Economia, Sovranità monetaria

FT: «Ha ragione la MMT»

E’ dal 2010 che sostengo la teoria MMT. Ho conosciuto Mosler nel giugno 2013 ad un convegno organizzato a Cantù (qui), ma ancor prima il tenace Paolo Barnard che per altro invitammo a Montichiari nel novembre 2013 proprio per un incontro sull’euroschiavitù. In questi giorni è arrivata la conferma di quanto già sosteniamo da quasi dieci anni.

Buona lettura.

Un articolo uscito ieri [17 gennaio 2019] sul blog Alphaville del Financial Times sdogana definitivamente e senza mezzi termini la teoria monetaria moderna (#MMT). Anche su questo, insomma, avevamo ragione noi:

«Non c’è nulla di intrinsecamente socialista per ciò che riguarda il debito pubblico. Un governo può emettere debito per pagare qualunque cosa gli piaccia: per combattere una guerra, per abbassare le tasse, per attutire gli effetti di una recessione. Gli Stati Uniti, per esempio, hanno sempre emesso debito per pagare per queste cose. I politici dicono che il debito pubblico spiazza gli investimenti privati, che è insostenibile e trasformerà il paese che ne fa uso nell’Argentina, nella Grecia o nel Venezuela. Ma indipendentemente da ciò che dicono, i politici americani finiscono sempre per fare ricorso al debito.

I sostenitori della moderna teoria monetaria sostengono che, per un paese sovrano che dispone della propria valuta, non esiste un livello intrinsecamente insostenibile di debito pubblico, sarebbe a dire che non esiste un livello oltre il quale il paese inizia crollare, che sia il 90 per cento o il 200 per cento del PIL. In qualunque momento il governo può appropriarsi delle risorse che ritiene necessarie per finanziare le sue politiche domestiche, indipendentemente dalle entrate.

Un tradizionalista considererebbe tale politica intrinsecamente inflazionistica, sostenendo che, come per qualunque altra merce, aumentare l’offerta di denaro ne riduce il valore. I sostenitori della teoria monetaria moderna sostengono invece che l’inflazione si verifica solo quando l’economia reale – gli impianti, le macchine, i lavoratori – non sono più in grado di assorbire la spesa del governo. Di conseguenza, la spesa va disaccoppiata dalla tassazione. Un governo può spendere finché non sono impiegate tutte le risorse reali di una economia e ricorrere alle tasse solo per raffreddare l’inflazione, una volta che l’economia raggiunge il suo massimo potenziale.

Noi di FT Alphavile riteniamo che [la teoria monetaria moderna] non sia né marxista, né bislacca. È semplicemente un modo diverso di guardare alla politica fiscale, un modo per descrivere i vincoli reali alla spesa pubblica. A ben vedere, il modo in cui la MMT guarda alla spesa pubblica è molto vicino a come i politici di Washington guardano alla spesa pubblica. Attenzione: non stiamo parlando di ciò che dicono, ma di quello che fanno.

Il Congresso degli Stati Uniti spende regolarmente in deficit per le cose che ritiene importanti. Negli ultimi quarant’anni, ha coperto la propria spesa con le tasse solo per un breve periodo, alla fine degli anni Novanta. … Esattamente come sostiene la teoria monetaria moderna, il Congresso spende finché le risorse reali non scarseggiano [cioè finché non viene raggiunto il limite oltre il quale si genererebbe inflazione]. Quel limite non è mai stato raggiunto negli ultimi due decenni.

Quando Washington vuole qualcosa – combattere una guerra, tagliare le tasse – autorizza la spesa necessaria e basta, senza preoccuparsi delle entrate. Dunque le discussioni sulla necessità di pareggiare il bilancio non riguardano i vincoli finanziari ma le priorità. I programmi ritenuti importanti vengono finanziati, sempre e comunque. I programmi che non sono ritenuti importanti devono essere finanziati con le tasse. Quando qualcuno a Washington dice: «Non possiamo permettercelo» in realtà intende «Non penso che sia importante».

In altre parole, [i politici americani] già seguono le prescrizioni della teoria monetaria moderna, anche se non lo ammettono».

Definitivo direi.

Fonte: lantidiplomatico.it (qui) Articolo di Thomas Fazi

Fonte: FT.com (qui)

Economia, Politica, Sovranità monetaria

Per salvarci da quest’Europa serve una moneta parallela e poi… addio euro (di Becchi e Zibordi)

Una famiglia o un’impresa per procurarsi più denaro deve lavorare o fatturare di più. Se un privato ha scarsità di soldi deve convincere un altro privato o un ente pubblico a spendere di più. Considerando l’insieme delle famiglie e delle imprese di un Paese, quando qualcuno incassa di più qualcun altro si ritroverà con meno soldi e quando qualcuno taglia le spese qualcun altro incassa di meno. Come si fa allora a far circolare più denaro nell’economia?

L’unico modo è che lo Stato, tramite la Banca Centrale e le banche ordinarie, metta in circolo denaro fresco. Le Banche Centrali possono crearlo dal niente senza debito, quelle ordinarie lo creano anche loro, ma sottoforma di debito da restituire. La prova che sia così è il denaro nei conti correnti che aumenta sempre, oggi è di circa 2 mila miliardi in Italia e una generazione fa era intorno a 500 miliardi per cui evidentemente qualcuno lo ha creato.

Se lo Stato però non crea denaro, perché tassa di più di quello che spende e allo stesso tempo le banche tagliano drasticamente il credito, allora l’economia frana. Questo è proprio quello che è successo in Italia: le tasse sono aumentate, soprattutto grazie a Monti, di circa 40 miliardi e il credito è stato tagliato di circa 180 miliardi. Sono venuti a mancare circa 200 miliardi e la produzione industriale è crollata e ancora oggi è del 20% inferiore ai livelli del 2007. Tagliando il credito alle imprese le banche hanno aggravato la situazione.

FISCAL COMPACT

Sottostare alle regole del Fiscal Compact, come l’Italia sinora ha fatto, è una strada senza uscita, che aggrava il suo declino. Lo Stato italiano deve invece tornare ad emettere moneta come fanno gli altri Stati indipendenti e se non può farlo tramite Bankitalia (la propria Banca Centrale) deve farlo emettendo una moneta parallela, visto che ritornare alla lira al momento è escluso dalle forze politiche al governo.

Quando si parla di una seconda moneta parallela all’euro – che siano gli accenni alle “Am Lire” di Berlusconi, la moneta fiscale di cui parlavano un tempo alcuni economisti vicini a Grillo o i “miniBot” della Lega, i quali sono persino nel contratto di governo, anche se nessuno più ne parla – si incontra subito l’obiezione che il problema vero in Italia non è la moneta ma l’inefficienza, lo spreco, la produttività, la corruzione e l’evasione fiscale. La spiegazione più diffusa è che siamo diventati meno produttivi ed è per questo che non ci possiamo permettere deficit maggiori, come ad esempio i francesi.

In Francia hanno tenuto deficit pubblici più alti dei nostri e le banche hanno continuato a creare credito mentre in Italia da dieci anni lo hanno ridotto. Il debito di famiglie e imprese in Francia è però il 233% del Pil e in Italia il 169%, molto più basso. Anche se si considera il debito pubblico, la Francia ha il 100% del Pil e noi il 133% per cui sommando debito pubblico e privato la Francia è più indebitata di noi. Inoltre l’Italia continua ad esportare bene ed ha un surplus estero del 2% del Pil, mentre la Francia ha un deficit estero del 2%. E la produzione industriale italiana resta anche oggi maggiore di quella francese. Non sembra quindi che siamo diventati di colpo meno “produttivi” dei francesi.

LE IMPRESE DEL NORD

Il fatto che in Italia ci sia spreco di denaro pubblico e tanti settori della Pa siano inefficienti non impedisce, oggi come venti anni fa, alle Pmi del Nord di esportare e produrre. Quello che le ammazza non è la corruzione ma sono le troppe tasse e il taglio del credito. L’Italia è penalizzata in Europa perché l’unico debito che conta è quello pubblico, e non quello privato. Questa regola è stata promossa da Paesi che hanno molto più debito privato, come appunto la Francia. Questa situazione, a noi svantaggiosa, giustifica che si cerchi una soluzione senza aspettare il consenso dell’Ue e l’unica soluzione praticabile è quella di creare in Italia una moneta parallela all’euro. L’idea è essenzialmente quella di emettere agevolazioni fiscali, simili a quelli per le ristrutturazioni edilizie, ma trasferibili e non vincolati ad una attività come rifare una casa. Lo Stato potrebbe emettere una certa quantità di denaro e usarla per ridurre le tasse. L’ufficio studi di Mediobanca nel 2016 in un suo studio aveva sponsorizzato l’idea parlando di emettere crediti o agevolazioni fiscali per 40 miliardi. Ogni lavoratore e impresa riceverebbe su una carta di credito ad hoc alcune migliaia di euro di agevolazioni fiscali, utilizzabili con un ritardo di uno o due anni e nel frattempo la gente le userebbe come una sorta di denaro. L’effetto sarebbe quello di introdurre denaro fresco nell’economia. Nel “contratto” tra Lega e M5S c’è la proposta dei “miniBot” che va in questa direzione. Si tratta di emettere Bot che vengono accettati per pagare le tasse con cui saldare i debiti accumulati dalla pubblica amministrazione verso le imprese.

Questa idee, qui solo abbozzate, vanno certo spiegate nel dettaglio. Venerdì 23 novembre a Roma presso l’Aula dei gruppi parlamentari si è svolto un incontro con diversi esperti che ha avuto un grande successo di pubblico. Segno che c’è la volontà di trovare soluzioni che possano aiutare l’Italia a difendersi dagli attacchi provenienti da Bruxelles.

Fonte: Blog di Paolo Becchi (qui) – Articolo di Paolo Becchi e Giovanni Zibordi su Libero, 24/11/2018

Politica, Sovranità monetaria, Svizzera

La Svizzera nell’UE? Juncker: “non mi faccio più illusioni: gli svizzeri non rinunceranno alla loro sovranità”. Scoprite perchè.

Juncker: “gli svizzeri non rinunceranno alla loro sovranità”.

Il presidente della Commissione UE alla TSR: “Berna si sbrighi a trattare con l’Europa” – E sul nostro cantone: “Continuerò a voler bene ai ticinesi anche se non mi è piaciuto quando hanno votato a destra”

Jean-Claude Juncker, reduce dalla plenaria di Strasburgo, giovedì, intervistato dalla televisione romanda RTS, ha affermato che la Svizzera deve trovare presto “un’intesa d’insieme” con l’Unione europea perché “il tempo stringe”. “Negoziate e concludete con me: entro un anno – ha specificato – non ci sarò più e vedrete”. C’è di mezzo anche la Brexit e la difficile trattativa con la Gran Bretagna: “Non vogliamo che i negoziati si accavallino”. Ma la Svizzera un giorno potrebbe ancora entrare nell’Unione Europea? “Un tempo – ha proseguito Juncker – credevo di sì, ma non mi faccio più illusioni: gli svizzeri non rinunceranno alla loro sovranità”. In conclusione un accenno al Ticino, dove l’alto funzionario europeo è stato spesso in passato: “Continuerò a voler bene ai ticinesi – ha chiosato – anche se non mi è piaciuto quando hanno votato a destra”.

La sovranità monetaria spiegata dagli svizzeri (del 23 febbraio 2015)

Aspettavo con una certa curiosità di rileggere Thomas Jordan, chairman del board della banca centrale svizzera, dopo la decisione del 15 gennaio con la quale l’autorità monetaria ha annunciato che non avrebbe più difeso il regime di cambio con l’euro, fissato anni fa a 1,20 franchi. Decisione che, lo ricorderete, ha alimentato diverse discussioni per alcuni giorni, conducendo peraltro la valuta elvetica a una sostanziale parità con l’euro.

Aspettavo, quindi, curioso di conoscere la versione di Jordan, dopo essermi sciroppata quella di mezzo mondo. E finalmente ho pescato uno speech che il governatore ha tenuto a Bruxelles il 17 gennaio, quindi a caldo: appena due giorni dopo l’annuncio della fine del cambio fisso. Il titolo poi era estremamente suggestivo: “Switzerland at the heart of Europe – between independence and interdependence”.

Già. La Svizzera è il paese più citato dai sovranisti per la sua capacità di vivere, e pure bene, in un contesto globalizzato. La sua indipendenza, che tante invidie le provoca, coesiste con una profonda interdipendenza con il sistema finanziario globale, essendo la Svizzera una economia aperta – pensate solo alle sue banche – e inserita a pieno titolo, con la sua moneta, nel grande gioco valutario.

Il franco svizzero, come tutte le le monete, rappresenta l’interfaccia finanziaria e commerciale della Svizzera col resto del mondo. Il suo stato di salute, perciò, e le modalità con le quali la banca centrale lo gestisce, può dirci molto sulle modalità in cui uno stato sovrano possa sopravvivere (e pure bene) in un contesto globale.

Decido perciò di ascoltare con tutta l’umiltà di cui dispongo l’allocuzione di Jordan, che mi sembra un’utile lezione di politica monetaria a uso mio e dei sovranisti, che magari ne faranno tesoro.

La prima cosa che mi salta all’occhio è la considerazione che, proprio in virtù del suo essere un’economia aperta, la Svizzera a volte “è stata soggetta a grandi shock valutari”. “Non essendo parte di un largo mercato interno – sottolinea – la Svizzera è particolarmente dipendente dai mercati internazionali”. Piccolo è bello, insomma, salvo ricordarsi questo caveat.

E anche un altro: “La Svizzera è conosciuta come un paese con uno dei più alti tenori di vita al mondo, ma ciò non va considerato come acquisito: è una sfida costante raggiungere e mantenere il progresso sociale”.

Quindi, piccolo è bello, a patto di essere capaci di conquistarsi ogni giorno questo privilegio.

A tal proposito, Jordan ci ricorda che la Svizzera dispone di una valuta che gioca, nel sistema globale, un ruolo assai più rilevante del peso specifico espresso dalla taglia economica del paese. Ciò deriva dallo stato di safe haven di cui gode il paradiso elevetico, indice, sottolinea Jordan “della stabilità di cui gode il Paese”.

La stabilità, quindi, è il secondo caveat.

Poi certo, a volte si può esser vittime del proprio successo. E infatti la Svizzera, dopo l’agosto 2007, quando i sub prime americani iniziavano già a scuotere il mondo, ha visto il franco apprezzarsi, e mano  a mano crescere la pressione sul cambio dopo il crack Lehman e, peggio ancora, dopo la crisi dell’euro del 2010-11. “Come conseguenza enormi flussi finanziaria in cerca di rifugio si sono riversati sul franco”. Dall’agosto del 2007 a quello del 2011, la moneta svizzera si è apprezzata del 40% in termini reali. I rendimenti sul debito svizzero a breve termine sono diventati negativi e tale è rimasto sin da allora.

Ciò spiega perché “di fronte a tali drammatici sviluppi” la SNB ha introdotto la soglia minima di 1,20 franchi per un euro il 6 settembre 2011 tenuta fino al 15 gennaio scorso, pure al prezzo di una notevole espansione el bilancio della banca centrale. E anche perché la SNB ha deciso di recedere da questa politica.

“La ragione di questa scelta va ricercata nel contesto internazionale – spiega Jordan – essendo divenuto evidente la divergenza di politica monetaria fra la Bce e la Fed”, espansionaria la prima e probabilmente contrazionaria la seconda.

In queste condizioni “le pressioni sul tasso minimo di cambio si sono intensificate enormemente, in particolare all’inizio del 2015, divenendo perciò insostenibile. La Snb non ha potuto far altro che disconoscere la propria policy”.

Quindi piccolo è bello, a parte di saperselo guadagnare e di non scommettere contro i grandi. Il rischio per la SNB era quello di “perdere il controllo del proprio bilancio”, già enorme, che “avrebbe potuto raddoppiarsi in pochi mesi” se i  banchieri centrali non avesero agito”.

“Come conseguenza adesso l’economia svizzera deve fare i conti con un tasso di cambio molto difficile e in un mondo interdipendente, dove i capitali circolano liberamente, la forza della Svizzera può facilmente diventare un fattore maggiormente sfidante”.

La storia della Svizzera, dove al rifiuto di cedere sovranità, in qualunque forma, si è sempre associato una notevole apertura nei commerci e nelle finanze, rende questa sfida particolarmente complicata, osserva Jordan. Finora il Paese ha retto l’urto della crisi grazie alla sua domanda interna e agli sviluppi positivi del suo mercato immobiliare, che in qualche modo hanno compensato il trauma subito dai suoi scambi internazionali. L’export si è dimostrato resiliente, grazie anche alle scelte di politica monetaria che hanno impedito un apprezzamento del franco superiore a quello già eccessivo registrato. Un quadro che ora diventa più complicato dagli attuali sviluppi, potendo però la Svizzera contare su un quadro d’insieme che espone alcuni punti forti.

Jordan ne elenca alcuni: la struttura innovativa e diversificata del settore produttivo che esporta, per cominciare: l’ammontare dei beni che la Svizzera esporta all’estero equivale a circa la metà del prodotto domestico lordo. Di questo, circa un terzo sono servizi. Per mantenere questa quota di export, il settore tradable è stato interessato da notevoli cambiamenti strutturali. Il farmaceutico, ad esempio, è cresciuto di importanza a scapito del manifatturiero.

Inoltre i settori sono stati riorganizzati al loro interno, sia nei prodotti che nei processi. E poi sono cambiati anche i mercati di riferimento. “Gli esportatori svizzeri si sono concentrati su Cina e Stati Uniti e altre economia emergenti, mentre hanno fatto meno affidamento sui mercati tradizionali come Germania, Francia e Italia”. E tuttavia “gli esportatori svizzeri rimangono fortemente dipendenti dal mercato europeo, che assorbe tuttora più della metà della produzione svizzera”. Ciò spiega perché la crisi dei debiti sovrani abbia messo a dura prova la tenuta dell’economia elvetica.

Un altro supporto della tenuta dell’economia, spiega ancora, è stato il mercato del lavoro flessibile che combina una “scarsa protezione contro il licenziamento con un generoso un sistema di assicurazione contro la disoccupazione”. A ciò si aggiunga una legislazione favorevole al lavoro short-time, quindi una sorta di mini job, che, sottolinea “è un vantaggio cruciale”, così come anche le buone relazioni fra datori di lavoro e lavoratori, orientate verso negoziazioni di tipo consensuale.

Non finisce qui. La Svizzera ha sempre potuto contare anche una politica fiscale robusta, quindi con poco deficit e debito pubblico. “Durante la crisi lo stato salubre delle finanze pubbliche ha permesso di attivare gli stabilizzatori automatici, che hanno supportato l’economia senza minare la stabilità fiscale di medio termine”. Quindi non sono state necessarie misura di austerità né aumenti di tasse per contrastare l’effetto depressionario della crisi. Ciò ha avuto effetti positivi sulla ricchezza delle famiglie e quindi sul consumo interno e la sulla fiducia.

Da ciò ne consegue che le scelte di politica monetaria continueranno ad essere fatte – la SNB ha annunciato che rimarrà attiva nel mercato dei cambi – ogni qual volta si riterrà necessario. Ma con una premessa: “Oggi più che mai l’economia deve concentrarsi sui suoi elementi strutturali di forza e di flessibilità per assicurare la sua competitività internazionale e la sua prosperità”. Insomma: da sola la politica monetaria indipendente non basta: serve un’economia robusta alle spalle.

I sovranisti, perciò, dovrebbero far tesoro di quel che serva per giocare da vincitori la partita della globalizzazione conservando la propria indipendenza monetaria: una struttura produttiva di qualità e flessibile, mercato del lavoro compreso, che favorisce positivi scambi commerciali con l’estero, spesa governativa sotto controllo e settore bancario robusto, o quantomeno scaltro. Aiuta, certo, avere alle spalle anche un lunga tradizione di stabilità politica ed economica, garanzie di credibilità e generatrici di fiducia.

Insomma: bisogna essere svizzeri. O almeno somigliar loro un pochetto. Ma non è detto che basti.

E gli svizzeri, come abbiamo visto, sono i primi a saperlo.

 

Fonte: Corriere del Ticino (qui) e thewalkingdebt.org (qui)