino, la Germania ha puntato il suo sguardo verso i Paesi centrali e dell’Est (PECO – Paesi dell’Europa Centrale e Orientale) e con la fine dell’Unione Sovietica avvenuta nel 1991 ha fatto leva sulla sua forza economica per diventare la testa di ponte di una nuova egemonia in un’area che va dalla Repubblica Ceca all’Austria, all’Olanda, alle Repubbliche Baltiche, all’Ungheria, Polonia, Croazia, Slovenia e Slovacchia.

È accaduto poi che paesi come l’Italia, la Francia, la Spagna hanno anche dato il lasciapassare perché ciò accadesse dando il via libera ad una diminuzione di finanziamenti europei verso l’area del Mediterraneo a tutto vantaggio verso le aree di interesse della Germania.

Già negli anni ‘90 il Consiglio d’Europa ridusse del 35% i finanziamenti verso i Paesi Mediterranei proposti dalla Commissione per il periodo 1992-1996 incrementandoli verso la zona est-europea. Ma questi aiuti sono poi aumentati di anno in anno.

Il caso Polonia

Un esempio per tutti è proprio quanto accaduto in Polonia, paese confinante con la Germania e quindi strategico per l’apertura di nuovi mercati economici e finanziari verso la zona est europea. Il Paese è soprannominato la regina dell’Est ed è lo Stato che più di tutti ha beneficiato di una pioggia di aiuti europei dal 1989 ad oggi.

  • Nel 2004-2006 ha ricevuto circa 14,2 mld di euro dei quali 5,2 mld sono stati utilizzati per l’ammodernamento della rete dei trasporti che, sottosviluppata, aumentava i costi delle merci. Geograficamente la Polonia è il punto di passaggio per tutte le merci in transito fra Russia, Bielorussia, Ucraina e i tre stati balcanici con il resto dell’Europa.
  • Nel quinquennio 2007-2013 ha ricevuto dall’Unione Europea 81,2 miliardi di Euro. Nel bilancio europeo 2007-2013 la priorità dell’UE è stata quella di riavvicinare gli standard di vita dei nuovi Stati membri alla media europea.

Questa pioggia di aiuti finanziari dell’Unione Europa hanno permesso una forte crescita in termini di aumento delle infrastrutture, calo della disoccupazione e aumento dell’export. Oggi la Polonia è un paese in fortissima crescita. È la più grande economia orientale dell’UE e la produttività è seconda solo al Giappone. Attira il maggior numero di investimenti stranieri e sono presenti grandi multinazionali come la Hyundai, la Volkswagen, la Peugeot, la Nestlé e molte aziende italiane come la Fiat, l’Unicredit, la Ferrero, la Indesit, la Mapei. Multinazionali attirate dalle condizioni vantaggiose e da un salario mensile lordo di €881. La crescita del Pil è stata del 5,4 % (2004-2008) e del 2,2% nel 2013 a causa della crisi dell’area euro mentre la disoccupazione si è dimezzata in 10 anni passando dal 15,2% nel 2004, anno di ingresso nell’UE, al 7,7% nel 2014. Si calcola che grazie ai fondi europei sono stato creati, tra il 2004-2006, 320mila nuovi posti di lavoro (il 38% del totale) e che le imprese sono cresciute del 58%.

In totale sono state aiutate 2,6 milioni di polacchi grazie all’Unione Europea. E, ancora, sono stati creati sessanta nuovi parchi industriali e scientifici e oggi la Polonia è ancora un cantiere in costruzione. È l’unico paese dell’UE a non essere mai entrato in recessione dal 2008 e vanta anche un debito pubblico molto basso pari al 50,1% del Pil nel 2014.

Con questi numeri è facile immaginare perché la Polonia sia diventata meta di migranti. E non solo di polacchi che ritornano in patria, ma anche di giovani qualificati dell’Europa meridionale schiacciata dal debito, dalla recessione e dall’iper-rigore alla tedesca. Varsavia è considerata la nuova Berlino.

Non solo, dunque, cresce l’Europa del Nord, ma anche quella dell’Est entrata a far parte in blocco in Europa nel 2004 grazie alla enorme spinta politica della Germania. In quell’anno l’Unione Europea inglobò l’Estonia, la Lettonia, la Lituania, la Polonia, la Repubblica Ceca, la Slovacchia, la Slovenia e l’Ungheria oltre a Malta e Cipro dell’area Mediterranea. In un sol colpo entrarono a far parte dell’Unione Europea ben otto paesi dell’Est spalancando così le porte ad una valanga di soldi, presi ovviamente dai contribuenti di tutti i paesi europei, e destinati alla rinascita di questi paesi. Ma ciò che risulta inaccettabile è che questi aiuti sono stati elargiti senza obbligare i paesi a sottoscrivere memorandum o politiche di austerità poiché, non facendo parte dell’Eurozona, non sono sottoposti ai vincoli della BCE.

Concorrenza sleale a danno delle nostre economie

E cosa significa tutto questo? Significa che in Europa si è creata una situazione di concorrenza sleale per cui viene avvantaggiata enormemente un’area a totale discapito di altre aree.

I paesi dell’Est d’Europa sono stati trasformati dalle multinazionali europee in un processo di delocalizzazione industriale e produttiva in cui si realizza a basso costo del lavoro. In tal maniera una parte del tessuto industriale dell’Europa Mediterranea si è delocalizzata verso nuove aree d’integrazione dell’Unione Europea, dell’Est Europa o verso il centro dell’Europa.

Il caso Electrolux

Il caso emblematico avvenuto in Italia della multinazionale svedese Electrolux chiarisce molto bene quello che sta accadendo. Nel 2014 l’azienda minaccia di chiudere uno dei quattro stabilimenti con sede in Italia per trasferire la produzione in Polonia poiché, come spiega l’amministratore delegato, Ernesto Ferrario, durante un’audizione al Senato “Il divario crescente di competitività rispetto a Polonia e Romania ha portato una migrazione di volumi di circa il 60% che vengono prodotti nell’Est Europa. Questo riguarda un fenomeno progressivo che non vede un arresto. In Francia e Spagna è quasi scomparsa la produzione dell’elettrodomestico, quindi il fenomeno è abbastanza chiaro”. Insomma, la differenza di costo di 30 Euro tra una lavatrice prodotta in Italia e la stessa lavatrice prodotta in Polonia, legittima l’azienda a minacciare i lavoratori italiani ad un taglio drastico dei salari di circa 130 Euro al mese attraverso la riduzione delle ore lavorate da otto a sei, il blocco dei pagamenti delle festività, la riduzione del 50% delle pause e dei permessi sindacali e lo stop agli scatti di anzianità. Tutte misure che si chiede vengano applicate ai quattro stabilimenti italiani. A conti fatti, bisogna lavorare di più per aumentare la produzione e guadagnare di meno. Insomma, il conto della concorrenza sleale, frutto di una politica che viene da lontano e che ha messo l’uno contro l’altro paesi Europei, viene presentata ai lavoratori che devono farsi carico dell’enorme differenza del costo dei salari tra un Paese Europeo che fa parte dell’eurozona e un Paese Europeo che invece è fuori dall’Eurozona, come appunto la Polonia. E la politica che dovrebbe assumere quel ruolo nobile e importante di essere al servizio della collettività per tutelarla, resta schiacciata dagli interessi delle multinazionali al punto che nei giorni in cui aumentò la protesta dei dipendenti dell’Electrolux che non ci stavano ai ricatti dell’azienda, l’allora Ministro dello Sviluppo Economico Flavio Zanonato dichiarò che: “I prodotti italiani nel campo dell’elettrodomestico sono di buona qualità ma risentono dei costi produttivi, soprattutto per quanto riguarda il lavoro, che sono al di sopra di quelli che offrono i nostri concorrenti: è necessario dunque ridurre i costi di produzione”. A maggio 2014 la dura battaglia avviata dai sindacati chiuse la vertenza Electrolux con un accordo che sarà accettato dall’80% dei lavoratori e in base al quale resterà aperto lo stabilimento di Porcia in provincia di Pordenone a fronte di una riduzione dei permessi sindacali del 60%, alla decontribuzione dei contratti di solidarietà, a finanziamenti per la ricerca e a una maggiore flessibilità del lavoro. L’obiettivo dell’accordo è abbattere di 3 euro l’ora i costi degli impianti, in modo da renderli competitivi con quelli polacchi, come richiesto dall’azienda per non de-localizzare. La forte mobilitazione dei lavoratori insieme all’attenzione della Regione Friuli-Venezia Giulia hanno comunque consentito il raggiungimento di un risultato a metà strada tra le richieste dei lavoratori e quelle dell’azienda. Fatto sta che i dipendenti si sono dovuti in gran parte adeguare alle condizioni imposte dall’azienda poiché la concorrenza che arriva dai paesi dell’Est è talmente forte che, in un libero mercato, non ci sono strade alternative che sottomettersi alla logica del capitalismo.

Aiuti europei insieme a riforme strutturali hanno permesso alla Polonia di raggiungere dei livelli di benessere molto elevati, scalzando addirittura la Gran Bretagna in alcuni settori come l’istruzione. Ma oltre alla Polonia chi è il Paese che ha più beneficiato di questa crescita? Ovviamente la Germania che è diventato il principale partner economico, commerciale e industriale della Polonia a scapito della Russia con un interscambio pari a 37,10 mld di Euro contro la Russia pari a 11,76 mld di Euro. Ma la Germania è anche il primo partner per l’Ungheria, la Repubblica Ceca e le Repubbliche Baltiche. Dunque, Berlino gode indirettamente degli aiuti che l’Unione concede a Varsavia, che ritornano in territorio tedesco sotto forma di ordini commerciali e commesse. E ora la strategia della Merkel sembrerebbe essere quella di compattare i paesi della Nuova Europa intorno alla centralità del ruolo tedesco nell’UE soprattutto perché in diversi paesi dell’Europa dell’est sta crescendo la convinzione che l’avvenire economico non sia più indissolubilmente legato all’UE, soprattutto in seguito alla crisi economica.

Fonte: Tiziana Alterio

Austerity, Economia

Negli ultimi 20 anni il mondo va sempre meglio, mentre l’europa va sempre peggio (dal blog di Antonio Socci)

Andiamo sempre peggio, si sente dire al Bar del pensiero luogocomunista. Si ripete: i poveri sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi, e poi violenze, inquinamento, catastrofi, esaurimento delle risorse, fame e malattie, sottosviluppo, inevitabili migrazioni di massa.

“Questa è l’immagine che quasi tutti gli occidentali vedono nei media e si imprimono nella mente. Io la chiamo visione iperdrammatica del mondo, una concezione stressante e ingannevole”. Così scrive Hans Rosling  in “Factfulness” (Rizzoli).

Questo libro, il cui autore è membro dell’Accademia di Svezia e fondatore della sezione svedese di Medici senza frontiere,
elenca una serie impressionante di dati che dimostrano l’esatto contrario. 

Ovvero che il mondo va sempre meglio, l’umanità ha compiuto progressi spettacolari  e ha conseguito un benessere inimmaginabile.

Quindi i media ci danno una rappresentazione totalmente ribaltata  della situazione? La risposta è: sì. Ma c’è un’altra rappresentazione ribaltata  della realtà (e, in questo caso è più difficile trovare i dati veri che ci fanno scoprire la verità): si tratta del tema Europa/Italia

Quando si parla dell’Unione Europea i media vanno in sollucchero. Fin da quando è stata varata – circa 25 anni fa – si predisse che questo esperimento politico (con la moneta unica) ci avrebbe portato nella terra promessa dove scorre latte e miele, ci avrebbe fatto ricchi e ci avrebbe protetto da tutte le intemperie finanziarie e politiche. 

E’ accaduto l’esatto contrario (vedremo i dati) e va sempre peggio, ma la rappresentazione mediatica continua a raccontare la favola della propaganda iniziale. 

C’è un nesso fra i due fenomeni, quello globale (positivo) e quello euro-italiano (negativo)? Certo che c’è. Ma prima vediamo un po’ di numeri.

Sono dati ufficiali della grandi istituzioni internazionali. Ecco qualche esempio. 

BUONE NOTIZIE DAL MONDO

Nel 1800l’85% della popolazione mondiale viveva nella condizione di povertà estrema. Venti anni fa era il 29% e oggi il 9%. Un successo strepitoso (con un balzo eccezionale negli ultimi 20 anni), eppure nessuno se ne rende conto.

Scrive Rosling: “Nel 1800, quando gli svedesi morivano di fame e i bambini britannici lavoravano nelle miniere di carbone, l’aspettativa di vita era di circa 30 anni in tutto il mondo. Il dato era sempre stato questo. Circa metà dei bambini moriva durante l’infanzia. Quasi tutti gli altri perdevano la vita tra i 50 e i 70 anni. Perciò la media si aggirava intorno ai 30”. Oggi nel mondo l’aspettativa di vita media è di 72 anni (da noi sopra gli 80). 

Consideriamo poi “tutte le vittime di inondazioni, terremoti, tempeste, siccità, incendi e temperature estreme, nonché i decessi durante gli sfollamenti e le pandemie che seguono questi episodi”. 

Oggi, spiega Rosling, il numero annuale di decessi dovuti a tali calamità è solo il 25% di quello di un secolo fa, ma siccome la popolazione è aumentata di 5 miliardi da allora, il crollo dei decessi è ancora più clamoroso: abbiamo solo il 6% dei decessi di cent’anni
fa
. Grazie agli enormi progressi che ci permettono di difenderci.

Un dato che esemplifica il miglioramento della qualità della vita: oggi l’80% delle persone ha un qualche accesso all’elettricità

Inoltre si ripete che l’Africa è una bomba a orologeria, che, con il boom demografico, la fame, le malattie e il sottosviluppo porteranno in Europa milioni di migranti. 

Si ignora invece che in questi anni, in cui i paesi europei stentano a far crescere il pil dell’1%, in Africa la crescita è ben superiore e paesi come Ghana, Nigeria, Kenya o Etiopia (come il Bangladesh in Asia) sono cresciuti sopra al 5 %

E ci sono paesi come Tunisia, Algeria, Marocco, Libia ed Egitto che “hanno aspettative di vita superiori alla media mondiale di 72 anni. In altre parole, si trovano dove la Svezia era nel 1970”.

Rosling elenca pure una serie di cose orrende che sono sparite o stanno sparendo dal mondo: dalla schiavitù legale ai paesi con casi di vaiolo, ai morti in incidenti aerei. 

In fortissima diminuzione  la percentuale di persone denutrite (passate dal 28% del 1970 all’11% del 2015), le armi nucleari (da 64 mila del 1986 a 9 mila del 2017), le sostanze nocive per l’ozono (da 1663 del 1970 a 22 del 2016, in migliaia di tonnellate), il lavoro minorile, l’inquinamento  derivante da piombo nella benzina e incidenti con perdite di petrolio.

Invece cresce nel mondo la resa cerearicola per ettaro (da 1.400 KG per ettaro del 1961 a 4 mila del 2014), la superficie terrestre protetta da parchi, l’alfabetizzazione (dal 10% del 1800 all’86% del 2016) per non parlare della ricerca scientifica, della democrazia (e del voto femminile).

Si potrebbero elencare molti altri indici, riportati da Rosling. Ovviamente sono indici di benessere prevalentemente economico, che non escludono l’esistenza di altri problemi umani o fatti molto negativi.

PESSIME NOTIZIE EURO-ITALIANE

Veniamo invece al caso euroitaliano: perché da noi – al contrario del resto del mondo – le cose sono andate indietro 

Bastino due dati: nel 1999 il prodotto interno lordo dell’eurozona era il 22% di quello mondiale. Nel 2017 è ormai al 16%. Una caduta micidiale.

Nel 2000 l’economia USA superava del 13% quella dell’eurozona, nel 2016 questa percentuale era raddoppiata: al 26%.

Anche se i media continuano a raccontare la favola dell’UE felice, la gente comune  si è accorta dell’inganno, paga sulla propria pelle il peggioramento della qualità della vita e comincia a protestare, nelle urne (Italia e Gran Bretagna) o nelle piazze (Francia).

C’è un nesso fra i due fenomeni, quello globale (positivo) e quello (negativo) relativo a Italia/Europa? Sì. Il nesso si chiama globalizzazione. Fino alla caduta del Muro di Berlino si è avuto un progresso globale ordinato e regolato, guidato e trainato dagli Stati Uniti e dall’Europa occidentale.

Dagli anni Novanta si è imposta una globalizzazione selvaggia, con un Mercato globale senza regole e, per esempio, l’ingresso di colpo sulla scena di un gigante come la Cina che, di fatto, fa concorrenza sleale a tutti.

La follia europea è stata quella di legarsi le mani con i Trattati di Maastricht (che hanno al centro il mercato e l’inflazione, anziché il lavoro e la crescita economica) e con una moneta unica che, oltre a impedire le preziose politiche monetarie nazionali, ha regalato alla Germania un marco super-svalutato e a noi una lira sopravvalutata.

Così i tedeschi hanno vampirizzato le altre economie europee, specie quella italiana. Infatti in 18 anni di euro la manifattura italiana è crollata del 16%, quella tedesca è cresciuta del 30%.

Ecco perché nel 1999 – all’ingresso nell’euro – il reddito pro-capite degli italiani era il 96% di quello tedesco, mentre nel 2015 dopo sedici anni di euro il reddito degli italiani è il 76% di quello dei tedeschi. 

Il nostro reddito pro capite è addirittura diminuito  da 34.802 dollari del 1999 a 34.752 del 2017. Negli anni ottanta, un italiano risparmiava in media 1/4 del suo reddito: oggi quasi zero.

L’Italia che, fra 1960 e 1979, vedeva crescere il Pil del 4,8% medio annuo (ed era ancora al 2% fra 1980 e 1999), dal 2000 al 2018 è ferma : la crescita media annua allo 0,2% significa che siamo in coma.

E questo si paga salatamente nella qualità della vita. Significa più disoccupazione e povertà, meno investimenti in infrastrutture, nell’educazione e nella sanitàSignifica blocco del cosiddetto “ascensore sociale”

Significa avere giovani senza un futuro, senza possibilità di fare un progetto di vita e significa anche gravissima denatalità. E’ la via del declino irreversibile.

.

Fonte: “Libero”, 10 febbraio 2019, Articolo di Antonio Socci (qui)

Economia, Europa, Politica, Unione Europea, Verso le elezioni europee

La crisi che verrà, cambierà ancora lo scenario politico interno. E l’Europa franco-tedesca sarà sempre più forte.

Riprendo un articolo di Roberto Marchesi apparso sul sito de il Fatto quotidiano (qui) dal titolo “Questo ciclo economico è alla fine. Un’altra recessione è alle porte”. Ma anche altri annunciavano la recessione nel 2019. Nella speranza che la recessione resti tecnica e non si traduca in una nuova crisi economica, segno della chiusura del ciclo economico di crescita. Dimenticavo un crisi ora ci colpirebbe in modo drammatico non essendo come sistema paese riusciti a ritornare alla situazione pre-crisi 2008. Un dato è incontrovertibile, la recessione tecnica conseguenza di diversi fattori, tra i quali l’insufficienza delle politiche della precedente legislatura e del Governo Gentiloni troppo appiattite sui modelli imposti di austerità, consente, nostro malgrado di verificare se le misure messe in campo dal Governo del cambiamento sono state adeguate e sufficienti o dovranno essere implementate sforando quel limite anacronistico del 3% imposto da Bruxelless. D’ora in poi verificheremo cosa il Governo Conte sarà in grado di fare per affrontare la recessione e capire quali correttivi saranno adottati alla politica economica gialloverde. Spero sicuramente in una manovra correttiva, ma non di aumento delle imposte, semmai di espansione, a deficit, della spesa produttiva e degli investimenti necessari per stimolare l’economia in recessione. Un anno bellissimo lo ha definito il Presidente Conte, lui è consapevole che saremo pronti a osannarli se ci salveremo, ma anche pronti a spazzarli via se falliranno. E’ indubbio che le crisi economiche hanno già fatto vittime illustri. Nel 2008 la grande crisi ed il governo Berlusconi in carica proprio dal 2008 è finito con Governo in vitro guidato da Monti. Siamo nel 2019 e la recessione tecnica, rischia di diventare una seconda crisi che metterà a dura prova i debiti sovrani. Ma Draghi non interverrà prontamete. Attenderà che la crisi si evidenzierà in modo chiaro prima di proporre un nuovo QE alle cui condizioni gli Stati non metteranno ostacoli. Altra cessione di sovranità, in cambio di una ombrello protettivo. Uno scenario che speriamo sia scongiurabile. L’Europa delle banche sarà pronta ad approfittarne e vorrà la rivincita sui populismi. Arriverà la proposta di Debito pubblico europeo (di figli e figliastri ovviamente). E l’accordo di Aquisgrana tra Francia e Germania recentemente siglato sarà messo in atto. Saranno loro a governare il debito pubblico dell’area euro. Saranno loro a pretendere un”Unione europea a due velocità. Un’Europa che illusoriamente si presenterà con due facce, ma il risultato non sarà altro che quello che è già prestabilito, un ulteriore passo verso l’integrazione europea a guida franco-tedesca, dove la parte tedesca continuerà a guidare le politiche europee e la parte mediterranea continuerà a restare su quel piano inclinato quanto basta per non scivolare nell’abisso. Un colonialismo interno vestito da cooperazione solidaristica. Ma il punto è il seguente: la nostra attuale classe politica si accoderà o farà saltare il tavolo?

Quando si parla di borsa e mercati, parlare di “fine di un ciclo” significa innanzitutto dire che una burrasca per i risparmiatorista arrivando. In questa occasione non si tratterà di una semplice “correzione” (riaggiustamento dei valori, nda) ma sarà certamente una fase recessiva probabilmente lunga e pesante, visto che, oltre ai fenomeni soliti (di seguito descritti), questa avrà caratteristiche globali molto più ampie e contemporanee. Sarà perciò impossibile, nello spazio breve di questo articolo, descrivere compiutamente l’intero intreccio di tutti questi fenomeni, e le responsabilità di chi li governa, ma colgo l’occasione di un chiarissimo articolo pubblicato questo mese dalla popolare rivista americana Fortune, sotto il titolo: “The end is near for the economic boom” (La fine è vicina per il boom economico), per suonare anche qui le sirene, perché quando una crisi arriva negli Usa diventa sempre globale.

Vediamo dunque quali sono questi indicatori economici che fanno scattare l’allarme.

Il primo è il Treasury yield curve (vedi grafico sotto), quello che segna la differenza tra il rendimento delle obbligazioni di medio-lungo periodo da quelle a breve scadenza. E’ un classico: quando questo indicatore arriva all’inversione, cioè quando i bond di breve periodo danno rendimento maggiore di quelli a lunga scadenza, significa che il mercato è arrivato al punto di “correzione” ovvero: l’ottimismo deve essere sostituito dalla prudenza.

L’altro sicuro indicatore che preannuncia l’inversione di tendenza, e l’imminente entrata in recessione, è quello della disoccupazione.

Davvero curioso questo indicatore, perché è come guardarsi allo specchio, ti vedi al contrario di come sei in realtà e di come ti vedono tutti gli altri. Quando esso segnala il massimo del bel tempo significa che è in arrivo la tempesta! E’ davvero strano, ma finora non ha mai fallito!

L’anomalia sta (forse) nel fatto che, essendo un indicatore molto seguito anche a livello popolare, il bassissimo livello dei disoccupati consente all’indice della “confidenza”, cioè il gradimento popolare, di volare alto anche se in realtà, proprio sul piano economico, segnala “brutto tempo in arrivo” a causa dello squilibrio che si viene a creare per l’eccessivo ottimismo.

Un indicatore che invece tutti capiscono è quello dell’indebitamento, sia pubblico che privato che sta salendo senza freni e senza alcun serio motivo. Geoff Colvin, l’autore dell’articolo di Fortune citato sopra, attribuisce questa imprudenza all’eccesso di confidenza, ma sulla crescita della spesa pubblica la responsabilità (anzi, l’irresponsabilità) non può essere d’altri che di Trump, che evidentemente cura altri interessi invece che quelli della nazione.

Ma anche l’indebitamento privato è arrivato ad un livello preoccupante, e non otterrà grandi benefici dalla “flat tax” di Trump, dato che non ce n’era bisogno. Infatti le imprese, mediamente, si sono indebitate senza che ve ne fosse reale bisogno dato che il loro boom economico dura da decenni avendo attraversato senza gravi danni tutte le recessioni incontrate. “Bonanza” è cominciata per loro da Reagan in poi e dal 1997 (anno della completa liberalizzazione delle banche) la media annuale degli utili (fino al 2017) è stata del 7,2% (indice S&P).

Non sapendo come investire proficuamente quella “manna” dal cielo optano in gran parte sul “buy-back”, cioè l’acquisto di azioni proprie che, pur dando maggiore solidità finanziaria all’impresa (spesso non necessaria), non trova poi fattivo utilizzo imprenditoriale. Sono come la medicina data a chi non ne ha bisogno. Finirà col far male invece che bene.

Infatti, con una disoccupazione così bassa questa orgia di utili inutili produrrà solo inflazione, che la Banca Centrale (la Fed) sarà disarmata a quel punto a contrastare, perché Trump sta già usando dissennatamente tutti gli strumenti di politica economica al solo scopo di produrre (per se stesso) “armi di distrazione di massa” senza benefici reali per l’economia e per la gente, che anzi viene sempre più mortificata dalle sue scelte strampalate.

Persino Bernanke, l’ex presidente Fed repubblicano che si è trovato nel 2008 proprio nel vortice della prima “Grande Recessione” della storia economica, e ha trovato nella sperimentazione su larga scala del Quantitative Easing la via per accompagnare coerentemente il presidente Obama fuori dalla crisi, ha avuto parole di forte critica per Trump: “Questi stimoli all’economia arrivano nel momento sbagliato, Wile E. Coyote is going to go off the cliff” (mentre Willy Coyote vola giù dal precipizio).

Ci sarebbe ancora molto da dire ancora sulle politiche di Trump: la guerra dei dazil’autarchial’arroganza politica con cui vuole trattare nemici e alleati allo stesso modo, ecc. ecc. ma qui non ho più spazio. Questo ciclo economico va ad esaurirsi proprio nel momento peggiore. Ci sono già tutti i segnali della depressione in arrivo (ma non aspettatevi, avverte Geoff Colvin, che siano gli economisti a suonare la sirena, “loro non lo fanno mai!”), tuttavia, inspiegabilmente, la cosa non sembra interessare l’amministrazione Trump.

Tra pochi giorni (il 15 settembre) saranno dieci anni esatti dal grande crollo in Borsa del 2008 che ha accompagnato il fallimento di Lehman Brothers. Speriamo che la storia non si ripeta.

Economia, Il Commento, Sovranisti

La miopia del sovranismo nostrano. Nel mondo della Brexit, della Cina, della Germania, e di Trump.

https://www.paolobarnard.info/intervento_mostra_go.php?id=2127

La visione di Paolo Barnard.

Il Sovranismo monetario italiano e la MMT rischiano di screditarsi per abbagliante miopia. Va fatto altro con urgenza. Ma onestà intellettuale impone di avvisare subito: non siamo più nel 2011, siamo in un altro secolo economico ora. Ciò che va fatto per avere una realistica speranza di vedere l’Italia fuori dall’euro è adesso di una mole e complessità spaventose. Per quanto ho visto, quello che ancora vi raccontano i vari gruppetti Sovranisti con leaders al seguito, e anche la MMT, sono solo frottole decadute oggi. Ma iniziamo da questo:

– Siamo travolti da un Vajont di dati catastrofici sulla nostra economia.

– Siamo gli ultimi in Europa in quasi tutto: PMIndex, innovazione/tech, crescita salari, infrastrutture, la crescita PIL reale è a quasi zero e la crescita prevista è un miserabile 0,6% nel 2019.

– Infatti siamo proiettati al 2024 come ancora gli ultimi in UE e molto sotto la Spagna.

– Siamo gli unici del G7 a non aver mai recuperato ai livelli pre 2008.

– Siamo dietro a Polonia e Repubblica Ceca per produttività.

– L’export dei nostri marchi è in calo persino con la Germania.

– Le aziende del Nord Italia non solo neppure si sognano di parlare di “Relocation” (che è il processo di riportare in patria i posti di lavoro che avevano esportato a Est), ma stanno di nuovo scappando in Slovenia piuttosto che sborsare per il Decreto Dignità di un governo di stolti che gli impone solo quei costi, mentre non gli crea nessuna economia per poterli pagare, perché Lega e 5S dopo le strombazzate si sono messi a stuoino di Bruxelles, e sulle tasse hanno tolto i centesimi del caffè.

Poi ce ne sarebbe da arrivare a Pasqua a scrivere. I ristoranti sono pieni, certo, i ragazzini spendono, certo, e tutti questi non pensano a, né sanno, un cazzo. La realtà è che l’Italia sta vivendo su un immenso debito, e non parlo del Debito Pubblico, ma della legge economica inconfutabile secondo cui chiunque, come appunto la maggioranza degli italiani, campi bene mangiando sull’immenso risparmio nazionale, sta mangiando soldi che sono stati il debito di altrettanti italiani. E dove si va a finire per sta strada? Ovvio.

Poi certo, rimane sacrosanto l’assioma che siamo conciati così per colpa della Moneta Unica Euro (non riscrivo qui il mio lavoro di 10 anni). Ma è proprio qui che arrivo al punto.

Otto anni fa fu legittimo chiamare a raccolta gli italiani per insegnargli come uscire dall’euro in ’10 facili mosse’. Lo facemmo spiegando la MMT in conferenze, e io in Tv più libri, e fu un notevole successo, ma attenti: il mondo di 8 anni fa era letteralmente un altro pianeta. I cambiamenti oggi in fase di fulminea evoluzione sono colossali, e oggi tornare alla carica per uscire dal criminale euro con i grafici e le formulette sintetiche della Prof.ssa Stephanie Kelton e del Sig. Warren Mosler, o con le conferenzine del Sovranista di turno col Power Point, non è più neppure pallidamente sufficiente.

Ma, chiederete, cos’è cambiato? Inizio dalla prima evidenza macroscopica.

Brexit.

Pochi giorni fa ho scritto a due massimi economisti MMT, cioè Marshall Auerback e Warren Mosler, una mail dove esponevo i seguenti concetti qui sotto riassunti:

So benissimo che uscire dall’Unione Europea e dalla Moneta Unica sono due sfide enormemente diverse, la prima molto più intrattabile. Ma non esistono dubbi che la grottesca e davvero agghiacciante agonia persino di una Superpotenza come la Gran Bretagna a fronte del potere di fuoco di Bruxelles e della ansie degli investitori, cioè Brexit, abbia mandato a ogni singolo europeo, soprattutto agli imprenditori di ogni stazza esistente, un segnale di panico al solo pensare a qualsiasi proposta che contenga il suono “exit”…”

 “E questo ha una sua ragione però. In effetti nessuno nel 2016 si sarebbe immaginato fino a quali profondità, in ogni sfera del vivere di un Paese, una rottura con la UE e le ansie degli investitori avrebbero provocato 1)crisi di fiducia, 2) intrattabili intrichi legali capaci di protrarsi per anni o decenni 3) fibrillazioni politiche interne, 4) e concreti danni per miliardi…

Se, dopo quanto sopra, voi economisti MMT vi ripresentaste oggi in Italia, per poter essere presi sul serio su eur-exit dovreste saper rispondere a un volume di domande mille volte quelle che vi furono poste dal 2011 al 2014”.

Per essere oggi presi sul serio nel pronunciare un suono “exit”, anche solo parlando di Moneta Unica, voi e noi dovremmo confrontarci in sessioni di altissimo livello con tutti i maggior attori economici di questo Paese. E parlo di: banche, fondi comuni, lavoratori del settore pubblico e comparti occupazionali privati, grandi e piccole/medie imprese di ogni sorta, settore energetico, esportatori, agricoltori e interessi regionali con relative filiere produttive, sindacati, operatori del turismo, università e settore Tech, investitori e risparmiatori domestici di ogni portata, legislatori, ministeri e aziende di Stato, et al…

Li potremmo convincere anche solamente a iniziare a considerare un suono “exit” solo se noi e voi sapremo sederci in lunghi, costosi (!), tavoli dove dovremo rispondergli su ogni singola domanda – e saranno complessissime – per convincerli che esiste anche solo una moderata speranza di farcela fuori dall’euro, conciati come già siamo. E farcela considerando che questo Paese navigherà in un mondo che è un altro pianeta rispetto a solo 8 anni fa….”

Non meniamo il can per l’aia: qui si tratta di saper raccontare all’Italia intera esattamente chi vince e che cosa se si esce dall’euro – sperando che davvero la bilancia penda nei calcoli dalla parte sovranista – poi chi perde e in quanti perderanno, e la somma realistica dei prezzi, e per quanto tempo stimato i cittadini dovranno sopportarli. Incontri serrati, attore economico dopo attore economico, politico dopo politico, quindi una squadra MMT decuplicata rispetto al ‘facile’ 2011. Domanda: la potreste mettere assieme?”.

Prima di elencare altri fattori fra quelli che hanno totalmente cambiato le carte in tavola per un eur-exit, penso a cosa invece sta facendo il Sovranismo monetario nostrano in questo momento. Allora: per decenza umana – neppure parlo di un tipo di decenza superiore, come quella intellettuale, ma proprio quella di base – dal termine Sovranisti vanno oggi epurati Lega, Salvini e i vergognosi suoi economisti Pippo&Baudo. Cioè, c’è un limite all’indecenza, ok? La Meloni ha il know-how per uscire dall’euro di un criceto, Liberi & Uguali oltre a essere microscopici sono per ora non pervenuti. Quindi chi rimane in Italia? I gruppetti Sovranisti o formazioni politiche dello 0,2% circa. E questi che fanno? Stanno pensando forse di iniziare a costruire uno schieramento di esperti in grado di fare ciò che ho descritto sopra? Ma per favore.

Insistono nell’errore madornale di credere che ‘blogghett-ando’, ‘Social-ando’, e ‘conferenzin-ando’, hanno delle chance nell’era di Brexit di convincere un Paese moderno, e le sue imprese, a prendere di petto Bruxelles stracciandone i Trattati più centrali. E purtroppo la stessa cosa stanno facendo quelli della MMT. Addirittura, e credetemi mi duole dirlo, un economista della stazza di Marshall Auerback mi ha risposto liquidando la colossale vicenda Brexit come “colpa dell’incompetenza della May” e spedendomi un suo articolo sulla crisi della Moneta Unica che è una delle più banali e antiquate semplificazioni di ciò che sta accadendo qui che io abbia mai letto. Mi sono cadute le braccia.

Ma veniamo al resto di ciò che ha cambiato tutto rispetto al 2011.

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Nel 2011 alla domanda “e i disoccupati?” era possibile rispondere con la formuletta MMT dei Programmi di Lavoro Garantito (PLG) gestiti dallo Stato per formare ogni disoccupato, dandogli un lavoro in attesa che poi il settore privato recuperi a sufficienza per riassorbirli tutti. Ma:

1) In quegli anni non era ancora esplosa la fulminante rivoluzione delle Nuove Tecnologie e delle Artificial Intelligence. Ora tutto è diverso, e ditemi realisticamente che mezzi avrebbe lo Stato italiano sovrano nella moneta oggi per davvero prendersi, ad esempio, un magazziniere disoccupato e formarlo con un lavoro di Stato negli Smart Logistic Networks zuppi di Artificial Intelligence (spiegati qui), ma che sono la realtà e futuro di qualsiasi azienda competitiva? Lo Stato italiano manco sa cosa sono gli Smart Logistic Networks, e allora quale azienda si prenderebbe oggi un disoccupato formato dai PLG di Stato a sistemi da anni ’90? Lo stesso vale per molti altri mestieri dove almeno le basi della Machine Learning stanno diventato pane quotidiano.

2) In quegli anni la Cina sembrava destinata a tirare come un toro l’intero mondo sia esportandoci a bassi costi, sia comprandoci montagne di cose. Quindi il settore privato italiano poteva supporre uno stato di salute tale da davvero riassorbire almeno una parte dei lavoratori alimentati dai PLG di Stato. Oggi la Cina non solo è piantata e nessuno davvero sa come, e se mai, ripartirà come prima (si veda anche lo stallo improvviso del suo faraonico progetto multi miliardario della Nuova Via della Seta), ma è in guerra di dazi con Trump, e non se ne vede la fine. Ci saranno delle tregue, ma non la fine. E’ ormai noto che persino l’economia tedesca si sta arenando per questi motivi, e Berlino ha ammesso che nel 2019 la sua crescita sarà la più bassa da 6 anni. Ribadisco: se cala la Germania, sono ancora batoste per le aziende italiane, poi ci mettete il fattore Cina e altro che assumere quelli del PLG in un settore privato italiano fiorente.

E allora, detto tutto ciò, dove finisce la facile formuletta 2011 del “Disoccupazione? C’è il PLG, no problem” della MMT?

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Nel 2011 l’idea di un’Italia giacobina, cioè clamoroso e isolato esempio di rottura dai sistemi globalisti sovranazionali, ci esaltava, ci sembrava plausibile anche nel terzo millennio. Oggi invece abbiamo sul tavolo le evidenze agghiaccianti di come l’isolazionismo nel XXI secolo, anche se giusto in linea di principio, venga macellato senza pietà, addirittura peggio che in epoche passate. Grecia, Argentina, Venezuela, Gran Bretagna e persino gli Stati Uniti sono esempi alla mano. Neppure Donald Trump, pensateci, è riuscito a isolare davvero l’America fuori dalla NATO, WTO, NAFTA, Delocalizzazioni, dipendenza dal petrolio di altri e fuori dalle trappole del Medioriente (ammesso che lo volesse davvero). Per non parlare appunto di Brexit.

Ora immaginate in questo contesto le prescrizioni di come uscire dall’euro in ‘10 facili mosse’ di Warren Mosler applicate all’Italia del 2019, quando attorno a lei verrebbe fatto il doppio della terra bruciata che in queste ore si sta facendo attorno alla Gran Bretagna. In soli 8 anni è cambiato tutto. Ciò che trapela da Grecia, Argentina, Venezuela, Gran Bretagna e persino dagli Stati Uniti è che adesso ogni vagito di isolazionismo sarà opposto con una ferocia, e con una coesione dei Poteri e degli investitori, senza precedenti nella Storia contemporanea. E spiace dirlo, ma qui né gli italici sovranisti né la MMT americana hanno risposte neppure lontanamente adeguate in caso di Ital-exit dall’euro e conseguente, quanto certo, attacco ‘nucleare’ contro un isolazionismo monetario di Roma, un attacco che solo 8 anni fa sembrava impossibile.

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Nel 2011 (e poi mi fermo, perché se no devo scrivere un libro) l’Occidente aveva aperto tutte le bocche di fuoco per uscire dallo storico crash del 2008. In particolare, non si dimentichi mai, l’euro ricevette una spinta atomica dal celeberrimo “Whatever it takes”  di Mario Draghi pronunciato nel luglio 2012, a cui poi seguirono altre tre propulsioni nucleari dell’economia europea chiamate LTRO, TLTRO e QE. Altrove nel mondo, come detto prima, sembrava che la Cina decollasse per l’iperspazio, il mercato del petrolio era abbastanza stabile, il costo del denaro era quasi a zero ovunque da noi, l’America neppure immaginava l’arrivo di Trump, le rinnovabili promettevano magie fra 5 minuti, e le Nuove Tecnologie e Artificial Intelligence (pur essendo una realtà che davvero c’è) infondevano un ottimismo un po’ troppo galoppante fra gli investitori e le aziende. La MMT e i Sovranismi avevano un senso in quei contesti. Il perché lo capite qui sotto.

Siamo al 2019 e ogni singolo punto sopra è, o collassato, o ha cessato di funzionare, o è instabile, o non ha mantenuto le promesse, o ha decisamente peggiorato l’economia globale. La realtà che un’Italia fuori dall’euro dovrebbe adesso affrontare è che, anche immaginando un suo magico successo (che ho già incrinato nei punti precedenti), essa si troverebbe sovrana nel mezzo di una stagnazione globale forte, e di una stagnazione europea tragica. Sulla UE in particolare va detto questo: Mario Draghi finisce il mandato da pietoso buffone che tenta di tenere i pezzi della sua faccia incollati fra loro di fronte alle telecamere delle conferenze stampa, ma la realtà è che l’Eurozona è cresciuta allo 0,2% (!!) nel 2018 e cioè l’esatta metà della previsioni del Mario, e aspettate: lo 0,2% è precisamente la sua crescita mediana per almeno 7 anni prima, con nel bel mezzo una Germania che, sì, esatto, è nel pantano.

Ma qualcuno là fuori si rende conto che, dietro gli imbarazzanti titoli dei quotidiani, la realtà è che la Deutsche Bank è FALLITA? (Paolo Barnard lo diceva alla Gabbia 4 ani fa) Si parla di un suo bail-out di Stato attraverso una fusione con un’altra ex ammiraglia tedesca, la Commerzbank, che è solo di poco messa meglio. Lasciate perdere la reazione da cortile della serie “gli sta bene a ste merde tedesche” o l’altrettanto miope “ma allora motivo in più per uscire dall’euro!”. Non è solo la super banca che affoga in Germania, sono anche i posti di lavoro giovanili e le infrastrutture. Ciò che questa storia ci racconta è che, sveglia!, il Pianeta è in recessione. E allora venendo all’Italia Sovranista o MMT, che cazzo credete che faremmo noi unici a sventolare la nuova Lira nel mezzo di un mare di lacrime? Non era questo il quadro nel 2011-12-13-14-15.

La MMT delle formulette del 2011-2 di Kelton o Mosler, o sti Sovranisti, ci saprebbero convincere, e saprebbero convincere “banche, fondi comuni, lavoratori del settore pubblico e comparti occupazionali privati, grandi e piccole/medie imprese di ogni sorta, settore energetico, esportatori, agricoltori e interessi regionali con relative filiere produttive, sindacati, operatori del turismo, università e settore Tech, investitori e risparmiatori domestici di ogni portata, legislatori, ministeri e aziende di Stato” che con la moneta sovrana ma in quel mare di lacrime e stagnazione sia globali che UE – e dopo aver sofferto una guerra spietata e pagato prezzi alti – lo stesso un’Italia sovrana sarebbe un passo avanti?

Se sì, ne sono felice, ma oggi qualunque gruppo Sovranista e qualsiasi MMTista è chiamato, se vuole essere preso minimamente sul serio, a rispondere, dicevo, non alle 20 domande del 2011, ma alle 2.000 domande serissime del nuovo pianeta Terra nel 2019, proprio perché c’è recessione, paura, precarietà che stanno dilagando. E attenti: questa recessione è peggio del crash del 2008. Semplice: un crash è un danno una tantum, una recessione globale è sistemica, lunga e infiltrante. Ben altri guai.

E allora lo dico chiaro: o io parlo a interlocutori ferrati che spaccano un capello con uno sguardo su tutte quelle 2.000 domande, e lo si fa davvero in almeno due anni di intensivi come descritti all’inizio dell’articolo, oppure vi consiglio di prendere Sovranisti e MMTisti che ancora vanno ‘blogghett-ando’, ‘social-ando’, e ‘conferenzin-ando’, e tirare lo sciacquone. Ne va proprio del minimo di serietà politica, economica e morale che io conosca.

Io sono Paolo Barnard, forse il primo in Italia 10 anni fa a buttare tutto se stesso sui media a favore del Sovranismo MMT per uscire dal criminoso euro. Ma io ho una coscienza dialettica, io rispondo in primis a quella coscienza. E ora vedo che quasi tutto è cambiato, e vedo che se oggi anche solo si contempla di abbandonare la Moneta Unica va fatto ben altro e con forze centuplicate, come racconto in questo articolo e con le motivazioni. Io non sono arroccato su ricettine divenute fasulle come i Rinaldi, Mori, Zoccarato, Fassina, o i Palma per scavarmi un posticino pubblico mentre mando alla rovina il pubblico per voluta ignoranza. Ok?

Ci sarebbe tantissimo altro da aggiungere, ma in questo spazio ho solo potuto dare un’idea delle sfide con alcuni esempi. A voi il compito: THINK.

Economia, Sovranità monetaria

FT: «Ha ragione la MMT»

E’ dal 2010 che sostengo la teoria MMT. Ho conosciuto Mosler nel giugno 2013 ad un convegno organizzato a Cantù (qui), ma ancor prima il tenace Paolo Barnard che per altro invitammo a Montichiari nel novembre 2013 proprio per un incontro sull’euroschiavitù. In questi giorni è arrivata la conferma di quanto già sosteniamo da quasi dieci anni.

Buona lettura.

Un articolo uscito ieri [17 gennaio 2019] sul blog Alphaville del Financial Times sdogana definitivamente e senza mezzi termini la teoria monetaria moderna (#MMT). Anche su questo, insomma, avevamo ragione noi:

«Non c’è nulla di intrinsecamente socialista per ciò che riguarda il debito pubblico. Un governo può emettere debito per pagare qualunque cosa gli piaccia: per combattere una guerra, per abbassare le tasse, per attutire gli effetti di una recessione. Gli Stati Uniti, per esempio, hanno sempre emesso debito per pagare per queste cose. I politici dicono che il debito pubblico spiazza gli investimenti privati, che è insostenibile e trasformerà il paese che ne fa uso nell’Argentina, nella Grecia o nel Venezuela. Ma indipendentemente da ciò che dicono, i politici americani finiscono sempre per fare ricorso al debito.

I sostenitori della moderna teoria monetaria sostengono che, per un paese sovrano che dispone della propria valuta, non esiste un livello intrinsecamente insostenibile di debito pubblico, sarebbe a dire che non esiste un livello oltre il quale il paese inizia crollare, che sia il 90 per cento o il 200 per cento del PIL. In qualunque momento il governo può appropriarsi delle risorse che ritiene necessarie per finanziare le sue politiche domestiche, indipendentemente dalle entrate.

Un tradizionalista considererebbe tale politica intrinsecamente inflazionistica, sostenendo che, come per qualunque altra merce, aumentare l’offerta di denaro ne riduce il valore. I sostenitori della teoria monetaria moderna sostengono invece che l’inflazione si verifica solo quando l’economia reale – gli impianti, le macchine, i lavoratori – non sono più in grado di assorbire la spesa del governo. Di conseguenza, la spesa va disaccoppiata dalla tassazione. Un governo può spendere finché non sono impiegate tutte le risorse reali di una economia e ricorrere alle tasse solo per raffreddare l’inflazione, una volta che l’economia raggiunge il suo massimo potenziale.

Noi di FT Alphavile riteniamo che [la teoria monetaria moderna] non sia né marxista, né bislacca. È semplicemente un modo diverso di guardare alla politica fiscale, un modo per descrivere i vincoli reali alla spesa pubblica. A ben vedere, il modo in cui la MMT guarda alla spesa pubblica è molto vicino a come i politici di Washington guardano alla spesa pubblica. Attenzione: non stiamo parlando di ciò che dicono, ma di quello che fanno.

Il Congresso degli Stati Uniti spende regolarmente in deficit per le cose che ritiene importanti. Negli ultimi quarant’anni, ha coperto la propria spesa con le tasse solo per un breve periodo, alla fine degli anni Novanta. … Esattamente come sostiene la teoria monetaria moderna, il Congresso spende finché le risorse reali non scarseggiano [cioè finché non viene raggiunto il limite oltre il quale si genererebbe inflazione]. Quel limite non è mai stato raggiunto negli ultimi due decenni.

Quando Washington vuole qualcosa – combattere una guerra, tagliare le tasse – autorizza la spesa necessaria e basta, senza preoccuparsi delle entrate. Dunque le discussioni sulla necessità di pareggiare il bilancio non riguardano i vincoli finanziari ma le priorità. I programmi ritenuti importanti vengono finanziati, sempre e comunque. I programmi che non sono ritenuti importanti devono essere finanziati con le tasse. Quando qualcuno a Washington dice: «Non possiamo permettercelo» in realtà intende «Non penso che sia importante».

In altre parole, [i politici americani] già seguono le prescrizioni della teoria monetaria moderna, anche se non lo ammettono».

Definitivo direi.

Fonte: lantidiplomatico.it (qui) Articolo di Thomas Fazi

Fonte: FT.com (qui)

Economia, Europa

Quantitative easing, Corte Ue: “Il programma di acquisti non è illegittimo e non eccede il mandato della Bce”

Il quantitative easing, cioè il programma di acquisto di titoli di Stato avviato nel 2015, è “conforme al mandato” della Bce. Lo ha stabilito la Corte di Giustizia Europea, esprimendosi sul quesito presentato dalla Corte costituzionale tedesca a cui erano arrivati diversi ricorsi che contestavano la legittimità dell’intervento sostenendo che equivalesse a un finanziamento monetario del debito pubblico. Secondo la Corte il programma non viola il diritto dell’Unione, non eccede il mandato della Bce e non viola il divieto di finanziamento monetario.

La Banca centrale europea ha avviato il programma di acquisti il 4 marzo 2015 alla luce di vari fattori che aumentavano il rischio di calo dell’inflazione sotto il valore obiettivo della Bce, pari al 2%. L’obiettivo era facilitare l’accesso ai finanziamenti utili all’espansione dell’attività economica favorendo il ribasso dei tassi d’interesse reali e inducendo le banche commerciali a concedere maggior credito. Questo al fine di sostenere i consumi globali e le spese per investimenti nella zona euro. Il programma prevede che ciascuna banca centrale nazionale acquisti titoli idonei provenienti da emittenti pubblici statali, regionali o locali del proprio Paese. La durata di applicazione si estendeva inizialmente fino alla fine del mese di settembre 2016 ma è stata poi prorogata a più riprese.

Con la sua sentenza, la Corte di Giustizia constata che l’esame delle questioni sottoposte dal Bundesverfassungsgericht non ha rivelato alcun elemento idoneo ad inficiare la validità del programma, che rientra nel settore della politica monetaria per la quale l’Unione dispone di una competenza esclusiva, per gli Stati membri la cui moneta è l’euro, e rispetta il principio di proporzionalità. La Corte ricorda che una misura di politica monetaria non può essere equiparata a una misura di politica economica per il solo fatto che essa sia idonea a produrre effetti indiretti che possono essere ricercati anche nel quadro della politica economica. Inoltre, la Corte ricorda come risulti chiaramente dal diritto primario che la Bce e le banche centrali degli Stati membri possono, in linea di principio, intervenire sui mercati dei capitali acquistando e vendendo in via definitiva titoli di debito negoziabili denominati in euro.

Per quanto riguarda le modalità di applicazione del programma, la Corte sottolinea che non è selettivo e non soddisfa i bisogni specifici di finanziamento di singoli Stati membri della zona euro. Esso non permette l’acquisto di titoli con un livello di rischio elevato e prevede dei rigorosi limiti massimi di acquisto per emissione e per emittente. Oltre a questo, attribuisce la priorità all’acquisto dei titoli emessi da operatori privati. Secondo la Corte, non risulta in maniera manifesta che un programma di acquisto di titoli del debito pubblico più limitato nel volume o nella durata avrebbe potuto in modo altrettanto efficace e rapido assicurare un’evoluzione dell’inflazione simile a quella ottenuta dalla Bce.

La Corte sottolinea poi che il qe non viola il divieto di finanziamento monetario, perché non equivale all’acquisto di titoli sui mercati primari e non produce l’effetto di indurre gli Stati membri a non condurre una sana politica di bilancio. Oltre a ciò, non consente agli Stati membri di determinare la loro politica di bilancio senza tener conto del fatto che, a medio termine, la continuità dell’attuazione del programma non è in alcun modo garantita e che quindi potrebbero dover cercare finanziamenti sui mercati senza poter beneficiare dell’alleggerimento delle condizioni di finanziamento che l’attuazione del programma comporta.

Inoltre, gli effetti sulla convenienza a condurre una sana politica di bilancio sono limitati in virtù dell’imposizione di limiti al volume mensile complessivo degli acquisti di titoli del settore pubblico, del carattere sussidiario del programma, della ripartizione degli acquisti tra le banche centrali nazionali secondo lo schema di sottoscrizione del capitale della Bce, dei limiti di detenzione per emissione e per emittente e degli elevati criteri di idoneità fondati su una valutazione della qualità creditizia. La Corte precisa, poi, che il divieto di finanziamento monetario non osta alla detenzione di titoli fino alla loro scadenza e neppure all’acquisto di titoli con un rendimento a scadenza negativo.

Fonte: ilfattoquotidiano.it (qui)

Economia, Politica, Sovranità monetaria

Per salvarci da quest’Europa serve una moneta parallela e poi… addio euro (di Becchi e Zibordi)

Una famiglia o un’impresa per procurarsi più denaro deve lavorare o fatturare di più. Se un privato ha scarsità di soldi deve convincere un altro privato o un ente pubblico a spendere di più. Considerando l’insieme delle famiglie e delle imprese di un Paese, quando qualcuno incassa di più qualcun altro si ritroverà con meno soldi e quando qualcuno taglia le spese qualcun altro incassa di meno. Come si fa allora a far circolare più denaro nell’economia?

L’unico modo è che lo Stato, tramite la Banca Centrale e le banche ordinarie, metta in circolo denaro fresco. Le Banche Centrali possono crearlo dal niente senza debito, quelle ordinarie lo creano anche loro, ma sottoforma di debito da restituire. La prova che sia così è il denaro nei conti correnti che aumenta sempre, oggi è di circa 2 mila miliardi in Italia e una generazione fa era intorno a 500 miliardi per cui evidentemente qualcuno lo ha creato.

Se lo Stato però non crea denaro, perché tassa di più di quello che spende e allo stesso tempo le banche tagliano drasticamente il credito, allora l’economia frana. Questo è proprio quello che è successo in Italia: le tasse sono aumentate, soprattutto grazie a Monti, di circa 40 miliardi e il credito è stato tagliato di circa 180 miliardi. Sono venuti a mancare circa 200 miliardi e la produzione industriale è crollata e ancora oggi è del 20% inferiore ai livelli del 2007. Tagliando il credito alle imprese le banche hanno aggravato la situazione.

FISCAL COMPACT

Sottostare alle regole del Fiscal Compact, come l’Italia sinora ha fatto, è una strada senza uscita, che aggrava il suo declino. Lo Stato italiano deve invece tornare ad emettere moneta come fanno gli altri Stati indipendenti e se non può farlo tramite Bankitalia (la propria Banca Centrale) deve farlo emettendo una moneta parallela, visto che ritornare alla lira al momento è escluso dalle forze politiche al governo.

Quando si parla di una seconda moneta parallela all’euro – che siano gli accenni alle “Am Lire” di Berlusconi, la moneta fiscale di cui parlavano un tempo alcuni economisti vicini a Grillo o i “miniBot” della Lega, i quali sono persino nel contratto di governo, anche se nessuno più ne parla – si incontra subito l’obiezione che il problema vero in Italia non è la moneta ma l’inefficienza, lo spreco, la produttività, la corruzione e l’evasione fiscale. La spiegazione più diffusa è che siamo diventati meno produttivi ed è per questo che non ci possiamo permettere deficit maggiori, come ad esempio i francesi.

In Francia hanno tenuto deficit pubblici più alti dei nostri e le banche hanno continuato a creare credito mentre in Italia da dieci anni lo hanno ridotto. Il debito di famiglie e imprese in Francia è però il 233% del Pil e in Italia il 169%, molto più basso. Anche se si considera il debito pubblico, la Francia ha il 100% del Pil e noi il 133% per cui sommando debito pubblico e privato la Francia è più indebitata di noi. Inoltre l’Italia continua ad esportare bene ed ha un surplus estero del 2% del Pil, mentre la Francia ha un deficit estero del 2%. E la produzione industriale italiana resta anche oggi maggiore di quella francese. Non sembra quindi che siamo diventati di colpo meno “produttivi” dei francesi.

LE IMPRESE DEL NORD

Il fatto che in Italia ci sia spreco di denaro pubblico e tanti settori della Pa siano inefficienti non impedisce, oggi come venti anni fa, alle Pmi del Nord di esportare e produrre. Quello che le ammazza non è la corruzione ma sono le troppe tasse e il taglio del credito. L’Italia è penalizzata in Europa perché l’unico debito che conta è quello pubblico, e non quello privato. Questa regola è stata promossa da Paesi che hanno molto più debito privato, come appunto la Francia. Questa situazione, a noi svantaggiosa, giustifica che si cerchi una soluzione senza aspettare il consenso dell’Ue e l’unica soluzione praticabile è quella di creare in Italia una moneta parallela all’euro. L’idea è essenzialmente quella di emettere agevolazioni fiscali, simili a quelli per le ristrutturazioni edilizie, ma trasferibili e non vincolati ad una attività come rifare una casa. Lo Stato potrebbe emettere una certa quantità di denaro e usarla per ridurre le tasse. L’ufficio studi di Mediobanca nel 2016 in un suo studio aveva sponsorizzato l’idea parlando di emettere crediti o agevolazioni fiscali per 40 miliardi. Ogni lavoratore e impresa riceverebbe su una carta di credito ad hoc alcune migliaia di euro di agevolazioni fiscali, utilizzabili con un ritardo di uno o due anni e nel frattempo la gente le userebbe come una sorta di denaro. L’effetto sarebbe quello di introdurre denaro fresco nell’economia. Nel “contratto” tra Lega e M5S c’è la proposta dei “miniBot” che va in questa direzione. Si tratta di emettere Bot che vengono accettati per pagare le tasse con cui saldare i debiti accumulati dalla pubblica amministrazione verso le imprese.

Questa idee, qui solo abbozzate, vanno certo spiegate nel dettaglio. Venerdì 23 novembre a Roma presso l’Aula dei gruppi parlamentari si è svolto un incontro con diversi esperti che ha avuto un grande successo di pubblico. Segno che c’è la volontà di trovare soluzioni che possano aiutare l’Italia a difendersi dagli attacchi provenienti da Bruxelles.

Fonte: Blog di Paolo Becchi (qui) – Articolo di Paolo Becchi e Giovanni Zibordi su Libero, 24/11/2018

Crescita, Economia, Politica

Manovra, serve shock fiscale. Artom: “Deficit su al 3,4%, flat tax e cuneo da 17 miliardi”

La proposta rivoluzionaria di Arturo Artom, imprenditore considerato vicino a Casaleggio e tra i fondatori di Confapri.Ecco come affrontare la querelle con l’Ue.

“E’ una provocazione ma molto concreta. Non si può affrontare un 2019 con una procedura d’infrazione aperta, una spada di Damocle mentre il governo è soggetto a uno stillicidio continuo di notizie negative, anche riguardo ai rapporti fra governo e Commissione europea. Quindi o si chiude l’argomento prima dell’Ecofin del 22 gennaio, cedendo qualche cosa a Bruxelles dal punto di vista della manovra ed evitando la procedura oppure, a infrazione ormai avviata, il governo potrebbe mettere in cantiere un punto aggiuntivo di deficit/Pil (dal 2,4 al 3,4%, ndr) da impiegare per far partire subito, oltre al reddito di cittadinanza e il superamento della riforma Fornero, anche la flat tax alle imprese. E non soltato quella alle partite Iva”.

Lo spiega  Arturo Artom, imprenditore considerato vicino a Davide Casaleggio e tra i fondatori di Confapri (Confederazione delle attività produttive), intervistato da Affaritaliani.it per entrare nel dettaglio della sua proposta rivoluzionaria su come affrontare il delicato momento dello scontro fra l’Italia e Bruxelles. Una querelle che non sta aiutando l’economia italiana in “pesante rallentamento” (“il dato sul Pil del quarto trimestre sarà negativo“, dice) e che rischia di far peggiorare ulteriormente la situazione. “Anticipare gli interventi del programma di governo sulle imprese, come anche l’abbattimento del cuneo fiscale, interventi che la Lega voleva invece spalmare – aggiunge l’imprenditore grillino – consentirebbe al Paese di far ripartire subito anche gli investimenti privati“.

Un punto aggiuntivo di deficit/Pil, che arriverebbe così al 3,4%, rispetto al 2,4 fissato dall’esecutivo, sono circa 17-18 miliardi…
“Sì, dote da ripartire così: 7-8 miliardi per aumentare notevolmente la platea delle Pmi coinvolta nella flat tax e altri 9 per abbassare le altre componenti del cuneo fiscale e dell’Irap. Misure che darebbero un segnale di fiducia alle imprese che, spaventate per l’incertezza che regna attorno al Paese, stanno bloccando e ritardando gli investimenti. Oltretutto, l’Italia andrebbe a vincere la sfida sui mercati. Si tratta infatti di misure che gli investitori vogliono veder introdurre”.

Quindi, secondo lei, poi lo spread Btp-Bund si abbasserebbe?
“Sì, i mercati adorano gli shock fiscali espansivi: il differenziale fra i nostri titoli di Stato decenali e quelli tedeschi si è ridotto l’altro giorno subito dopo che la Commissione europea ha annunciato la bocciatura definitiva del documento programmatico di bilancio italiano, aprendo la strada alla procedura d’infrazione nei confronti del nostro Paese. Ciò significa che la vera sfida dell’Italia è con i mercati. A questo punto, è sbagliato andare ad ingaggiare una trattativa con Bruxelles, elemosinando ammontare e i tempi, da allungare, della comminazione delle sanzioni a procedura aperta a fronte di una rimodulazione delle misure economiche. E’ una strategia fallimentare. Un’autentica follia”.

Perché?
“Mantiene il clima d’incertezza sul fronte dei conti pubblici e nell’economia del nostro Paese. Se procedura d’infrazione sarà, è meglio anticipare alcune misure economiche del programma di governo facendo più deficit, scelta di politica economica espansiva, come il taglio delle tasse e maggiori investimenti. Misure che verrebbero apprezzate dai mercati e che consentirebbero all’Italia di vincere la sfida con l’Europa, neutralizzando dal punto di vista dello spread la procedura d’infrazione. La politica punitiva di Bruxelles verrebbe così depotenziata e l’Italia riuscirebbe a rilanciare fortemente la crescita in un clima di grande entusiasmo e di positività. L’alternativa è cedere qualcosa all’Ue, ma senza far scattare formalmente il 22 gennaio la procedura comunitaria”.

La sua proposta parte dal fatto che il clima economico del Paese si sta deteriorando…
“Sì, i dati che ho a disposizione sono molto brutti: nel comparto di produzione delle viti, settore che è a monte di ogni filiera, il calo si aggira nell’ordine del 15-20%, il retail fa -10% rispetto al novembre scorso e le richieste di mutui e prestiti sono sotto di una percentuale compresa fra il -5 e il -10. Nel quarto trimestre andremo incontro a una crescita negativa. Quindi, avremo un segno meno davanti al Pil, dopo la crescita zero del terzo trimestre. Annacquare politiche giuste come il reddito di cittadinanza – misure che, facendo emergere il lavoro nero, funzionano solo se c’è la crescita nel Paese – da giocare come merce di scambio per un annacquamento della procedura d’infrazione, fa sì che l’Italia alla fine rimanga cornuta e mazziata. Il motivo? Alla fine non cresce e, in più, si ritrova sul capo sanzioni contabili”.

Di chi è la colpa di questo deterioramento del clima di fiducia attorno all’Italia?
“La colpa principale ce l’ha la Commissione europea che ha deciso di far politica su di noi, andando contro quello che dovrebbe essere lo spirito dell’Ue. Si sta effettuando una battaglia, alzando la tensione, per uno 0,5% di deficit/Pil in più. Se fossimo rimasti all’1,9% non sarebbe successo niente. Ricordo che dal 2012 fino 2015, in soli tre anni, il rapporto debito/Pil è salito dal 116% al 132%, per rimanere poi stabile fino ad ora. E’ stato l’effetto di politiche di austerità imposte dall’Ue. Ora, Bruxelles si sta comportando come se avessimo portato il rapporto deficit/Pil al 5%, mentre lo abbiamo aumentato soltanto di uno 0,5%”.

Come laboratorio politico governativo, rappresentiamo un’assoluta novità in Europa. Per certi versi com’è stata la Grecia di Alexis Tsipras del 2012, in cui la sinistra radicale anti-establishment di Syriza rappresentava, al governo, un’autentica minaccia all’ordoliberismo tedesco e all’austerity comunitaria. Sappiamo com’è andata a finire. Può essere che ora Bruxelles abbia voluto prendere una posizione forte nei confronti di una nuova minaccia, quella del sovranismo nascente?
“Sì, l’Italia e la compagine governativa sono un laboratorio politico che in termini storici ha già cambiato l’Unione europea, facendo scattare, a breve, la procedura d’infrazione. Stiamo entrando in un campo inesplorato anche per la Commissione che sta cercando di usare i mercati come martello per bastonare le forze che adottano un approccio sovranista nei confronti di Bruxelles. Ma lo spread resta stabile a quota 300. Significa che l’esecutivo comunitario non ha assolutamente vinto”.

In tutto questo, il M5S denuncia anche un fuoco di fila mediatico…
“E’ indubbio che il governo Conte non ha avuto l’appoggio dei media, che amplificano il newsflow negativo. Ma non si tratta di un fattore determinante nel deterioramento del clima di fiducia generale. A questo punto, la chiave è da ricercare fuori dall’Italia. Lo scontro del Paese con l’Ue dev’essere risolto o in un modo o nell’altro”.

Assieme a Gianroberto Casaleggio, lei è stato uno degli ideatori della necessità d’istituire il reddito di cittadinanza. Negli ultimi giorni sono emerse delle perplessità sull’attuazione della misura anche fra alcuni esponenti del governo. Conferma la road-map per marzo?
“Ne sono convinto. La chiave, soprattutto al Sud, sarà quella della riforma dei centri per l’impiego che al momento bruciano 500 milioni con 8 mila addetti che sono allo sbando. Poi sarà necessario aprire un tavolo fra le Regioni per far sì che i sistemi informativi si parlino e per creare un reale coordinamento, spostare poi l’intermediazione dei centri per l’impiego dal 3% delle offerte al 10% e far ritornare del cricolo virtuoso del lavoro in bianco”.

Ma le offerte di lavoro arriveranno? Alla fine, il reddito di cittadinanza, che punta a formare i dicoccupati, si basa su questo…
“Tutto funziona se c’è la crescita economica. Ecco perché c’è bisogno di rimetterla in moto”.

Fonte: affariitaliani.it (qui)
Economia, Legge di Bilancio, Politica

Salvini rifletti: l’economia sta entrando in recessione e c’è il rischio che la manovra si riveli inadeguata. (di Becchi e Zibordi)

Ogni giorno che passa – bisogna pur dirlo – diminuisce la fiducia di imprenditori e dirigenti, operatori finanziari, artigiani, professionisti e investitori nel M5S. I sondaggi continuano a essere favorevoli più per la Lega che per il M5S, ma comunque – anche questo va detto – danno a entrambi sempre più del 60% del consenso, un consenso di cui pochi governi negli ultimi decenni hanno mai goduto.

Esiste però un altro tipo di consenso, quello del mondo economico, finanziario e imprenditoriale: questo è sempre più debole. Lo si vede dalla frana della Borsa e dei Btp (complessivamente da inizio anno chi avesse avuto 100milain Btp e azioni italiane avrebbe perso 17mila euro), dagli indici di fiducia delle imprese, in caduta brusca.

Dal punto di vista macroeconomico il dato drammatico è il taglio del credito, il bollettino di Bankitalia mostra che il «credito a residenti» (cioè imprese e famiglie) si è ridotto di 80 miliardi, da 2.400 a 2.320 miliardi da marzo. Le stime sulla crescita del Pil nel 2019 vengono riviste in basso quasi ogni settimana e mentre il governo parla di crescita intorno al 1,5% questa settimana la più importante banca americana, JP Morgan, ha drasticamente rivisto la previsione per l’Italia da 1,50% a 0,5%. Possono ovviamente sbagliare

Passando a dati più qualitativi, anche la manifestazione di Torino pro-Tav è il sintomo dell’opposizione crescente dei ceti professionali e imprenditoriali al M5S. Molta di questa gente al Nord votala nuova Lega di Salvini, ma ogni settimana che passa è sempre più sfiduciata riguardo la gestione della nostra economia. In termini economici in sei mesi il governo ha fatto pochino. La riduzione di tasse, «flat» o meno, è in pratica limitata alle «partite Iva» e le pensioni a 62 anni (revisione della “Fornero”) e il reddito di cittadinanza sono tuttora avvolte nel mistero su come e quando arriveranno.

Il deficit previsto dalla manovra è in realtà modesto, un 2,4% del Pil esattamente come accadeva sotto Renzi, ma nelle mani di Di Maio, Salvini, Conte e Tria è diventato un casus belli con la Ue e ha mosso i mercati (in basso). Le gaffe nei discorsi e dichiarazioni sono irrilevanti, se si guarda alle decisioni prese però non si può non constatare il caos della gestione del crollo del Ponte Morandi a Genova, il tentativo di cancellare la prescrizione, che Salvini ha cercato intelligentemente di parare, una finanziaria del 2,4% di deficit, rivolto però in prevalenza a pensioni e reddito per chi non lavora. Tutte cose che sono importanti, ma di poco aiuto per imprenditori, artigiani, professionisti.

Da parte degli avversari del governo, l’opinione che comincia a farsi strada è che conviene lasciare cucinare il governo nel suo brodo: l’economia andrà in recessione e il 60% e rotti di consenso di cui gode svanirà sotto il peso di una nuova crisi economica. Questo rischio è concreto perché, come abbiamo scritto su questo giornale, la congiuntura globale sta rallentando bruscamente, la Bce finisce (salvo ripensamenti) da dicembre di stampare moneta per comprare debito e i sintomi di recessione in Italia aumentano di giorno in giorno, anche a causa del calo della fiducia delle imprese.

Salvini dovrebbe riflettere sul fatto che il problema non è il deficit in sé, ma lo diventa se viene usato solo per pensionare dipendenti pubblici, pagare redditi a chi non lavora, lasciando poi cheilM5S renda più complicatala vita alle imprese e faccia, grazie a Toninelli, un gran casino nei lavori pubblici. Se la congiuntura economica fosse ancora favorevole Salvini potrebbe aspettare aumentando ancora i consensi per la Lega. Ma stiamo andando in recessione e gli italiani che fanno buste paga, producono fatturati e investono sono sempre più pessimisti. La Lega dovrebbe allora differenziarsi proponendo per il futuro qualcosa che vada oltre la legge di bilancio e che inverta il trend del pessimismo dei ceti produttivi. Che cosa si può fare lo scriveremo nel prossimo articolo.

Fonte: liberoquotidiano.it (qui) – Articolo di Paolo Becchi e Giovanni Zibordi

Economia, Good News

Melegatti, 35 dipendenti a lavoro da oggi: marchio e pandori “salvi”

L’azienda è ufficialmente di proprietà della famiglia vicentina Spezzapria, che ha rilevato e vuole ora rilanciare lo storico marchio dolciario italiano, che rischiava di scomparire definitivamente: 13,5 milioni di euro il costo d’acquisto.

Ha riaperto oggi la Melegatti, storica azienda veronese, il cui fondatore 124 anni fa inventò il pandoro. Da ieri, dopo la conclusione delle operazioni di cessione, la Melegatti è ufficialmente di proprietà della famiglia vicentina Spezzapria, che ha rilevato e vuole ora rilanciare lo storico marchio dolciario italiano, che rischiava di scomparire definitivamente: 13,5 milioni di euro il costo d’acquisto dell’azienda veronese.

La riapertura dello stabilimento veronese ha visto l’ingresso dai cancelli questa mattina di 35 dipendenti a tempo indeterminato, per lo più ex lavoratori dello storico marchio, ai quali seguiranno nei prossimi mesi ulteriori assunzioni, per assicurare la produzione del famoso pandoro (e del panettone), già per il prossimo Natale e della colomba Melegatti per la Pasqua 2019.

La società “Sominor srl” si è trasformata in “Melegatti 1894 Spa” e sono stati formalizzati gli incarichi all’interno del consiglio di amministrazione. Giacomo Spezzapria è il presidente della Melegatti e Denis Moro è l’amministratore delegato. La Melegatti d’ora in poi fa parte di un gruppo alimentare assieme a tre società di packaging, la vicentina “Eriplast”, la trentina “Fucine Film” e la modenese “Albertazzi G.”.

L’integrazione verticale della filiera alimentare consentirà economie di scala e ampliamento di competenze. “Terminate le procedure di acquisto da oggi saremo ancor più concentrati sul ritorno del tradizionale pandoro e panettone Melegatti sulle tavole degli italiani. Abbiamo puntato molto sullo sviluppo del territorio e sulla valorizzazione delle sue competenze. Ora la nostra presenza a Natale sarà importante perché dimostra la concreta volontà di ripartire con la tradizione, la qualità e il prestigio di un marchio dolciario unico in Italia e nel mondo” aveva dichiarato ieri Giacomo Spezzapria.

Fonte: ilfattoquotidiano.it (qui)

Economia, Mafie

Mafia e ‘ndrangheta si spartivano il mercato del gioco online: 68 arresti e sequestri per un miliardo di euro

Le mafie si sono spartite e controllano il mercato della raccolta illecita delle scommesse on line. È quanto emerso al termine di tre diverse indagini delle procure di Bari, Reggio Calabria e Catania, coordinate dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo che hanno portato all’arresto di 68 persone e al sequestro di beni in Italia e all’estero per oltre un miliardo. Il volume delle giocate, riguardanti eventi sportivi e non, scoperto dagli investigatori di Guardia di Finanza, Polizia e Carabinieri, è superiore ai 4,5 miliardi.

I destinatari dei provvedimenti cautelari sono tutti importanti esponenti della criminalità organizzata pugliese, reggina e catanese, oltre a diversi imprenditori e prestanome. Guardia di Finanza, Polizia, Carabinieri e personale della Dia stanno inoltre eseguendo una ottantina di perquisizioni in diverse città.

I reati contestati, a vario titolo, vanno dall’associazione mafiosa al trasferimento fraudolento di valori, dal riciclaggio all’autoricilaggio, dall’illecita raccolta di scommesse on line alla fraudolenta sottrazione ai prelievi fiscali dei relativi guadagni.

Dalle indagini è emerso che i gruppi criminali si erano spartiti e controllavano, con modalità mafiose, il mercato delle scommesse clandestine on line attraverso diverse piattaforme gestite dalle stesse organizzazioni. Il denaro accumulato illegalmente, il cui percorso è stato monitorato dalla Guardia di Finanza, veniva poi reinvestito in patrimoni immobiliari e posizioni finanziarie all’estero intestati a persone, fondazioni e società, tutte ovviamente schermate grazie alla complicità di diversi prestanome. E proprio per rintracciare il patrimonio accumulato ed effettuare i sequestri è stata fondamentale la collaborazione di Eurojust e delle autorità giudiziarie di Austria, Svizzera, Regno Unito, Isola di Man, Paesi Bassi, Curacao, Serbia, Albania, Spagna e Malta.

Le nuove mafie hanno bisogno di “quelli che cliccano, che movimentano” i soldi facendoli transitare da un Paese all’altro senza lasciar traccia delle transazioni online, non di quelli che fanno “bam bam”, cioè di quelli che sparano.

A confermare il cambio di mentalità delle organizzazioni criminali è uno degli indagati nell’indagine di tre procure che ha portato all’arresto di 68 persone appartenenti a gruppi mafiosi che si erano spartiti il mercato online delle scommesse clandestine, intercettato dalla Guardia di Finanza mentre spiega quale sia la strategia giusta da attuare. “Io cerco i nuovi adepti nelle migliori università mondiali – lo sentono dire i finanzieri – e tu vai ancora alla ricerca di quattro scemi in mezzo alla strada vanno a fare così: ‘bam bam!'” “Io invece – aggiunge l’uomo – cerco quelli che fanno così: ‘Pin pin!!’. che cliccano, quelli che cliccano e movimentano. È tutta una questione di indice, capito?”.

Fonte: huffingtonpost.it (qui)

Altaitalia, Economia, Imprese, Microimprese, Politica

Lega, occhio al Nord.

Nel tessuto produttivo del polmone elettorale leghista, inizia a serpeggiare qualcosa di più del malumore per il governo del “non cambiamento”.

Milano, 18 ottobre 2018. Teatro alla scala. È nel tempio della lirica che quello che sembrava un’opera impeccabile improvvisamente si spezza. In platea ascoltano un tenore molto particolare. Si chiama Carlo Bonomi, di mestiere, tra le altre cose, fa il presidente di Assolombarda. Suona uno spartito per qualcuno a Roma cacofonico: “Il governo del cambiamento non ha prodotto una manovra di vero cambiamento. Tutti comprendiamo che il dividendo che si ricerca è quello elettorale, non quello della crescita”. Crack.

Nella capitale drizzano le orecchie. Matteo Salvini e Giancarlo Giorgetti che si accorgono che è un momento di cesura. L’associazione che raccoglie le imprese di Milano, Lodi e Monza Brianza è considerata una sorta di polmone verde del consenso della Lega nel profondo Nord. Un polmone che sembra ora avviluppato dall’asma.

C’è una narrazione che vede il governo gialloverde come un ente indissolubile, che tra scontri, armistizi e sprazzi di serenità muove le proprie pedine all’unisono nel grande risiko d’Italia. Ma c’è un secondo livello di lettura, nel quale il Carroccio è pur sempre un prodotto del centrodestra italiano, con una propria specificità territoriale nonostante il dilagare verso il sud del paese, che malgrado il vento in poppa dei sondaggi sta vedendo crescere un blocco coeso di opposizione interna, composto da quegli stessi tessuti produttivi che sono stati il volano del boom elettorale.

“Il ministero dello Sviluppo economico il grosso del lavoro continua a farlo con Confindustria e le grandi imprese. Qui serve un ministero per le piccole e medie imprese, gliel’ho detto a Salvini”. A parlare è Paolo Agnelli. Non proprio uno qualunque. Guida Confimi, la Confederazione dell’Industria Manifatturiera Italiana e dell’Impresa Privata. Non vi dice niente? Mettetela così: Rappresenta circa 34 mila imprese per 440 mila dipendenti con un fatturato aggregato di 71 miliardi di euro, il valore di due leggi di bilancio. Il leader della Lega coccola quello che sa essere un rapporto fondamentale. Lo scorso 15 ottobre è volato all’assemblea generale dell’associazione, delegando a Giorgetti la presenza a un fondamentale vertice a Palazzo Chigi. Ha incassato le critiche, ha sdrammatizzato: “Io quest’uomo lo amo”. Perché sa che c’è qualcosa che non va.

“Il 99,5% del mondo produttivo italiano è rappresentato dalle Pmi – spiega Agnelli – fatturano 2mila miliardi all’anno. Non c’è attenzione a tutto quello che le circonda”. Il grande elefante nel salotto è l’alleanza con il Movimento 5 stelle. Tra i corridoi di Confindustria lombarda i dirigenti guardavano sbigottiti i flash delle agenzie che battevano la notizia di Luigi Di Maio alla guida del Mise. “Quando vengono a parlare con noi, i 5 stelle ci guardano come marziani – spiega ad Huffpost uno di loro – noi li consideriamo incompetenti. Con la Lega invece si parla lo stesso linguaggio”. Raccontano che il presidente degli industriali lombardi, Marco Bonometti, si senta tradito: “È furibondo. E dire che lui è sì un uomo di destra, ma è anche molto pragmatico. Matteo Renzi è andato da lui quando gli serviva. Eppure la deriva di politiche economiche e del lavoro che sta mettendo in campo il governo li ha completamente bypassati”.

Il primo scricchiolio è arrivato in autunno, con la lettera dei 600 imprenditori veneti contro il decreto dignità. Ne abbiamo raggiunto uno, è tranchant: “Per due barconi in meno Salvini ci abbandona. Noi da anni facciamo fatica a investire, a innovare, ad andare all’estero. E non arriva nessun investimento per le imprese in difficoltà, mentre i soldi vanno ai disoccupati meridionali”.

Gianluca Tacchella è l’amministratore delegato di Carrera jeans, piedi e radici piantate dagli anni ’60 nella pancia del Veneto. “L’economia la fanno le aziende, la mettono in moto le aziende, non lo stato. Se mi dici che crei pil facendo debito pubblico, facendo il reddito cittadinanza è una scemenza. I soldi che dai ai milioni di cittadini che prenderanno il reddito poco c’entra con il pil”. Risponde dalla macchina, mentre solca la nebbiolina serale della padana. Il suo tono è un misto di combattività e rassegnazione: “Non vedo nulla per le aziende. Cosa penso della legge di bilancio? Prendo solo atto che abbiamo perso ulteriore occasione per fare qualcosa per le pmi. Sono molto deluso, ogni volta si fa una manovra e ci trascurano. E ogni anno è tempo che si perde, quindi va sempre peggio”. Poi mette giù in chiaro una cosa che tanti come lui pensano ma non hanno il coraggio di mettere nero su bianco: “Non voglio dare giudizi politici specifici. Ma come sempre abbiamo chi elettoralmente promette di fare grandi cose e poi non fa niente”.

Quando Giorgetti e il viceministro dell’Economia Massimo Garavaglia tornano nella provincia verde si sentono sempre più spesso dire la stessa cosa: “Vi abbiamo dato fiducia, basta seguire i 5 stelle”. Antonio Calabrò, vicepresidente di Assolombarda, ha tirato una bordata alla compagine di Luigi Di Maio non più di qualche giorno fa. “Le piccole imprese italiane contro le grandi… Le strutture produttive diffuse sui territori contro i “poteri forti” e i “salotti buoni”… Le fabbrichette contro le multinazionali… – ha scritto su Huffpost – Chi non conosce affatto il tessuto industriale italiano usa questi schemi fuori dalla realtà per provare a riscrivere politiche industriali, come si pensa in ambienti di governo a proposito dei contenuti della manovra a sostegno delle imprese”.

Un imprenditore lombardo spiega la reazione tipo dei vertici leghisti a queste critiche: “Ti allargano le braccia e ti dicono il quadro politico è questo, che possono farci poco. Quando gli dici che ci si augura che duri il meno possibile sorridono”. La perplessità delle prime settimane si sta trasformando in rabbia e sconcerto. Perché la Lega sta velocemente dilapidando il patrimonio di stima che quel mondo aveva nei suoi riguardi. “La parte larga tessuto imprenditoriale in Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna ha votato Carroccio – ci spiega un dirigente confindustriale veneto – Forte della considerazione che amministrando sono stati bravi, di una straordinaria concretezza. Della Lega ci si fida, si parlano linguaggi analoghi”. Da qui nasce l’irritazione: “Ora li vediamo comportarsi diversamente. Devono tornare a fare la Lega dei territori”.

Il patrimonio di credito acquisito si sta erodendo ma non è ancora del tutto evaporato. Spiega uno dei vertici di Confindustria Lombardia: “Con i 5 stelle è diverso. Li riempiamo di carte e documenti, ma numeri e fatti non li riguardano”. In tanti citano come unica eccezione Stefano Buffagni, sottosegretario lombardo in quota M5s al ministero degli Affari Regionali, un passato al Pirellone. Troppo poco. Per capire qual è la cifra leghista che fa presa da quelle parti basta citare un episodio. Quando Agnelli ha incontrato Salvini gli ha chiesto di poter approfondire il tema in un colloquio a Roma. Bene, la settimana dopo era in agenda, ha preso un aereo e ha incontrato il vicepremier. È questo che ha reso la Lega benvoluta nel profondo Nord. Questo, insieme al fatto che dgli incontri seguiva un’immediata operatività. Che ora sta venendo a mancare.

Luca Scordamaglia non è solo il presidente di Ferderalimentare, ma anche l’amministratore delegato del gruppo Cremonini, colosso nel campo delle carni, un impero che tra i suoi marchi comprende Manzotin, Chef Express e Roadhouse. “Non penso che il decreto dignità abbia portato alla creazione di posti di lavoro, ma nemmeno alla loro scomparsa – spiega – Il vero rimprovero è non aver sburocratizzato un sistema in cui vige l’assenza di flessibilità e politiche attive. Le faccio un esempio: il 33% di tecnici specializzati cercati nel nord non si riescono a coprire”. Il Ceo è tra i pochi a non vedere nero sul reddito di cittadinanza. Ma con dei caveat dirimenti: “Se non si parlerà di limite geografico per l’accettazione delle offerte di lavoro, che francamente non ha senso, se si parlerà di detrazione per chi assume, allora avrà una valenza diversa, avvicinandosi agli strumenti inclusivi che esistono in Germania e nelle socialdemocrazie”. Il punto cruciale è sugli investimenti: “Quelli pubblici sono fondamentali, 3 miliardi l’anno mi sembrano un po’ pochini. Ben venga per esempio lo sblocco del Tap, fondamentale per la diversificazione nel nostro paese”.

Le grandi opere e le infrastrutture sono un altro nodo dolente. La piazza dei sì-Tav stracolma di gente a Torino è un segnale chiarissimo. Rosario De Luca, Presidente della Fondazione Studi Consulenti del lavoro, spiega: “Un imprenditore veneto ha bisogno di una rete viaria funzionante e che lo leghi all’Europa. Così rendiamo paese competitivo e creiamo lavoro. Penso a Tav e alla Pedemontana, per esempio. Se si fermano investimenti e infrastrutture siamo un paese bloccato”.

Un tema che si lega a quello del lavoro. Perché il già citato decreto dignità, tanto voluto da Di Maio, è un vero e proprio nodo dolente per la Lega e la sua ricerca di consenso in quel mondo. Agnelli su questo ci va giù durissimo: “Non è la legge che ci fa assumere a tempo indeterminato, ma le commesse che riceviamo. Se non ho lavoro prendo uno per un anno e vediamo come si muovono le cose. A me non interessano i contributi e gli sgravi, chi se ne frega, io voglio il lavoro”. Flavia Frittelloni, area Politiche del Lavoro e Welfare della Confcommercio di Roma, su questo è stata drammaticamente chiara in un incontro pubblico di qualche giorno fa: “In questo caos normativo e soprattutto dopo il reinserimento delle causali il mio consiglio agli imprenditori che ci chiedono lumi purtroppo è uno solo: fate contratti di soli 12 mesi”. Due suoi colleghi di due grandi città del nord non vogliono essere citati, ma la risposta è sostanzialmente la stessa: “È la stessa cosa che stiamo facendo noi, non c’è altra soluzione”.

I dirigenti leghisti girano il nord a spiegare che una risposta sarà la riforma della legge Fornero, che ai tanti pensionati corrisponderanno migliaia di nuovi assunti. Tacchella, che a breve farà i conti con il ricaduto empirico dell’enunciato, è scettico: “Tanti non saranno sostituiti. C’è sicuramente bisogno di ricambio. Ma non sarei sicuro che a un pensionato corrisponderà un giovane. Se oggi avessi bisogno di un modellista non potrei assumerlo, perché in Italia la professione non esiste più. Stiamo sbalinando. Non trovo uno nel tessile, sono sparite le scuole”.

L’ad di Carrera jeans fa un esempio che più chiaro non si può delle risposte che non stanno arrivando dal partito del “prima gli italiani”: “Zalando sta per aprire a Verona 100mila metri quadri magazzino perché vuole conquistare il mercato. Darà lavoro a magazzinieri e autisti. E il comune lo glorifica”. Per lui è una prospettiva distopica: “Per trecento magazzinieri e altrettanti autisti, manodopera di basso livello e di basso costo, non si sa quanti professionisti del settore chiuderanno. Mi dica lei se è un modello di sviluppo”.

La città di Romeo e Giulietta è un paradigma. Lì il centrodestra ufficiale ha sconfitto al ballottaggio il centrodestra alternativo di Flavio Tosi. Nonostante ciò anche su quei lidi lo scontento sta iniziando ad aver presa. Perché in manovra per quella galassia ci sono le briciole, mentre servivano soldi veri. Agnelli, bergamasco, mette in fila un po’ di dati: “Per noi il costo energia rispetto a quello europeo è dell’87% in più. Questo ti mette fuori gioco. Il costo del lavoro si attesta sull’11% in più di media, ma mette in mezzo paesi come Romania e Polonia, dove il rapporto è uno a quattro. Così noi non possiamo competere”.

Tanti non si vogliono esporre apertamente, ma il mood che inizia a girare con sempre più insistenza negli ambienti industriali e produttivi dal Rubicone in su si fa sempre più insistente. E recita più o meno così: Salvini scarichi Di Maio, perché l’unica speranza per noi è che ritorni un governo di centrodestra. Ma un centrodestra vero.

Fonte: huffingtonpost.it (qui)

Democrazia, Economia, Politica, Stati vs Europa

Previsioni Ue, Tria all’attacco: “Analisi non attenta e parziale della manovra. Dispiaciuto della loro défaillance”

“Le previsioni della Commissione europea relative al deficit italiano sono in netto contrasto con quelle del Governo italiano e derivano da un’analisi non attenta e parziale del Documento Programmatico di Bilancio, della legge di bilancio e dell’andamento dei conti pubblici italiani, nonostante le informazioni e i chiarimenti forniti dall’Italia”. Il ministro dell’Economia Giovanni Tria va all’attacco di Bruxelles dopo la pubblicazione delle stime d’autunno secondo cui il deficit/pil l’anno prossimo toccherà il 2,9% e nel 2020 sfonderà il tetto del 3 per cento. Il titolare del Tesoro in una nota ufficiale si dice “dispiaciuto” della “défaillance tecnica della Commissione”. “Rimane il fatto”, aggiunge, “che il Parlamento italiano ha autorizzato un deficit massimo del 2,4% per il 2019 che il Governo, quindi, è impegnato a rispettare”.

Il commissario europeo agli Affari Economici Pierre Moscovici poco prima, durante la conferenza stampa sulle previsioni d’autunno, aveva ammonito sul fatto che “la qualità del lavoro della Commissione Ue e la sua imparzialitànon possono essere messe in causa” per cui le stime di Bruxelles, diverse da quelle del governo italiano, “non devono prestarsi alla minima polemica“. “L’Italia non è stata oggetto di un trattamento particolare ma ha avuto lo stesso di tutti gli altri Paesi”, con cui “sono abituali scarti tra le previsioni”, ha detto il commissario. “L’Italia non è sola in questa situazione”, c’è già stata anche “con i governi precedenti”.

Moscovici ha spiegato che la differenza di stima sulla crescita 2019 (1,2% della Ue contro 1,5% del Governo) è dovuta al fatto che “le nostre stime sono più prudenti, come quelle delle altre organizzazioni internazionali”, e si basano sul deterioramento della situazione nel terzo trimestre e inizio del quarto. Sul deficit invece (2,9% della Ue contro 2,4% del Governo) “se togliamo gli arrotondamenti la differenza è solo 0,4%”, perché ci saranno meno entrate fiscali a causa della crescita più bassa e questo pesa per uno 0,2%. Inoltre, ci sono le spese maggiori per il servizio del debito, che aumentano dell’1% del Pil. “Questi scarti sono abituali tra le previsioni della Commissione e degli Stati, ed era già successo anche con il precedente Governo italiano”.

Fonte: ilfattoquotidiano.it (qui)

Economia, Politica, Stati vs Europa

Savona risponde a Draghi: «Fare scendere lo spread è compito della Bce»

“Ognuno si assuma le sue responsabilità”. Così il ministro per  gli Affari europei Paolo Savona, commenta, a margine del Consiglio dei ministri, le parole del presidente della Bce Mario Draghi, che ha ricordato come l’Eurotower non possa per mandato finanziare i deficit. Nessuno, per la verità, ha mai sostenuto una cosa simile. Ma, se la Bce non deve finanziarie i deficit, di cosa, alla fine, si deve occupare oltre che tenere sotto controllo il tasso di inflazione? Savona non ha dubbi: “Calmierare lo spread è compito della Banca centrale europea”.

“Sul condono fiscale Savona si dice poi convinto della buone ragioni del governo. “Perché non dovremmo farlo? È  una redistribuzione del reddito dai ricchi ai poveri”, azzarda il ministro.

“La vera scommessa – dice in conclusione Savona – ‘è che l’Italia, dopo aver fatto una serie di leggi che vincolano gli investimenti, deve uscire da questa situazione, la manovra presentata contiene un impegno politico in questo senso. Noi stiamo vivendo al di sotto delle risorse e per gli investimenti ci sono più risorse di quanto scritto nella manovra”.

Fonte: secoloditalia.it (qui)

Capitalismo, Economia, Globalizzazione, Imprese

Con la “fallita” liretta turca si portano via la Pernigotti. Chiude dopo 150 anni di storia. A casa 100 lavoratori.

I turchi Toksoz chiudono un pezzo dell’industria dolciaria italiana. Annunciati 100 licenziamenti.

È durata cinque generazioni, ma la storia di Pernigotti sembra essere arrivata al capolinea, dopo essere iniziata nel 1860, con l’apertura di una drogheria nel cuore di Novi Ligure.

Stefano Pernigotti ha poi dato vita ad una piccola fabbrica 8 anni dopo e nel 1882 l’azienda è diventata fornitore ufficiale del Re. Nel 900 diventa un simbolo dolciario, con la produzione degli storici giandujotti piemontesi e del torrone, dalla ricetta unica. Non è bastato. Nel 2013avviene il passaggio dello stabilimento di Novi Ligure dal gruppo italiano Averna a quello turco Toksoz, che aveva mostrato entusiasmo nell’assumerne la direzione. Ora l’annuncio del sindacato: le 100 persone ancora occupate nello stabilimento produttivo di Novi dovranno andare a casa. “L’amministratore delegato era accompagnato dai legali e ci ha comunicato che non sono interessati allo stabilimento. I pochi impiegati del settore commerciale che rimarranno saranno trasferiti a Milano”, hanno detto.

Pernigotti però non è l’unico caso di acquisizione: anche le calzature Lumberjack hanno richiamato l’interesse turco. L’azienda italiana fondata nel 1979 infatti è stata acquisita dal gruppo turco Ziylan nel 2012. Il Paese a metà tra Europa e Asia infatti ha iniziato a guardare sempre più all’Italia, con 100 milioni di euro di investimenti destinati alle aziende della Penisola, stanziati a partire dal 2014. Risale proprio all’aprile di quell’anno l’incontro “Destinazione Italia”, nel quale il Presidente dell’Unione delle Camere di commercio di Turchia aveva detto di prevedere investimenti turchi all’estero per quasi 100 miliardi di dollari indirizzati verso alcuni Paesi prescelti, tra i quali l’Italia. D’altronde, i brand italiani con la loro storia sono sempre risultati molto interessanti per le società turche, che invece sono ancora giovani e poco conosciute a livello di marchi.

Nonostante le aziende italiane che operano in Turchia siano molto più numerose delle aziende a capitale turco registrate in Italia, l’interesse degli imprenditori per il Belpaese è continuato e continua a crescere. In particolare, sono i settori del turismo, dei trasporti, dell’energia, delle tecnologie dell’informazione e del settore immobiliare ad attirare maggiormente gli investitori turchi. Ed in risposta a tale interesse Unicredit aveva lanciato insieme a YapiKredi, la controllata turca del gruppo bancario italiano, il portale virtuale Business Matching nel quale imprese italiane e turche avevano la possibilità di scegliersi per sviluppare nuovi business insieme.

Così l’azienda Falco di Codigoro, in provincia di Ferrara, è stata salvata dal gruppo turco Kastamonu Entegre, nel giugno 2017. E nell’aprile di quest’anno, la Sangalli Vetro di Manfredonia è stata acquisita dalla turca Sisecam, che già aveva acquisito lo stabilimento Sangalli di Porto Nogaro.

Fonte: quifinanza.it (qui)

America, Economia

Economia Usa, fiducia consumatori: indice Conference Board (in crescita) a 137,9. Effetto Trump.

 A ottobre, gli statunitensi si sono dimostrati più ottimisti sull’economia, sorprendendo gli analisti, anche se va detto che molti di costoro ”gravitano” nell’area politica del Partito Democratico, avendo molti gruppi finanziari di Wall Street finanziato la campagna elettorale della sconfitta Hillary Clinton, e quindi propensi a valutare negativamente, a ridosso delle elezioni di midterm, i dati economici per non valorizzare l’operato del presidente Trump e del Partito Repubblicano. L’indice sulla fiducia redatto mensilmente dal Conference Board, gruppo di ricerca privato, è salito dai 135,3 punti di settembre a 137,9 punti, mantenendosi a livelli visti l’ultima volta nel 2000, al colmo del boom economico Usa. I suddetti analisti attendevano un dato a 136,5 punti. La componente che misura le aspettative per il futuro è salita da 112,5 a 114,6 punti; quella sulla situazione attuale è salita da 169,4 a 172,8 punti. Risultato, il record da 18 anni a questa parte.

Fonte: SoldiOnline.it (qui)

Economia, Politica

Economia stagnante. Istat stima Pil invariato nel terzo trimestre. Salvini: “Rallenta perché quelli di prima obbedivano a Bruxelles, è motivo in più per tirare avanti”.

La crescita tendenziale è pari allo 0,8%. La variazione acquisita per il 2018 è pari a +1%. Si complica così il target del +1,2% nel 2018 fissato dal Governo.

Nel terzo trimestre del 2018 l’Istat stima che il Pil sia rimasto invariato rispetto al trimestre precedente, nei dati preliminari corretti per gli effetti di calendario e destagionalizzati. Un dato che delude le attese degli analisti, che si attendevano un +0,2%. Il tasso tendenziale di crescita è pari allo 0,8%. Il terzo trimestre del 2018 ha avuto due giornate lavorative in più rispetto al trimestre precedente e lo stesso numero rispetto al terzo trimestre del 2017.

La variazione acquisita per il 2018, che si otterrebbe in presenza di una variazione congiunturale nulla nell’ultimo trimestre dell’anno, è pari all’1%. Si complica quindi il target del +1,2% nel 2018 fissato dal Governo nella Nadef.

“Nel terzo trimestre del 2018 la dinamica dell’economia italiana è risultata stagnante, segnando una pausa nella tendenza espansiva in atto da oltre tre anni” commenta l’Istat. “Giunto dopo una fase di progressiva decelerazione della crescita, – continua l’istituto – tale risultato implica un abbassamento del tasso di crescita tendenziale del Pil, che passa allo 0,8%, dall’1,2% del secondo trimestre”.

Dopo la diffusione dei dati sul Pil lo spread tra Btp e Bund tedeschi risale deciso e recupera quota 310.

Le reazioni:

Conte: “L’avevamo previsto”.

“Vedrete che con la ‘manovra del popolo’ non solo il Pil ma anche la felicità dei cittadini si riprenderà”, con queste parole Luigi Di Maio ha commentato i dati Istat sul prodotto interno lordo dell’Italia. Si tratta di numeri non proprio confortanti: i dati, infatti, attestano lo stallo dell’economia italiana, contrariamente alle previsioni degli analisti che si aspettavano +0,2%. Ma il vicepremier è sicuro che con la manovra pensata dal governo gialloverde cambierà tutto. E l’evoluzione sarà tale che anche la gente sarà più felice.

Non è proprio della stessa idea Matteo Renzi che si è detto preoccupato per i dati Istat: “Dopo quattro anni di crescita, l’Italia si è bloccata. Per la prima volta dopo quattro anni il Pil torna a zero. Salvini e Di Maio stanno sfasciando l’Italia. Fermatevi! Paga il Popolo”. Per Di Maio, però, la colpa della mancata crescita sarebbe proprio del Pd: “A chi ci attacca, come il bugiardo seriale Renzi, ricordiamo che il risultato del 2018 dipende dalla Manovra approvata a dicembre 2017, che è targata Partito Democratico”, ha scritto sul blog delle Stelle. “Se il Pil rallenta perché quelli di prima obbedivano a Bruxelles è motivo in più per tirare avanti”, ha sostenuto Matteo Salvini.

Pessimista Carlo Cottarelli, direttore dell’Osservatorio sui conti pubblici della Cattolica: ha osservato che l’economia italiana non solo non raggiungerà la stima di crescita dell’1,2% nel 2018, indicata dal governo nella nota di aggiornamento al Def, ma difficilmente riuscirà a registrare nel 2019 una performance dell’1,5%.

Per Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria, il risultato diffuso dall’Istat era prevedibile: “L’abbiamo detto da tempo, l’economia globale comincia a rallentare c’è una questione interna di un’Italia che deve reagire – ha sostenuto – (..) è colpa esclusiva di questo governo e della politica economica che realizza, non di altre. Noi siamo a disposizione del paese e del governo per fare proposte intelligenti e di buon senso che non antepongano questioni ideologiche alle spiegazioni economiche di un grande paese come l’Italia”.

Per il premier Conte i dati sul Pil non sono una sorpresa. Il governo, ha sostenuto a margine dei lavori del Tech Summit, aveva previsto un arresto della crescita e per questo ha messo a punto la manovra ‘del popolo’: “È uno stop congiunturale, l’avevamo previsto. Per questo abbiamo deciso una manovra espansiva. La manovra mira a invertire questo trend”.

Fonte: huffingtonpost.it (qui) e (qui)