Europa, Federalismo, Politica, Sovranità

La strada è quella di un sovranismo debole, federalista. Mentre con l’Europa è necessario ripensare la nostra appartenenza in modo diverso da come è stato fino ad ora.

 

Dal Convegno dell’Associazione Aletheia organizzato lo scorso 2 febbraio 2019 gli intervento del Prof. Becchi. Il titolo del convegno è stata “Chi comanda a casa nostra?”.

Il Prof. Becchi affronta il tema del rapporto tra Costituzione italiana e Trattati europei (di Maastricht e di Lisbona), ma parte del suoi interventi indagano anche sul tema dell’appartenenza fino a evidenziare che si debba ricercare il sovranismo e con la particolare situazione italiana, che ha le caratteristiche di un laboratorio politico, può emergere un particolare sovrasmo debole e federalista, di Johannes Althusius (qui). Un sovranismo che non può essere forte, ma per le caratteristiche di chi Governa il Paese, esprimono oggi due sovranismi quello identitario della Lega (un tempo secessionistico) e quello solidaristico del Movimento 5 Stelle.

Conclude con un accenno alle prossime elezioni europee laddove ad oggi tutti i principali partiti affrontano il tema Europa con la medesima proposta politica ovvero che l’Europa deve cambiare, ma nessuno affronta il tema nodale, e cioè la necessità che si imponga un manifesto per la difesa delle identità dei popoli europei e una necessaria revisione del modello di appartenenza all’Europa.

Economia, Gran Bretagna, Lavoro, Occupazione

Economia britannica, Disoccupazione al 4%, minimo da febbraio 1975. C’è piena occupazione fuori dall’euro.

Il mercato del lavoro britannico si è teso ulteriormente all’inizio del 2019, malgrado le prove di un diffuso rallentamento di un’economia sotto pressione per le incertezze della Brexit e i timori per i commerci globali.

Il tasso di disoccupazione britannico è rimasto stabile al minimo pluridecennale, mentre l’inflazione dei compensi, compresi i bonus, è rimasta invariata, secondo i dati ufficiali di questo martedì.

Il tasso di disoccupazione è rimasto invariato al 4,0% nel trimestre terminato a dicembre, in linea con le aspettative. Si tratta del minimo dal febbraio 1975.

Il numero di persone occupate nel Regno Unito è salito di 167.000 unità, più delle 152.000 previste.

Il numero delle richieste di sussidio, ossia della variazione nel numero delle persone che chiedono un sussidio di disoccupazione, è salito di 14.200 unità a gennaio dalle 20.800 di dicembre.

Gli economisti si aspettavano un incremento di 12.300 unità.

I compensi medi, esclusi i bonus, continuano a salire al tasso più rapido dalla crisi finanziaria di oltre 10 anni fa, schizzando del 3,4% nel trimestre terminato a dicembre. Il dato è in linea con le previsioni e col tasso rivisto di novembre.

Compresi i bonus, la crescita dei compensi è salita al tasso annuo del 3,4%, meno delle aspettative di un aumento del 3,5%. A novembre aveva registrato +3,4%.

La Banca d’Inghilterra ha parlato dell’aumento dei compensi e della sua pressione rialzista sull’inflazione dei prezzi al consumo per giustificare la necessità di alzare i tassi di interesse gradualmente, ma l’incremento dell’incertezza per quanto riguarda l’esito delle trattative sulla Brexit con l’Unione Europea ha convinto la banca centrale a non intervenire.

Nell’ultimo aggiornamento delle sue previsioni, la banca ha tagliato le stime di crescita britannica per via della Brexit e del rallentamento dell’economia globale. Gli analisti affermano che le ultime previsioni implicano due aumenti di un quarto di punto nei prossimi due anni, uno in meno rispetto a quanto stimato a novembre.

Nell’eventualità di una Brexit senza accordo, l’economista della BoE Gertjan Vlieghe ha affermato di aspettarsi che la BoE lasci i tassi invariati per un periodo più lungo o che possa persino tagliarli per supportare l’economia.

Fonte: Investing.it

Concorrenza sleale, Economia, Unione Europea

Paesi Europei dell’Est: la concorrenza sleale che danneggia l’Italia

ROMA – “Lascio l’Italia e ritorno in Polonia perché ormai qui non ho più lavoro e come me sono andati via, negli ultimi quattro anni, moltissimi polacchi. Il nostro Paese è in forte crescita e abbiamo speranza di ricostruirci una vita”. La storia di Magda Gyzov, una donna polacca di quarant’anni che, dopo diciotto anni vissuti in una piccola cittadina alle porte di Roma, ha deciso di lasciare l’Italia per ritornare in Polonia, è una storia che fa luce sulle molte contraddizioni di un’Europa che sta creando enormi squilibri all’interno degli stessi Paesi membri.

Ma cosa è accaduto negli ultimi venti anni per cui Paesi come l’Italia o la Spagna che hanno vissuto una forte immigrazione di persone che provenivano dall’Est Europa, ora vengono sorpassate proprio da quegli stessi paesi dell’Europa orientale da cui milioni di persone erano andate via?

È accaduto che dalla fine degli anni ‘80, con la caduta del muro di Berlino, la Germania ha puntato il suo sguardo verso i Paesi centrali e dell’Est (PECO – Paesi dell’Europa Centrale e Orientale) e con la fine dell’Unione Sovietica avvenuta nel 1991 ha fatto leva sulla sua forza economica per diventare la testa di ponte di una nuova egemonia in un’area che va dalla Repubblica Ceca all’Austria, all’Olanda, alle Repubbliche Baltiche, all’Ungheria, Polonia, Croazia, Slovenia e Slovacchia.

È accaduto poi che paesi come l’Italia, la Francia, la Spagna hanno anche dato il lasciapassare perché ciò accadesse dando il via libera ad una diminuzione di finanziamenti europei verso l’area del Mediterraneo a tutto vantaggio verso le aree di interesse della Germania.

Già negli anni ‘90 il Consiglio d’Europa ridusse del 35% i finanziamenti verso i Paesi Mediterranei proposti dalla Commissione per il periodo 1992-1996 incrementandoli verso la zona est-europea. Ma questi aiuti sono poi aumentati di anno in anno.

Il caso Polonia

Un esempio per tutti è proprio quanto accaduto in Polonia, paese confinante con la Germania e quindi strategico per l’apertura di nuovi mercati economici e finanziari verso la zona est europea. Il Paese è soprannominato la regina dell’Est ed è lo Stato che più di tutti ha beneficiato di una pioggia di aiuti europei dal 1989 ad oggi.

  • Nel 2004-2006 ha ricevuto circa 14,2 mld di euro dei quali 5,2 mld sono stati utilizzati per l’ammodernamento della rete dei trasporti che, sottosviluppata, aumentava i costi delle merci. Geograficamente la Polonia è il punto di passaggio per tutte le merci in transito fra Russia, Bielorussia, Ucraina e i tre stati balcanici con il resto dell’Europa.
  • Nel quinquennio 2007-2013 ha ricevuto dall’Unione Europea 81,2 miliardi di Euro. Nel bilancio europeo 2007-2013 la priorità dell’UE è stata quella di riavvicinare gli standard di vita dei nuovi Stati membri alla media europea.

Questa pioggia di aiuti finanziari dell’Unione Europa hanno permesso una forte crescita in termini di aumento delle infrastrutture, calo della disoccupazione e aumento dell’export. Oggi la Polonia è un paese in fortissima crescita. È la più grande economia orientale dell’UE e la produttività è seconda solo al Giappone. Attira il maggior numero di investimenti stranieri e sono presenti grandi multinazionali come la Hyundai, la Volkswagen, la Peugeot, la Nestlé e molte aziende italiane come la Fiat, l’Unicredit, la Ferrero, la Indesit, la Mapei. Multinazionali attirate dalle condizioni vantaggiose e da un salario mensile lordo di €881. La crescita del Pil è stata del 5,4 % (2004-2008) e del 2,2% nel 2013 a causa della crisi dell’area euro mentre la disoccupazione si è dimezzata in 10 anni passando dal 15,2% nel 2004, anno di ingresso nell’UE, al 7,7% nel 2014. Si calcola che grazie ai fondi europei sono stato creati, tra il 2004-2006, 320mila nuovi posti di lavoro (il 38% del totale) e che le imprese sono cresciute del 58%.

In totale sono state aiutate 2,6 milioni di polacchi grazie all’Unione Europea. E, ancora, sono stati creati sessanta nuovi parchi industriali e scientifici e oggi la Polonia è ancora un cantiere in costruzione. È l’unico paese dell’UE a non essere mai entrato in recessione dal 2008 e vanta anche un debito pubblico molto basso pari al 50,1% del Pil nel 2014.

Con questi numeri è facile immaginare perché la Polonia sia diventata meta di migranti. E non solo di polacchi che ritornano in patria, ma anche di giovani qualificati dell’Europa meridionale schiacciata dal debito, dalla recessione e dall’iper-rigore alla tedesca. Varsavia è considerata la nuova Berlino.

Non solo, dunque, cresce l’Europa del Nord, ma anche quella dell’Est entrata a far parte in blocco in Europa nel 2004 grazie alla enorme spinta politica della Germania. In quell’anno l’Unione Europea inglobò l’Estonia, la Lettonia, la Lituania, la Polonia, la Repubblica Ceca, la Slovacchia, la Slovenia e l’Ungheria oltre a Malta e Cipro dell’area Mediterranea. In un sol colpo entrarono a far parte dell’Unione Europea ben otto paesi dell’Est spalancando così le porte ad una valanga di soldi, presi ovviamente dai contribuenti di tutti i paesi europei, e destinati alla rinascita di questi paesi. Ma ciò che risulta inaccettabile è che questi aiuti sono stati elargiti senza obbligare i paesi a sottoscrivere memorandum o politiche di austerità poiché, non facendo parte dell’Eurozona, non sono sottoposti ai vincoli della BCE.

Concorrenza sleale a danno delle nostre economie

E cosa significa tutto questo? Significa che in Europa si è creata una situazione di concorrenza sleale per cui viene avvantaggiata enormemente un’area a totale discapito di altre aree.

I paesi dell’Est d’Europa sono stati trasformati dalle multinazionali europee in un processo di delocalizzazione industriale e produttiva in cui si realizza a basso costo del lavoro. In tal maniera una parte del tessuto industriale dell’Europa Mediterranea si è delocalizzata verso nuove aree d’integrazione dell’Unione Europea, dell’Est Europa o verso il centro dell’Europa.

Il caso Electrolux

Il caso emblematico avvenuto in Italia della multinazionale svedese Electrolux chiarisce molto bene quello che sta accadendo. Nel 2014 l’azienda minaccia di chiudere uno dei quattro stabilimenti con sede in Italia per trasferire la produzione in Polonia poiché, come spiega l’amministratore delegato, Ernesto Ferrario, durante un’audizione al Senato “Il divario crescente di competitività rispetto a Polonia e Romania ha portato una migrazione di volumi di circa il 60% che vengono prodotti nell’Est Europa. Questo riguarda un fenomeno progressivo che non vede un arresto. In Francia e Spagna è quasi scomparsa la produzione dell’elettrodomestico, quindi il fenomeno è abbastanza chiaro”. Insomma, la differenza di costo di 30 Euro tra una lavatrice prodotta in Italia e la stessa lavatrice prodotta in Polonia, legittima l’azienda a minacciare i lavoratori italiani ad un taglio drastico dei salari di circa 130 Euro al mese attraverso la riduzione delle ore lavorate da otto a sei, il blocco dei pagamenti delle festività, la riduzione del 50% delle pause e dei permessi sindacali e lo stop agli scatti di anzianità. Tutte misure che si chiede vengano applicate ai quattro stabilimenti italiani. A conti fatti, bisogna lavorare di più per aumentare la produzione e guadagnare di meno. Insomma, il conto della concorrenza sleale, frutto di una politica che viene da lontano e che ha messo l’uno contro l’altro paesi Europei, viene presentata ai lavoratori che devono farsi carico dell’enorme differenza del costo dei salari tra un Paese Europeo che fa parte dell’eurozona e un Paese Europeo che invece è fuori dall’Eurozona, come appunto la Polonia. E la politica che dovrebbe assumere quel ruolo nobile e importante di essere al servizio della collettività per tutelarla, resta schiacciata dagli interessi delle multinazionali al punto che nei giorni in cui aumentò la protesta dei dipendenti dell’Electrolux che non ci stavano ai ricatti dell’azienda, l’allora Ministro dello Sviluppo Economico Flavio Zanonato dichiarò che: “I prodotti italiani nel campo dell’elettrodomestico sono di buona qualità ma risentono dei costi produttivi, soprattutto per quanto riguarda il lavoro, che sono al di sopra di quelli che offrono i nostri concorrenti: è necessario dunque ridurre i costi di produzione”. A maggio 2014 la dura battaglia avviata dai sindacati chiuse la vertenza Electrolux con un accordo che sarà accettato dall’80% dei lavoratori e in base al quale resterà aperto lo stabilimento di Porcia in provincia di Pordenone a fronte di una riduzione dei permessi sindacali del 60%, alla decontribuzione dei contratti di solidarietà, a finanziamenti per la ricerca e a una maggiore flessibilità del lavoro. L’obiettivo dell’accordo è abbattere di 3 euro l’ora i costi degli impianti, in modo da renderli competitivi con quelli polacchi, come richiesto dall’azienda per non de-localizzare. La forte mobilitazione dei lavoratori insieme all’attenzione della Regione Friuli-Venezia Giulia hanno comunque consentito il raggiungimento di un risultato a metà strada tra le richieste dei lavoratori e quelle dell’azienda. Fatto sta che i dipendenti si sono dovuti in gran parte adeguare alle condizioni imposte dall’azienda poiché la concorrenza che arriva dai paesi dell’Est è talmente forte che, in un libero mercato, non ci sono strade alternative che sottomettersi alla logica del capitalismo.

Aiuti europei insieme a riforme strutturali hanno permesso alla Polonia di raggiungere dei livelli di benessere molto elevati, scalzando addirittura la Gran Bretagna in alcuni settori come l’istruzione. Ma oltre alla Polonia chi è il Paese che ha più beneficiato di questa crescita? Ovviamente la Germania che è diventato il principale partner economico, commerciale e industriale della Polonia a scapito della Russia con un interscambio pari a 37,10 mld di Euro contro la Russia pari a 11,76 mld di Euro. Ma la Germania è anche il primo partner per l’Ungheria, la Repubblica Ceca e le Repubbliche Baltiche. Dunque, Berlino gode indirettamente degli aiuti che l’Unione concede a Varsavia, che ritornano in territorio tedesco sotto forma di ordini commerciali e commesse. E ora la strategia della Merkel sembrerebbe essere quella di compattare i paesi della Nuova Europa intorno alla centralità del ruolo tedesco nell’UE soprattutto perché in diversi paesi dell’Europa dell’est sta crescendo la convinzione che l’avvenire economico non sia più indissolubilmente legato all’UE, soprattutto in seguito alla crisi economica.

Fonte: Tiziana Alterio

Svizzera

La Svizzera chiude il 2018 con 2,9 miliardi di utile, mentre la pressione fiscale sui salari è al 21,8%

Il gettito fiscale è stato di 2,2 miliardi superiore alle attese, merito soprattutto degli utili delle imprese. Ma la pressione fiscale della Confederazione è tra le più basse dell’Ocse.

La casse dello stato svizzero hanno chiuso il 2018 con un «utile» di 2,9 miliardi di franchi, pari a circa 2,6 miliardi di euro. Il surplus del bilancio pubblico superano nettamente le previsioni formulate dodici mesi fa, che parlavano di un avanzo di appena 300 milioni di franchi. Una cifra che consente al governo di Berna di guardare con tranquillità al futuro almeno fino al 2022 e che sembra appartenere a un altro mondo rispetto all’Italia alle prese con deficit, debito pubblico in crescita e voci sempre più insistenti di una manovra correttiva entro la fine dell’anno.

L’avanzo del 2018 è stato comunicato da una nota ufficiale del governo elvetico diffusa pochi giorni fa. Il risultato, dice la comunicazione giunta da Berna «è dovuta all’evoluzione positiva delle entrate e alla grande disciplina mantenuta sul fronte delle uscite». In particolare il gettito fiscale è stato di 2,2 miliardi superiori al preventivo, con un forte contributo arrivato dall’aumento degli utili delle imprese. Le spese invece hanno registrato un «risparmio» di 500 milioni e una diminuzione rispetto all’anno precedente dell’1,8%. Tra le minori uscite vengono citate quelle per il persone (-150 milioni) per beni e servizi (-390 milioni) per le richieste di asilo politico (-160 milioni). Per il 2020 viene messo in conto un «bonus» di 400 milioni mentre sei mesi fa si prevedeva il medesimo importo ma con il segno meno.

La Svizzera, per abitudine, imposta il bilancio statale con molta prudenza (specie sul fronte delle spese) in modo da avere più probabilità di ritrovarsi a fine anno con una avanzo di bilancio. Il risultato del 2018 è però macroscopico avendo superato di quasi 10 volte le previsioni. Ma cosa può aver contribuito al surplus di 2,9 miliardi? L’economia elvetica, che non è arretrata nemmeno negli ani peggiori della crisi mondiale, ha continuato a marciare e l’ultimo dato disponibile parla di una crescita dell’1,6% del pil. Sul gettito ha continuato a far sentire i suoi effetti l’amnistia fiscale che nell’arco di più anni ha portato nelle casse di Berna oltre 31 miliardi di franchi (principalmente rientrati dal Liechtenstein). Da notare che secondo i dati dell’Ocse la pressione fiscale sui salari in Svizzera è del 21,8%.

Fonte: corriere.it

Europa, Germania

Se cade la Germania, cade l’Unione Europea

Riflessioni sulle possibili crisi e opportunità dei dati economico-politici della nazione tedesca.

La Francia è momentaneamente caduta in disgrazia, per di più in un momento politico decisamente propizio per quelle forze politiche che spingono in direzione del sovranismo. È propizio perché in concomitanza con il periodo che precede le elezioni Europee, che potrebbero determinare una fase più fertile di cambiamenti in senso reazionario o rivoluzionario a seconda di come le forze in gioco sapranno sfruttarlo.

E dunque oggi, dopo la Brexit e la protesta dei gilet jaunes, è la Germania l’unica vera stabile nazione promotrice del progetto europeista, nonostante la (ri)proposizione dell’asse franco-tedesco segnato dal patto di Aquisgrana. Essa cova al suo interno delle contraddizioni molto forti: basti pensare al grosso nodo rappresentato dalla situazione in cui versa Deutsche Bank con le sue scommesse in derivati per 48,26 trilioni di euro, pari a quindici volte il Pil della Germania. Se anche una piccola parte di queste scommesse dovesse risultare perduta, sarebbe un serio problema per la sua economia interna, nonché per la tanto declamata “tenuta dell’Euro”. Gli squilibri interni all’assetto tedesco sono sempre stati calmierati da interventi pubblici di una vera e propria cassa di Depositi e Prestiti (la KFW) i cui sovvenzionamenti vengono esentati dal computo del Deficit, mentre le altre Nazioni Europee venivano sottoposte a rigide limitazioni sull’interventismo pubblico.

Quello della Germania è un impero di carta, fragile, che gioca da vent’anni sulle opportunità offerte dai peggiori difetti della moneta unica e che ai propri vantaggi ha sacrificato il suo medesimo progetto: esempio paradigmatico è la conduzione della crisi greca. Non è esagerato affermare che se domani finisse l’Euro, la Germania sarebbe tra i maggiori imputati del suo fallimento. Ad un quadro complesso si aggiungono i recenti dati economici che hanno visto la Germania sfiorare la recessione nel 2018 e la revisione al ribasso di tutte le sue stime di crescita, di cui Il motivo principale consiste nel rallentamento dello sviluppo dell’economia cinese, che sta trascinando tutti i Paesi fortemente esportatori (la Germania lo è molto più dell’Italia, con un surplus commerciale da più di venti miliardi). Anche questo è un altro tema su cui riflettere: la distorta dipendenza dell’economia Occidentale dall’economia cinese, già manifestatasi nel crollo della Apple di inizio gennaio, molto sentita negli Usa e oggetto di campagna elettorale dell’attuale Presidente Donald Trump, che ha risposto con una politica sui dazi. Tutti indici di debolezza sul fronte della politica estera ed interna, per quello che è ad oggi il Paese cardine dell’Unione, che potrebbero segnare una svolta radicale, se propiziate da condizioni favorevoli.

Una forte crisi dell’economia tedesca significherebbe la fine dell’Euro? Si può dire che con le attuali variabili ciò è altamente probabile, ma che oggi tale crisi è poco più che un’ombra. Ciò che è sicuro, è che se l’amalgama “populista” non si darà una direzione chiara soccomberà, con nemici forse meno potenti di quello che sembrano, ma certamente molto più organizzati.

Fonte: L’Intellettuale Dissidente (qui) Articolo di P. Maruotti del18 febbraio 2019.

Altaitalia, Mafia

Al Nord la metà dei finanziamenti mafiosi: un euro riciclato su cinque in Lombardia. Nessun territorio è immune.

Il riciclaggio dei proventi illeciti si concentra al Nord. La potenza dell’impresa mafiosa è sempre più forte. È la traccia della relazione Dia del primo semestre 2018, pubblicata oggi, con un’analisi ancora più dettagliata del solito. Il documento della Direzione investigativa antimafia, presentato in Parlamento dal ministro dell’Interno Matteo Salvini, riconfigura le sfaccettature della criminalità organizzata e dà piena luce alle minacce oggi così come sono: azioni e infiltrazioni nel mercato, nella società, tra le istituzioni. Le tendenze mafiose si consolidano, si sviluppano, si allargano. La forza e il potere dei boss non arretrano nonostante i continui successi di polizia giudiziaria. L’imprenditoria criminale recluta a mani basse forza lavoro giovane soprattutto al Sud: è una nuova questione meridionale.

La mappa delle operazioni finanziarie sospette
Nel primo semestre 2018 gli agenti della Dia, guidata dal generale dell’Arma dei Carabinieri Giuseppe Governale, hanno analizzato 48.658 segnalazioni di operazioni di presunto riciclaggio. Di conseguenza, sono stati esaminati 229.037 soggetti, di cui 156.177 persone fisiche e 72.860 persone giuridiche. La selezione ha prodotto 5.826 segnalazioni, di specifico carattere mafioso o con la presenza dei cosiddetti reati spia come impieghi di denaro, estorsione, usura. I numeri sono imponenti, la geografia ancor più eloquente: quasi la metà del riciclaggio è al Nord (25.963 operazioni, il 46,37% del totale), in Lombardia il 20,87% di tutt’Italia: un euro riciclato su cinque, dunque, circola nelle province lombarde. Al secondo posto la Campania (16,58%) seguita da Lazio (11,33%) ed Emilia Romagna (8,82%).

Fuga dei cervelli nelle imprese mafiose
Gli analisti della Dia – struttura interforze con eccellenze dell’Arma, della Polizia di Stato e della Guardia di Finanza e diretta dipendenza dal prefetto Franco Gabrielli, capo del dipartimento di Pubblica sicurezza– hanno svolto un focus specifico su una tendenza molto preoccupante: l’aumento progressivo delle giovani leve nella criminalità organizzata. Negli ultimi cinque anni non solo si sono registrati casi di mafiosi con un’età tra i 14 e i 18 anni, ma gli appartenenti alle cosche tra i 18 e i 40 anni hanno raggiunto numeri quasi uguali a quelli della fascia tra i 40 e i 65 anni e, in un caso, lo hanno anche superato. Nel 2015, infatti, i denunciati e gli arrestati per 416 bis sono stati 5.437 di cui 2.792 tra i 18 e i 40 anni e 2.654 tra i 45 e i 60. «Una trasformazione della cultura mafiosa – dice la Dia – che investe anche il linguaggio, al passo con i tempi. Non tanto rispetto ai contenuti delle comunicazioni, sempre criptiche, imperative e cariche di violenza, quanto piuttosto per gli strumenti social utilizzati, che consentono di aggregare velocemente gli affiliati al sodalizio e, allo stesso tempo, di rendere più difficoltosa l’intercettazione dei messaggi».

A Roma “Mafia capitale” oggi è ‘ndrangheta
Un altro dossier speciale è stato riservato dalla Dia alla capitale. Cosa Nostra si fonda «su un’azione tesa all’infiltrazione dell’economia e della finanza e al condizionamento della pubblica amministrazione (funzionale soprattutto al controllo dei pubblici appalti), grazie a una forte capacità relazionale» scrivono gli analisti guidati dal generale Governale. Ma la minaccia più insidiosa si annida tra le cosche calabresi: emerge «uno spaccato importante della capacità della ‘ndrangheta di infiltrarsi, dissimulando le proprie tracce, nel territorio romano». Tanto che è «difficile – ammette la Dia – tracciare una mappatura esatta della presenza sul territorio della Capitale». Economia romana sommersa criminale.

Fonte: Il Sole 24 Ore (qui) Articolo di M. Ludovico del 13 febbraio 2019.

Cristiani, Diritti umani, Immigrazione

L’Europa non accoglie i cristiani perseguitati in Siria

Una guerra, quella in Siria, che inizia ad occupare più i libri di storia che le pagine dell’attualità. Oramai i dubbi principali riguardano per la verità lo status delle regioni in mano alle forze filo curde dell’Sdf e la provincia di Idlib. Ma il conflitto sembra perdere intensità sotto il profilo militare, anche se le sue conseguenze in Siria ed in medio oriente sono destinate a produrre importanti effetti ancora per anni. Tra tutte, emerge la situazione dei cristiani: essi nel paese sono sempre di meno e, soprattutto, sempre più vulnerabili.

“I cristiani adesso sono solo il 2%” 

Nei giorni scorsi a lanciare l’allarme è il cardinale Mario Zenari, nunzio apostolico in Siria: “Prima del conflitto, i cristiani in Siria costituiscono il 10% della popolazione e vivono in maniera piuttosto integrata”. Adesso, secondo il rappresentante del Vaticano a Damasco, il numero dei cristiani in Siria rappresenta soltanto il 2% della popolazione. Si rischia, di fatto, la fine della comunità cristiana in uno dei paesi dove i non musulmani hanno potuto vivere in condizioni adeguate ed anzi dove la stessa comunità è tra le principali artefici della nascita del moderno Stato siriano. Il problema non riguarda soltanto le zone occupate dall’Isis dal 2014 al 2017. Lì il califfato pone in essere in quegli anni una feroce persecuzione contro i cristiani, molti dei quali vengono uccisi oppure costretti a rifugiarsi in altre zone della Siria. Ma anche in quelle parti del paese dove l’Isis non mette piede, la situazione non va meglio.

Questo perchè inizia ad esserci una certa diffidenza ed una non indifferente paura nel rimanere in Siria. Aleppo, Homs e Damasco per anni rimangono sotto la concreta minaccia jihadista e con diversi quartieri occupati da miliziani islamisti. In quelle condizioni vivere normalmente per i cristiani è certamente impossibile. Da qui la fuga verso l’estero, Libano su tutti. Ma proprio in relazione al massiccio esodo dei cristiani verso altri paesi, emergono altri dati importanti: l’Europa sembra non volerli accogliere.

L’emblema del caso inglese

Trovare rifugio nel vecchio continente per un cristiano perseguitato in Siria o nel resto del medio oriente, durante gli anni più bui della presenza del califfato sembra impossibile. Il caso diventa politico in Gran Bretagna, dove alcuni dati dimostrano come, quasi paradossalmente, il numero dei cristiani ospitati è esiguo rispetto alla complessità del problema. Ad esempio, nel 2017 il governo di Londra accoglie le domande di asilo da parte di 4.850 siriani. Di questi, solo 11 sono cristiani. La Gran Bretagna è lo stesso paese, per rimanere in tema, che decide di non accogliere Asia Bibi, ossia la donna pachistana accusata di blasfemia e minacciata di morte anche dopo la sua liberazione. Lei adesso dovrebbe andare in Canada, il foreign office di Londra dichiara pericoloso per le proprie sedi diplomatiche e per la sicurezza accogliere la ragazza cristiana. Questo la dice lunga sul clima che si respira sotto questo fronte in Gran Bretagna: per un cristiano, chiedere asilo è più difficile. A Londra come, del resto, anche in altri paesi del vecchio continente.

Quello britannico è un caso emblematico in quanto, proprio pochi giorni fa, il ministro degli esteri Jeremy Hunt lancia una sorta di mea culpa: “Tra tutte le persone perseguitate per la loro fede nel mondo – dichiara il titolare della diplomazia del Regno Unito – l’80% sono cristiani. Il nostro retaggio coloniale ed i nostri sensi di colpa relativi al periodo coloniale hanno impedito al paese di fare abbastanza per proteggere i cristiani”. Un’ammissione ed un passo indietro che confermano politicamente la portata dei numeri sulla Siria sopra elencati. Hunt a dicembre ha già dato incarico al vescovo Philip Mounstephen di guidare una commissione incaricata di fare luce sui casi di persecuzione religiosa nel mondo e, in particolare, sulla situazione dei cristiani.

Per quanto riguarda la Siria, la speranza è che con un conflitto meno intenso e con le principali città tornate sotto il controllo del governo, adesso i tanti cristiani fuggiti possano tornare. Ma è chiaro che l’ammissione di Londra sulla tutela dei cristiani deve suonare, oggi più che mai, come un campanello d’allarme sulla paradossale discriminazione dei cristiani che chiedono rifugio nel vecchio continente.

Fonte: occhidellaguerra.it (qui) Articolo di M. Indelicato dell’8 febbraio 2019.

Austerity, Economia

Negli ultimi 20 anni il mondo va sempre meglio, mentre l’europa va sempre peggio (dal blog di Antonio Socci)

Andiamo sempre peggio, si sente dire al Bar del pensiero luogocomunista. Si ripete: i poveri sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi, e poi violenze, inquinamento, catastrofi, esaurimento delle risorse, fame e malattie, sottosviluppo, inevitabili migrazioni di massa.

“Questa è l’immagine che quasi tutti gli occidentali vedono nei media e si imprimono nella mente. Io la chiamo visione iperdrammatica del mondo, una concezione stressante e ingannevole”. Così scrive Hans Rosling  in “Factfulness” (Rizzoli).

Questo libro, il cui autore è membro dell’Accademia di Svezia e fondatore della sezione svedese di Medici senza frontiere,
elenca una serie impressionante di dati che dimostrano l’esatto contrario. 

Ovvero che il mondo va sempre meglio, l’umanità ha compiuto progressi spettacolari  e ha conseguito un benessere inimmaginabile.

Quindi i media ci danno una rappresentazione totalmente ribaltata  della situazione? La risposta è: sì. Ma c’è un’altra rappresentazione ribaltata  della realtà (e, in questo caso è più difficile trovare i dati veri che ci fanno scoprire la verità): si tratta del tema Europa/Italia

Quando si parla dell’Unione Europea i media vanno in sollucchero. Fin da quando è stata varata – circa 25 anni fa – si predisse che questo esperimento politico (con la moneta unica) ci avrebbe portato nella terra promessa dove scorre latte e miele, ci avrebbe fatto ricchi e ci avrebbe protetto da tutte le intemperie finanziarie e politiche. 

E’ accaduto l’esatto contrario (vedremo i dati) e va sempre peggio, ma la rappresentazione mediatica continua a raccontare la favola della propaganda iniziale. 

C’è un nesso fra i due fenomeni, quello globale (positivo) e quello euro-italiano (negativo)? Certo che c’è. Ma prima vediamo un po’ di numeri.

Sono dati ufficiali della grandi istituzioni internazionali. Ecco qualche esempio. 

BUONE NOTIZIE DAL MONDO

Nel 1800l’85% della popolazione mondiale viveva nella condizione di povertà estrema. Venti anni fa era il 29% e oggi il 9%. Un successo strepitoso (con un balzo eccezionale negli ultimi 20 anni), eppure nessuno se ne rende conto.

Scrive Rosling: “Nel 1800, quando gli svedesi morivano di fame e i bambini britannici lavoravano nelle miniere di carbone, l’aspettativa di vita era di circa 30 anni in tutto il mondo. Il dato era sempre stato questo. Circa metà dei bambini moriva durante l’infanzia. Quasi tutti gli altri perdevano la vita tra i 50 e i 70 anni. Perciò la media si aggirava intorno ai 30”. Oggi nel mondo l’aspettativa di vita media è di 72 anni (da noi sopra gli 80). 

Consideriamo poi “tutte le vittime di inondazioni, terremoti, tempeste, siccità, incendi e temperature estreme, nonché i decessi durante gli sfollamenti e le pandemie che seguono questi episodi”. 

Oggi, spiega Rosling, il numero annuale di decessi dovuti a tali calamità è solo il 25% di quello di un secolo fa, ma siccome la popolazione è aumentata di 5 miliardi da allora, il crollo dei decessi è ancora più clamoroso: abbiamo solo il 6% dei decessi di cent’anni
fa
. Grazie agli enormi progressi che ci permettono di difenderci.

Un dato che esemplifica il miglioramento della qualità della vita: oggi l’80% delle persone ha un qualche accesso all’elettricità

Inoltre si ripete che l’Africa è una bomba a orologeria, che, con il boom demografico, la fame, le malattie e il sottosviluppo porteranno in Europa milioni di migranti. 

Si ignora invece che in questi anni, in cui i paesi europei stentano a far crescere il pil dell’1%, in Africa la crescita è ben superiore e paesi come Ghana, Nigeria, Kenya o Etiopia (come il Bangladesh in Asia) sono cresciuti sopra al 5 %

E ci sono paesi come Tunisia, Algeria, Marocco, Libia ed Egitto che “hanno aspettative di vita superiori alla media mondiale di 72 anni. In altre parole, si trovano dove la Svezia era nel 1970”.

Rosling elenca pure una serie di cose orrende che sono sparite o stanno sparendo dal mondo: dalla schiavitù legale ai paesi con casi di vaiolo, ai morti in incidenti aerei. 

In fortissima diminuzione  la percentuale di persone denutrite (passate dal 28% del 1970 all’11% del 2015), le armi nucleari (da 64 mila del 1986 a 9 mila del 2017), le sostanze nocive per l’ozono (da 1663 del 1970 a 22 del 2016, in migliaia di tonnellate), il lavoro minorile, l’inquinamento  derivante da piombo nella benzina e incidenti con perdite di petrolio.

Invece cresce nel mondo la resa cerearicola per ettaro (da 1.400 KG per ettaro del 1961 a 4 mila del 2014), la superficie terrestre protetta da parchi, l’alfabetizzazione (dal 10% del 1800 all’86% del 2016) per non parlare della ricerca scientifica, della democrazia (e del voto femminile).

Si potrebbero elencare molti altri indici, riportati da Rosling. Ovviamente sono indici di benessere prevalentemente economico, che non escludono l’esistenza di altri problemi umani o fatti molto negativi.

PESSIME NOTIZIE EURO-ITALIANE

Veniamo invece al caso euroitaliano: perché da noi – al contrario del resto del mondo – le cose sono andate indietro 

Bastino due dati: nel 1999 il prodotto interno lordo dell’eurozona era il 22% di quello mondiale. Nel 2017 è ormai al 16%. Una caduta micidiale.

Nel 2000 l’economia USA superava del 13% quella dell’eurozona, nel 2016 questa percentuale era raddoppiata: al 26%.

Anche se i media continuano a raccontare la favola dell’UE felice, la gente comune  si è accorta dell’inganno, paga sulla propria pelle il peggioramento della qualità della vita e comincia a protestare, nelle urne (Italia e Gran Bretagna) o nelle piazze (Francia).

C’è un nesso fra i due fenomeni, quello globale (positivo) e quello (negativo) relativo a Italia/Europa? Sì. Il nesso si chiama globalizzazione. Fino alla caduta del Muro di Berlino si è avuto un progresso globale ordinato e regolato, guidato e trainato dagli Stati Uniti e dall’Europa occidentale.

Dagli anni Novanta si è imposta una globalizzazione selvaggia, con un Mercato globale senza regole e, per esempio, l’ingresso di colpo sulla scena di un gigante come la Cina che, di fatto, fa concorrenza sleale a tutti.

La follia europea è stata quella di legarsi le mani con i Trattati di Maastricht (che hanno al centro il mercato e l’inflazione, anziché il lavoro e la crescita economica) e con una moneta unica che, oltre a impedire le preziose politiche monetarie nazionali, ha regalato alla Germania un marco super-svalutato e a noi una lira sopravvalutata.

Così i tedeschi hanno vampirizzato le altre economie europee, specie quella italiana. Infatti in 18 anni di euro la manifattura italiana è crollata del 16%, quella tedesca è cresciuta del 30%.

Ecco perché nel 1999 – all’ingresso nell’euro – il reddito pro-capite degli italiani era il 96% di quello tedesco, mentre nel 2015 dopo sedici anni di euro il reddito degli italiani è il 76% di quello dei tedeschi. 

Il nostro reddito pro capite è addirittura diminuito  da 34.802 dollari del 1999 a 34.752 del 2017. Negli anni ottanta, un italiano risparmiava in media 1/4 del suo reddito: oggi quasi zero.

L’Italia che, fra 1960 e 1979, vedeva crescere il Pil del 4,8% medio annuo (ed era ancora al 2% fra 1980 e 1999), dal 2000 al 2018 è ferma : la crescita media annua allo 0,2% significa che siamo in coma.

E questo si paga salatamente nella qualità della vita. Significa più disoccupazione e povertà, meno investimenti in infrastrutture, nell’educazione e nella sanitàSignifica blocco del cosiddetto “ascensore sociale”

Significa avere giovani senza un futuro, senza possibilità di fare un progetto di vita e significa anche gravissima denatalità. E’ la via del declino irreversibile.

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Fonte: “Libero”, 10 febbraio 2019, Articolo di Antonio Socci (qui)

Anniversari, Foibe

“Foibe, fascisti e comunisti: vi spiego il Giorno del ricordo”: parla lo storico Raoul Pupo

Intervista al professore dell’Università di Trieste, uno dei massimi esperti sull’argomento, per far luce su alcuni aspetti ancora poco chiari nell’immaginario collettivo.

Il 10 febbraio l’Italia celebra il Giorno del ricordo, giornata istituita per commemorare la memoria di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo degli istriani, dei fiumani e dei dalmati italiani dalle loro terre tra il 1943 e 1945, e della più complessa vicenda del confine orientale.

Con massacro delle foibe si intende l’affossamento in grandi cavità naturali di alcune migliaia di italiani da parte delle forze jugoslave e alcuni partigiani italiani vicini a loro. Con esodo, invece, intendiamo il fenomeno migratorio di circa 300mila italiani di Istria, Fiume e Dalmazia, che lasciarono la loro terra passata in mano di Tito per restare in suolo italiano.

Parla Raoul Pupo, professore di Storia contemporanea all’Università di Trieste e uno dei massimi conoscitori sull’argomento, di fare luce su alcuni aspetti ancora poco chiari nell’immaginario collettivo.

Professore, quali furono le conseguenze del fenomeno foibe e esodo?

Questi eventi messi insieme hanno provocato la scomparsa quasi integrale della componente autoctona bilingue e cultura italiana nei suoi territori di insediamento storico a Zara, Fiume e Istria in generale.

Le foibe in realtà non hanno avuto un ampio effetto, le migliaia di morti hanno provocato gravi ferite della memoria ma non hanno inciso particolarmente sugli equilibri nazionali e di potere della regione. Quello che ha provocato la principale frattura storica dall’epoca della romanizzazione è l’esodo, in quanto ha significato la sparizione di una delle componenti storiche della regione.

Mio nonno, esule, mi parlava spesso di quei “comunisti titini” e mi diceva che ai tempi di Mussolini viveva meglio. Non era il solo esule a pensarla cosi. Dire che gli esuli erano fascisti è soltanto uno stereotipo?

Gli esuli istriani erano saldamente anticomunisti, avevano provato sulla loro pelle cos’era il socialismo reale ed erano scappati via, quindi erano tutto meno che comunisti. Non è vero che fossero tutti fascisti, la maggior parte di loro nel dopoguerra votava democrazia cristiana, soltanto alcuni piccoli gruppi votavano per il movimento sociale.

Quella degli esuli era una realtà popolare conservatrice, e quando qualcuno diceva che ai tempi di Mussolini stava bene vuol dire allora stava meglio rispetto a quello che ha vissuto dopo. Avendo rischiato la vita e vissuto situazioni invivibili a casa loro, il paragone con il passato è tutto a vantaggio dello stesso. Durante il fascismo l’Istria era stata una terra di povertà, dagli anni Venti ci fu una crisi economica dalla quale iniziò ad uscire appena dalla fine degli anni Trenta. Subito prima della guerra ci fu in seguito alla politica autarchica un inizio di ripresa economica e si cominciavano a vedere orizzonti migliori rispetto a una miseria secolare. Poi è arrivata la guerra che per loro ha voluto dire la fine di tutto.

Naturalmente questo riguardò la componente italiana della popolazione. La comunità slovena e croata aveva giudizi diversi, in quanto minoranza oppressa dal regime. La politica del fascismo era volta a distruggere la loro identità e a trasformarli in italiani. Anche dal punto di vista economico e sociale stavano peggio rispetto a prima, sloveni e croati erano per lo più braccianti senza terra o coloni. Nell’ultimo periodo dell’amministrazione asburgica, grazie a un tessuto di cooperative, erano riusciti ad avere un miglioramento del loro stato sociale riuscendo a comprare della terra. Poi il fascismo da una parte distrusse tutto il tessuto redditizio cooperativo che li sosteneva, poiché connotato in senso nazionale, dall’altro impose una fiscalità più grave: il risultato è che molti di loro persero la terra.

Chi furono i colpevoli dei vari eccidi?

Fondamentalmente i quadri del movimento di liberazione jugoslavo, movimento contro i tedeschi occupatori ma anche contro gli italiani. Gli esponenti del movimento erano alle origini figli di esuli istriani sloveni e croati che durante il ventennio avevano dovuto abbandonare quella terra. Arrivati in Istria si collegano con i loro parenti, esponenti del tradizionale nazionalismo croato, e su questa base creano prima il partito comunista croato poi il movimento di liberazione. Sono dei quadri che hanno un forte antagonismo sia sociale che nazionale nei confronti dell’italiano, che viene percepito come fascista, quindi poi quando hanno il potere si lasciano andare ad angherie di tutti i tipi.

La violenza delle foibe scavò un solco di terrore fra la popolazione italiana. Le intimidazioni, bastonature, arresti e sparizioni del dopoguerra rafforzarono il clima di paura. Le ragioni dell’esodo sono però molto più complesse. In sintesi, il collasso della società italiana, dovuto alla duplice rivoluzione, nazionale e sociale, attuata dalle autorità jugoslave. Ciò creò una situazione di invivibilità generalizzata. Di conseguenza, quando – con ritmi diversi nei diversi contesti – le comunità italiane si resero conto che la dominazione jugoslava era divenuta definitiva, scattò il meccanismo dell’esodo.

Perché fu istituito il giorno del ricordo?

Venne istituito per cercare di sanare la ferita aperta nella coscienza degli esuli e dei parenti delle vittime delle foibe. Nonostante la loro integrazione perfettamente riuscita nel tessuto sociale italiano avevano dovuto silenziare le loro origini per ragioni non solo politiche ma antropologiche. Si erano inseriti nell’Italia del boom economico, l’Italia che voleva lasciarsi alle spalle tutto quello che voleva dire guerra, sconfitta, miseria. Non c’era posto per rivangare queste storie terribili.

Gli esuli rimasero zitti, molto spesso non avevano trasmesso queste storie nemmeno ai figli, le loro vicende erano conosciute all’interno dei circuiti speciali dei profughi ma quasi per nulla all’interno della comunità nazionale. Ne continuavano a parlare ossessivamente tra di loro, ma all’esterno era una storia che non interessava a nessuno.

Dopo la fine della guerra fredda c’è dappertutto in Europa una riscoperta di storie che prima erano state messe da parte, fra queste c’è anche la storia del confine orientale. Attraverso un complesso iter parlamentare arriva questa proposta per l’istituzione della giornata del ricordo che viene approvata in parlamento con una maggioranza larghissima, alla camera con pochissimi voti contrari e al senato addirittura senza opposizione.

Non trova che il Giorno del ricordo venga usato per esaltare la patria o l’italianità di certe zone più che per ricordare il dramma di queste persone?

Il Giorno del ricordo viene usato in tanti modi e può venire usato in senso puramente strumentale: è stato usato e continuerà a venire usato da parte di componenti politiche di estrema destra. Già dagli anni Novanta era partita una campagna dall’allora partito di Alleanza Nazionale per l’istituzione di vie e piazze ai “martiri delle foibe”. Era un’operazione politica di matrice neofascista.

Ma il Giorno del ricordo si presta sia per riconciliare la memoria degli esuli e delle vittime delle foibe sia per riscoprire tutta la storia del confine orientale, che è una storia abbastanza complessa, perché oltre le foibe e l’esodo c’è anche tutto quello che è successo prima. Va sempre tenuta presente una cosa: il giorno del ricordo cade il 10 febbraio del 1947, che è la data della firma del trattato di pace che segna la perdita della Venezia Giulia per l’Italia. Quel trattato di pace riguarda la guerra iniziata dall’Italia col fascismo, che è entrata in guerra per sua scelta a fianco della Germania, quindi ha invaso e distrutto la Jugoslavia annettendola parzialmente. L’inizio della catastrofe, quindi, è l’attacco dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale con la responsabilità del fascismo.

Come venne vista al tempo l’istituzione di questa giornata in Slovenia e in Croazia? E come sono percepite foibe ed esodo oggi a Trieste?

Alcune reazioni sono state preoccupate e negative. C’è stata una fase attorno al 2005, dopo le prime giornate del ricordo, in cui da parte italiana c’è stato qualche intervento patriottico sopra le righe, provocando cosi una crisi diplomatica e per converso l’istituzione in Slovenia della festa per il ricongiungimento del litorale sloveno alla madre patria, che era esattamente speculare al giorno del ricordo. In Croazia ci fu una polemica molto dura tra il presidente croato dell’epoca Stipe Mesic e il presidente Napolitano.

Interventi di riconciliazione nell’area tedesca ci furono molto presto, con incontri tra capi di stato e varie cerimonie. Italia, Slovenia e Croazia hanno tardato, e dal ritardo è scoppiata la crisi. Con l’intervento della diplomazia e i massimi vertici si è arrivati nel 2010 ad una riappacificazione. Il presidente della Repubblica italiano, sloveno e croato si incontrarono a Trieste facendo il giro di tutti i luoghi della memoria e fu organizzato un grande concerto in Piazza Unità richiudendo cosi il cerchio.

A Trieste questo argomento è una delle grandi ossessioni, e mentre negli anni Sessanta e Settanta era un argomento di polemica politica, adesso, mettendo da parte alcuni gruppi di esagitati nazionalisti o negazionisti, sulle foibe c’è meno tensione e l’argomento è ricondotto alle sue dimensioni reali. C’è una grande frequenza ai memoriali: molte persone, sopratutto giovani, vengono da tutta Italia alla foiba di Basovizza dove ora c’è un centro di informazione e di divulgazione.

Ci possiamo aspettare novità riguardo a ulteriori studi?

Sulle foibe dal punto di vista interpretativo non sono da attendersi novità, si potrebbe andare avanti dal punto di vista della quantificazione. Entro certi limiti il numero di vittime rimarrà imperfetto per problemi di fonti, però incrociando meglio quelle esistenti si potrebbe arrivare a delle approssimazioni migliori. Di solito quando si parla di infoibati se ne parla in senso simbolico, comprendendo tutti i morti italiani da parte delle forze jugoslave, ma il numero reale delle vittime complessivo è stimato tra 3.000 e 4.000.

Sull’esodo invece c’è ancora molto da dire, in quanto spostamento di una comunità al completo di tutte le sue classi sociali e articolazioni. In anni recentissimi ci sono state delle novità importanti: una collega di Rovigno ha lavorato sulle fonti ex jugoslave finalmente disponibili e quindi è riuscita a vedere i problemi visti dall’ottica del potere, tuttavia ci sono ancora aspetti di storia politica e sociale che meritano di essere approfonditi.

Fonte: tipi.it (qui)

Immigrazione, Politica, Sinistra

La tesi di sinistra contro i confini aperti – II Parte ⎮ vocidallestero.it

Il grande business e le lobby del libero mercato, per promuovere aggressivamente i propri interessi, hanno creato un culto fanatico a difesa delle tesi open border – un prodotto fatto proprio da una classe urbana creativa, tecnologica, dei media e della conoscenza, che fa i propri interessi oggettivi di classe per mantenere a buon mercato i propri effimeri stili di vita e salvaguardare le proprie carriere. La sinistra liberale ha rivenduto il prodotto aggiungendovi il ricatto morale e la pubblica vergogna nei confronti dei popoli, accusati di atti inumani verso i migranti. Eppure, una vera sinistra dovrebbe tornare a guardare alle proprie tradizioni e cercar di migliorare le prospettive dei poveri del mondo. La migrazione di massa in sé non ci riuscirà: crea impoverimento per i lavoratori nei paesi ricchi e una fuga di cervelli in quelli poveri. L’unica vera soluzione è correggere gli squilibri dell’economia globale e ristrutturare radicalmente un sistema progettato per aiutare i ricchi a scapito dei poveri, riprendendo il controllo degli stati, delle politiche commerciali e del sistema finanziario globale. 

La prima parte (qui).

INTERESSI SOCIETARI E RICATTO MORALE

Le frontiere aperte non hanno un mandato pubblico, ma le politiche dell’immigrazione che pongono l’onere della loro applicazione sui datori di lavoro anziché sui migranti suscitano un sostegno travolgente. Secondo un sondaggio del Washington Post e di ABC News, il supporto all’utilizzo obbligatorio del sistema federale di verifica dell’occupazione (E-Verify), che impedirebbe ai datori di lavoro di sfruttare il lavoro illegale, è quasi all’80%, più del doppio del sostegno alla costruzione del muro lungo il confine messicano [11]. Allora perché le campagne presidenziali ruotano attorno alla costruzione di un lungo muro di confine? Perché gli attuali dibattiti sull’immigrazione ruotano intorno alle controverse tattiche dell’ICE per colpire i migranti, soprattutto quando il metodo più umano e popolare, imporre ai datori di lavoro l’onere di assumere in primo luogo forza lavoro legale, è anche il più efficace? [12]. La risposta, in breve, è che le lobby delle imprese hanno bloccato e sabotato i tentativi come E-Verify per decenni, mentre la sinistra dei confini aperti ha abbandonato qualsiasi seria discussione su questi temi.

Recentemente, la Western Growers Association e la California Farm Bureau Federation [associazioni di categoria degli agricoltori, in California e negli Stati Uniti sud-occidentali, ndr], tra gli altri, hanno bloccato una legge che avrebbe reso obbligatorio l‘E-Verify, nonostante diverse concessioni a favore delle aziende [13]. I democratici sono stati totalmente assenti da questo dibattito. Di conseguenza, i lavoratori delle economie devastate dall’agricoltura statunitense continueranno a essere invitati nel paese con la promessa di lavorare, per essere sfruttati come lavoratori a basso costo e illegali. Mancando di pieni diritti legali, sarà impossibile sindacalizzare questi non-cittadini, che saranno tenuti nella costante paura di essere arrestati e criminalizzati.

Non esiste una crisi migratoria” è diventato uno slogan comune adesso tra i sostenitori delle frontiere aperte – e tra molti commentatori tradizionali. Ma che piaccia o no, livelli così alti di migrazione di massa da essere radicalmente rivoluzionari sono impopolari in ogni parte della società e in tutto il mondo. E le persone tra le quali sono impopolari, i cittadini, hanno il diritto di voto. Quindi la migrazione produce sempre più una crisi fondamentale della democrazia. Qualsiasi partito politico che intenda governare dovrà accettare la volontà del popolo, o dovrà reprimere il dissenso per imporre l’agenda dei confini aperti. Molti nella sinistra libertaria sono tra i sostenitori più aggressivi di quest’ultima soluzione. E per cosa? Per fornire una copertura morale allo sfruttamento? Per garantire che i partiti di sinistra, che potrebbero effettivamente affrontare uno qualsiasi di questi temi più approfonditamente a un livello internazionale, rimangano senza potere?

Chi vuole diffondere l’immigrazione ha due armi chiave. Una è il grande business e gli interessi finanziari che lavorano tutti dalla loro parte, ma un’arma ugualmente potente – impugnata con più esperienza dai sostenitori dell’immigrazione a sinistra – è il ricatto morale e la vergogna pubblica. Le persone hanno ragione nel vedere come moralmente sbagliati i maltrattamenti ai migranti. Molte persone sono preoccupate per la crescita del razzismo e dell’indifferenza verso le minoranze, che spesso accompagna il sentimento anti-immigrazione. Ma la posizione dei confini aperti non è all’altezza del loro personale codice morale.

Ci sono molti vantaggi e svantaggi economici in alti livelli di immigrazione, ma è più probabile che abbiano un impatto negativo sui lavoratori indigeni poco qualificati e a basso salario, mentre se ne avvantaggiano i lavoratori nativi più ricchi e il settore delle imprese. Come ha sostenuto George J. Borjas, funziona come una sorta di redistribuzione della ricchezza verso l’alto [14]. Uno studio del 2017 dell’Accademia Nazionale delle Scienze intitolato “Le conseguenze economiche e fiscali dell’immigrazione” ha rilevato che le attuali politiche sull’immigrazione hanno provocato effetti negativi in misura sproporzionata sui poveri e le minoranze americane, una scoperta che non sarebbe stata una sorpresa per personaggi come Marcus Garvey o Frederick Douglass. Senza dubbio anche loro, in base agli attuali standard, dovrebbero essere considerati “anti-immigrati”  per il fatto di aver richiamato l’attenzione sulle conseguenze.

In un discorso pubblico sull’immigrazione, Hillary Clinton ha dichiarato: “Credo che quando avremo milioni di immigrati laboriosi che contribuiscono alla nostra economia, sarebbe controproducente e disumano cercare di cacciarli” [15]. In un discorso privato, tenuto per i banchieri latino-americani, è andata oltre: “Il mio sogno è un mercato comune emisferico, con scambi aperti e confini aperti, ad un certo punto nel futuro, con un’energia che sia il più sostenibile e verde possibile” [16] (anche se in seguito dichiarò che intendeva che i confini fossero aperti solo per l’energia). Queste affermazioni, naturalmente, hanno fatto impazzire la destra anti-immigrazione e pro-Trump. Forse più rivelatrice, tuttavia, è la convergenza tra la sinistra dei confini aperti e la “rispettabile” destra pro-business, che è stata incarnata nelle dichiarazioni della Clinton. In un recente articolo di National Review in risposta al “nazionalismo” di Trump, Jay Cost ha scritto: “Per dirla senza mezzi termini, non dobbiamo piacerci l’un l’altro, purché continuiamo a fare soldi l’uno con l’altro. Questo è ciò che ci manterrà uniti“. In questo mostruoso sub-thatcherismo, i Buckleyiti [i conservatori americani – da William Buckley, intellettuale e scrittore americano, ritenuto uno dei padri della Nuova Destra, ndt] parlano esattamente come i “cosmopoliti” liberali – ma senza il fascino o l’estro dell’autoinganno morale.

Come figlia di migranti, e avendo trascorso la maggior parte della mia vita in un paese con livelli di emigrazione persistentemente elevati – l’Irlanda – ho sempre considerato la questione della migrazione in modo diverso rispetto ai miei benintenzionati amici di sinistra nelle grandi economie che dominano il mondo. Quando l’austerità e la disoccupazione hanno colpito l’Irlanda, dopo che miliardi di denaro pubblico sono stati utilizzati per salvare il settore finanziario nel 2008, ho visto il mio intero gruppo di amici andarsene e non tornare mai più. Questo non è solo un problema tecnico. Tocca il cuore e l’anima di una nazione, come una guerra. Significa la costante emorragia di giovani generazioni idealistiche ed energiche, che normalmente ringiovaniscono e ri-prefigurano una società. In Irlanda, come in ogni paese ad alta emigrazione, ci sono sempre state campagne e movimenti anti-emigrazione, guidati dalla sinistra, che chiedevano la piena occupazione in tempi di recessione. Ma raramente sono abbastanza forti da resistere alle forze del mercato globale. Nel frattempo, le élite al potere durante un periodo di rabbia popolare, colpevoli e nervose, sono fin troppo felici di vedere una generazione potenzialmente radicale disperdersi in tutto il mondo.

Sono sempre stupito dall’arroganza e dalla strana mentalità imperiale dei progressisti britannici e americani pro-open border che credono di compiere un atto di carità illuminata quando “accolgono” i dottori di ricerca provenienti dall’Europa orientale o dal Centro America, portandoli a giro e servendo loro cibo. Nelle nazioni più ricche, la difesa delle frontiere aperte sembra funzionare come un culto fanatico tra veri credenti – un prodotto del grande business e delle lobby del libero mercato fatto proprio da un gruppo più ampio della classe urbana creativa, tecnologica, dei media e della conoscenza, che sta facendo i propri interessi oggettivi di classe per mantenere a buon mercato i propri effimeri stili di vita e intatte le proprie carriere, ripetendo a pappagallo l’ideologia istituzionale delle proprie aziende. La verità è che la migrazione di massa è una tragedia, e la classe medio-alta che ci moralizza sopra è una farsa. Forse gli ultra-ricchi possono permettersi di vivere in un mondo senza confini di cui sono aggressivi sostenitori, ma la maggior parte della gente ha bisogno – e vuole –  un’organizzazione politica coerente e sovrana per difendere i propri diritti di cittadini.

DIFENDERE GLI IMMIGRATI, OPPORSI ALLO SFRUTTAMENTO SISTEMATICO

Se le frontiere aperte sono “una proposta dei fratelli Koch”, a cosa somiglierebbe una autentica posizione di sinistra sull’immigrazione? In questo caso, invece di canalizzare Milton Friedman, la sinistra dovrebbe orientarsi sulla base delle sue antiche tradizioni. I progressisti dovrebbero concentrarsi sull’affrontare lo sfruttamento sistemico alla radice della migrazione di massa piuttosto che ritirarsi verso un moralismo superficiale che legittima queste forze di sfruttamento. Ciò non significa che la sinistra debba ignorare le ingiustizie nei confronti degli immigrati. Dovrebbe difendere vigorosamente i migranti dai trattamenti inumani. Allo stesso tempo, qualsiasi sinistra sincera deve prendere una linea dura contro gli attori societari, finanziari e di altro tipo che creano le circostanze disperate alla base della migrazione di massa (che, a sua volta, produce la reazione populista contro di essa). Solo una forte sinistra nazionale nei paesi piccoli e in via di sviluppo – agendo di concerto con una sinistra impegnata a porre fine alla finanziarizzazione e allo sfruttamento del lavoro globale nelle grandi economie – potrebbe avere qualche speranza di affrontare questi problemi.

Per cominciare, la sinistra deve smettere di citare la propaganda più recente del Cato Institute e ignorare gli effetti dell’immigrazione sul lavoro nazionale, in particolare sui lavoratori poveri che rischiano di soffrire in modo sproporzionato a causa dell’ampliamento dell’offerta di lavoro. Le politiche dell’immigrazione dovrebbero essere progettate per garantire che il potere contrattuale dei lavoratori non sia messo significativamente a repentaglio. Ciò è particolarmente vero in periodi di stagnazione salariale, sindacati deboli ed enorme disuguaglianza.

Per quanto riguarda l’immigrazione clandestina, la sinistra dovrebbe sostenere gli sforzi per rendere obbligatorio l’E-Verify e spingere per sanzioni severe ai datori di lavoro che non lo rispettano. I datori di lavoro, non gli immigrati, dovrebbero essere al centro delle attività di controllo. Questi datori di lavoro approfittano di immigrati privi dell’ordinaria protezione legale al fine di perpetuare una corsa al ribasso dei salari, evitando allo stesso tempo di pagare i contributi ed erogare altri benefici. Tali incentivi devono essere eliminati se tutti i lavoratori devono essere trattati in modo equo.

Trump si è lamentato in modo alquanto ignobile delle persone provenienti dai “cesso di paesi” del terzo mondo e ha portato i norvegesi come esempio di immigrati ideali. Ma i norvegesi venivano in America in gran numero una volta, quando erano poveri e disperati. Ora che hanno una democrazia sociale prospera e relativamente egualitaria, costruita sulla proprietà pubblica delle risorse naturali, non vogliono più venire [17]. In definitiva, la motivazione all’immigrazione di massa persisterà fino a quando i problemi strutturali che ne sono alla base rimarranno.

Ridurre le tensioni causate dalle migrazioni di massa richiede quindi di migliorare le prospettive dei poveri del mondo. La migrazione di massa in sé non ci riuscirà: crea una corsa verso il basso per i lavoratori nei paesi ricchi e una fuga di capacità e competenze in quelli poveri. L’unica vera soluzione è correggere gli squilibri nell’economia globale e ristrutturare radicalmente un sistema di globalizzazione progettato per aiutare i ricchi a scapito dei poveri. Ciò comporta, per cominciare, cambiamenti strutturali delle politiche commerciali che impediscono il necessario sviluppo, guidato dallo stato, nelle economie emergenti. Si devono contrastare anche gli accordi commerciali anti-lavoro come il Nafta. È ugualmente necessario affrontare un sistema finanziario che incanala il capitale dai paesi in via di sviluppo nelle bolle patrimoniali nei paesi ricchi, che aumentano le diseguaglianze. Infine, sebbene le sconsiderate politiche estere dell’amministrazione di George W. Bush siano state screditate, sembra continuare a vivere la tentazione di impegnarsi in crociate militari. Ci si dovrebbe opporre. Le invasioni straniere guidate dagli Stati Uniti hanno ucciso milioni di persone in Medio Oriente, creato milioni di rifugiati e migranti e devastato infrastrutture basilari.

Oggi,  mentre assistiamo all’ascesa di vari movimenti identitari in tutto il mondo, dovrebbe risuonare l’argomentazione di Marx secondo cui la classe lavoratrice inglese dovrebbe vedere la nazione irlandese come un potenziale complemento alla sua lotta, piuttosto che come una minaccia alla sua identità. La confortante illusione che gli immigranti vengano qui perché amano l’America è incredibilmente naif – naif quanto sostenere che gli immigrati irlandesi del XIX secolo descritti da Marx amassero l’Inghilterra. La maggior parte dei migranti emigra per necessità economiche e la stragrande maggioranza preferirebbe avere migliori opportunità a casa propria, con la propria famiglia e coi propri amici. Ma tali opportunità sono impossibili all’interno dell’attuale forma di globalizzazione.

Proprio come nella situazione descritta da Marx dell’Inghilterra dei suoi tempi, politici come Trump galvanizzano la propria base suscitando sentimenti anti-immigrazione, ma raramente, se non mai, affrontano lo sfruttamento strutturale – sia in patria che all’estero – e cioè la causa che sta alla radice della migrazione di massa. Spesso, aggravano questi problemi, ampliando il potere dei datori di lavoro e del capitale contro il lavoro, mentre indirizzano la rabbia dei loro sostenitori – spesso le vittime di questi poteri – contro altre vittime, gli immigrati. Ma nonostante tutte le spacconate anti-immigrazione di Trump, la sua amministrazione non ha fatto praticamente nulla per espandere l’implementazione di E-Verify, preferendo invece vantarsi di un muro di confine che non sembra materializzarsi mai [18]. Mentre le famiglie vengono separate al confine, l’amministrazione chiude un occhio sui datori di lavoro che usano gli immigrati come pedine in un gioco di arbitraggio del lavoro.

D’altra parte, i fautori della sinistra dei confini aperti potrebbero cercare di convincersi che stanno adottando una posizione radicale. Ma in pratica stanno solo sostituendo la ricerca dell’eguaglianza economica con la politica del grande business, mascherata da virtuoso identitarismo. L’America, che è ancora uno dei paesi più ricchi del mondo, dovrebbe essere in grado non solo di giungere alla piena occupazione, ma a un salario dignitoso per tutti, compresi quei lavori che i sostenitori delle frontiere aperte dichiarano che “gli americani non vogliono fare”. Dovrebbero essere condannati i datori di lavoro che sfruttano illegalmente i migranti per il lavoro a basso costo – con grande rischio per i migranti stessi – non i migranti che stanno semplicemente facendo ciò che le persone hanno sempre fatto quando affrontano le avversità economiche. Fornendo una involontaria copertura agli interessi della élite al potere, la sinistra rischia una significativa crisi esistenziale, poiché le persone comuni si orientano sempre di più verso i partiti di estrema destra. In questo momento di crisi, la posta in gioco è troppo alta per continuare a sbagliare.

Fonte: vocidallestero.it (qui) Articolo di Angela Nagel

 

NOTE
[11] “Immigration, DACA, Congress, and Compromise,” Washington Post, Oct. 20, 2017.
[12] Pia M. Orrenius and Madeline Zavodny, “Do State Work Eligibility Verification Laws Reduce Unauthorized Immigration?,” IZA Journal of Migration 5, no. 5 (December 2016).
[13] Dan Wheat, “Ag Groups Split over Latest House Labor Bill,” Capital Press, July 17, 2018.
[14] George Borjas, “Yes, Immigration Hurts American Workers,” Politico, September/October 2016.
[15] Borjas.
[16] Chris Matthews, “What’s Important about the Clinton Campaign’s Leaked Emails on Free Trade,” Fortune, Oct. 11, 2016.
[17] Krishnadev Calamur, “Why Norwegians Aren’t Moving to the U.S.,” Atlantic, Jan. 12, 2018.
[18] Tracy Jan, “Trump Isn’t Pushing Hard for This One Popular Way to Curb Illegal Immigration,” Washington Post, May 22, 2018.
Autodeterminazione, Multinazionali, Petrolio

Venezuela: il peccato originale di scambiare il petrolio con la petro criptovaluta e il bolivar sovrano.

La Guerra Fredda 2.0 ha fatto scalo in Sudamerica. Gli Stati Uniti, ed i suoi soliti vassalli, si trovano di fronte ai quattro pilastri dell’integrazione eurasiatica in corso: Cina, Iran, Russia e Turchia.

È sì una questione di petrolio, ma non solo.

Per approfondire “Il petrolio extrapesante del Venezuela” (qui)

Caracas ha commesso un peccato capitale agli occhi dei neocon; scambiare petrolio bypassando il dollaro USA ed i mercati controllati dagli Stati Uniti.

Ricordate cos’è successo in Iraq? Ricordate cos’è successo in Libia? Eppure anche l’Iran sta facendo lo stesso. E così la Turchia. La Russia – perlomeno in parte – è sulla strada. E la Cina finirà per scambiare tutte le proprie fonti energetiche in petroyuan.

Già lo scorso anno l’amministrazione Trump aveva sanzionato Caracas, dopo che il Venezuela aveva adottato la petro cripto-valuta ed il bolivar sovrano, escludendola dal sistema finanziario internazionale.

Non c’è da stupirsi che Caracas sia sostenuta da Cina, Iran e Russia. Sono loro la vera troika – e non la ridicola “troika tirannica” così definita da John Bolton – che combatte contro la strategia di dominio energetico del governo USA , che essenzialmente consiste nel continuare per sempre a scambiare petrolio in petrodollari.

Il Venezuela è un ingranaggio chiave nella macchina. Lo psico-assassino Bolton l’ha pubblicamente ammesso: “Farebbe tutta la differenza del mondo se le nostre compagnie potessero investire in Venezuela e sfruttarne le capacità petrolifere”. Non si tratta solo di lasciare che la Exxon prenda il controllo delle enormi riserve di petrolio venezuelane, le più grandi del pianeta. La chiave è monopolizzare il loro sfruttamento in dollari USA, a beneficio dei miliardari del cartello Big Oil.

Ancora una volta, quel che è in gioco è la maledizione delle risorse naturali. Il Venezuela non deve poter trarre profitto dalla propria ricchezza alle condizioni che vuole; i promotori dell’Eccezionalismo americano hanno quindi stabilito che lo stato venezuelano debba essere distrutto.

Alla fine, è tutta una questione di guerra economica. Vedasi l’imposizione da parte del Dipartimento del Tesoro di nuove sanzioni alla PDVSA, che de facto equivalgono ad un embargo petrolifero contro il Venezuela.

Riedizione di guerra economica

È oramai appurato che quanto accaduto a Caracas non sia stata una rivoluzione colorata, ma un regime change promosso dagli USA. Si è tentato di sfruttare le locali élite di comprador per installare come “presidente ad interim” un personaggio sconosciuto, Juan Guaidó, col suo look mansueto che, un po’ come Obama, in realtà maschera un animo da estrema destra.

Tutti ricordano “Assad deve andarsene”. Il primo stadio della rivoluzione colorata siriana fu l’istigazione alla guerra civile, seguita da una guerra per procura tramite mercenari jihadisti da tutto il mondo. Come notato da Thierry Meyssan, il ruolo della Lega Araba viene ora recitato dall’OAS. E quello di Friends of Syria – ora gettato nella spazzatura della storia – dal gruppo di Lima, il club dei vassalli di Washington. Al posto dei “ribelli moderati” di al-Nusra, potremmo avere mercenari “ribelli moderati” colombiani – o di varia estrazione ma addestrati negli Emirati.

Contrariamente a quanto dicono i media mainstream occidentali, le ultime elezioni in Venezuela sono state assolutamente legittime. Non c’era modo di manomettere le macchine per il voto elettronico, made in Taiwan. Il Partito Socialista salito al potere ha ottenuto il 70% dei voti. Una rigorosa delegazione del Consiglio degli Esperti Elettorali dell’America Latina (CEELA) è stata chiara: l’elezione ha rispecchiato “in modo trasparente la volontà dei cittadini venezuelani”.

L’embargo americano è sicuramente maligno. Bisogna però anche ammettere che il governo Maduro è stato abbastanza incompetente nel non diversificare l’economia e nel non investire nell’autosufficienza alimentare. Importanti importatori di cibo, speculando come se non ci fosse un domani, stanno facendo una fortuna. Fonti attendibili a Caracas dicono tuttavia che i barrios – i quartieri popolari – al momento rimangono in gran parte pacifici.

In un paese dove un pieno di benzina costa meno di una lattina di Coca-Cola, non v’è dubbio alcuno che sia stata la cronica penuria di cibo e medicinali ad aver costretto almeno due milioni di persone a lasciare il Venezuela. Il fattore chiave dell’offensiva è stato però l’embargo statunitense.

Alfred de Zayas, l’inviato ONU in Venezuela, esperto di diritto internazionale ed ex segretario del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, va dritto al punto; più che attaccare Maduro, Washington sta conducendo una “guerra economica” contro un’intera nazione.

È illuminante vedere come il “popolo venezuelano” consideri la situazione. In un sondaggio condotto da Hinterlaces ancor prima del golpe, l’86% dei cittadini aveva dichiarato di essere contrario a qualsiasi tipo di intervento USA, militare o di altro tipo.

E l’81% dei venezuelani ha dichiarato di essere contrario alle sanzioni statunitensi. Ne hanno abbastanza di “benigne” interferenze straniere a favore di “democrazia” e “diritti umani”.

Il fattore Cina-Russia

Le analisi di acuti osservatori come Eva Golinger e, soprattutto, il collettivo Mision Verdad sono estremamente utili. Quel che è certo, in puro stile Impero del Caos, è che il fine americano, al di là di embargo e sabotaggio, è quello di fomentare la guerra civile.

Instabili “gruppi armati” sono stati attivati nei barrios di Caracas, agendo nel cuore della notte ed amplificando i “disordini” sui social media. Eppure Guaidó non ha assolutamente alcun tipo di potere all’interno del paese. La sua unica possibilità di successo è riuscire ad installare un governo parallelo – incassando le entrate petrolifere e facendo in modo che Washington arresti i membri del governo con pretestuose accuse.

Indipendentemente dai sogni bagnati dei neocon, i tipi al Pentagono dovrebbero sapere che un’invasione del Venezuela potrebbe sfociare in un pantano in stile Vietnam. L’uomo forte brasiliano in attesa, il vicepresidente e generale in pensione Hamilton Mourao, ha già detto che non ci sarà alcun intervento militare.

L’ormai famigerato foglietto dello psicopatico assassino Bolton con su scritto “5.000 truppe in Colombia” è uno scherzo; non avrebbero alcuna chance contro i 15.000 cubani responsabili della sicurezza del governo Maduro; i cubani nel corso della storia hanno dimostrato che non sono molto inclini a cedere il potere.

Dipende tutto da cosa faranno Cina e Russia. La prima è la maggior creditrice del Venezuela. Maduro è stato ricevuto lo scorso anno da Xi Jinping a Pechino, dal quale ha ricevuto ulteriori $5 miliardi di prestiti e col quale ha firmato almeno 20 accordi bilaterali.

Putin gli ha invece offerto il proprio pieno sostegno al telefono, sottolineando che “le distruttive interferenze dall’estero violano palesemente le norme basilari del diritto internazionale”.

A gennaio 2016, il petrolio si attestava a $35 al barile, un disastro per le casse del Venezuela. Maduro ha allora deciso di trasferire alla russa Rosneft il 49,9% della partecipazione statale in Citgo, sussidiaria americana di PDVSA, per un semplice prestito di $1,5 miliardi. Non ci poteva essere notizia peggiore per Washington: i “cattivi” russi erano ora entrati in possesso di parte del principale asset del Venezuela.

Alla fine dello scorso anno, bisognoso di ulteriori fondi, Maduro ha aperto alle compagnie minerarie russe l’estrazione dell’oro nel proprio paese. E non solo oro; alluminio, bauxite, diamanti, minerale di ferro, nichel, tutti ambìti da Russia, Cina e Stati Uniti. Per quanto riguarda l’$1,3 miliardi di oro venezuelano in mano alla Banca d’Inghilterra, le possibilità di rimpatriarlo sono zero.

E poi, lo scorso dicembre, è arrivata la goccia che ha fatto traboccare il vaso del Deep State; il volo amichevole di due bombardieri russi Tu-160 con capacità nucleari. Come osano? Nel nostro cortile?

La strategia energetica dell’amministrazione Trump potrebbe implicare l’annessione del Venezuela ad un cartello parallelo di “Paesi Nord-Sud Americani per l’Esportazione di Petrolio” (NASAPEC), in grado di rivaleggiare con l’alleanza Russia-Casa di Saud.

Se anche ciò si realizzasse, ed aggiungendo una possibile alleanza congiunta tra Stati Uniti e Qatar (basata su gas naturale liquefatto), non vi è però alcuna garanzia che sarebbe sufficiente ad assicurare ai petrodollari – ed al petrogas – preminenza nel lungo periodo.

L’integrazione energetica dell’Eurasia aggirerà il petrodollaro; questo il cuore della strategia di BRICS e SCO. Da Nord Stream 2 a Turk Stream, la Russia vuole siglare una partnership energetica a lungo termine con l’Europa. Ed il dominio petroyuan è solo una questione di tempo. Mosca lo sa. Anche Ankara, Riyadh, Tehran lo sanno.

Che ne dite allora del piano B, cari neocon? Siete pronti per il vostro Vietnam in salsa tropicale?

Fonte: http://www.informationclearinghouse.info (qui) Articolo di Pepe Escobar del 5 febbraio 2019,

Lavoro, Tecnologia

In attesa dei robot, ecco dove la tecnologia ha cambiato il lavoro

Non saranno solo i robot a cambiare il mondo del lavoro. I numeri dicono che il lavoro sta già cambiando oggi. E che queste modifiche sono legate a tecnologie decisamente più “semplici”. Basta l’introduzione di un nuovo software o di un nuovo device in azienda e le mansioni dei dipendenti cambiano. Lo scorso anno, in Europa, è successo ad un lavoratore su sei.

Lo afferma Eurostat, secondo la quale nel 2018 il 16% dei lavoratori dipendenti che utilizzano una connessione ad Internet hanno visto modificarsi il proprio mansionario grazie all’introduzione di un nuovo software o di una nuova apparecchiatura.

Come si nota dalla mappa, questa tendenza è più marcata nei Paesi del nord Europa e si riduce via via che ci si sposta verso sud est. La nazione in cui sono meno i lavoratori che hanno visto il proprio lavoro cambiare è Cipro, dove solo il 3% dei dipendenti che utilizzano la rete professionalmente ha svolto la propria attività in maniera diversa rispetto al passato. Mentre in Norvegia questo cambiamento lo ha vissuto il 29% dei lavoratori connessi, quasi uno su tre.

E l’Italia? Il nostro Paese si trova leggermente al di sotto della media europea. Qui infatti il 12% dei dipendenti che utilizzano Internet hanno visto cambiare la propria attività lavorativa dopo l’introduzione in azienda di un nuovo programma o di un nuovo apparecchio. La stessa percentuale si è registrata anche in Belgio, Repubblica Ceca, Lituania e Slovacchia. Tutte realtà che per molti altri aspetti sono diverse tra loro. Ad esempio, sono diverse per la percentuale di lavoratori dipendenti che utilizzano computer o apparecchi computerizzati. Ecco cosa succede tenendo conto anche di questo parametro:

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In estrema sintesi, i dati sembrano suggerire che l’impatto sia stato più significativo in Slovacchia, dove è minore la quota di dipendenti che utilizzano strumentazioni digitali. E minore in Belgio, dove l’80% dei lavoratori ne fa uso. Ma, in entrambi i casi, solo il 12% ha vissuto delle modifiche al proprio mansionario. L’Italia, con un 73% di dipendenti che utilizza computer, è decisamente più vicina al caso belga che a quello slovacco.

Per capire meglio, si guardi ai casi di Portogallo e Irlanda, che hanno un 72% di dipendenti che utilizzano il digitale. Qui rispettivamente il 21 ed il 20% ha dichiarato che lo scorso anno il proprio mansionario è cambiato grazie ad un nuovo software o ad un nuovo device. Da sottolineare, infine, il caso del Kosovo: qui appena il 28% dei lavoratori utilizza il digitale, ma il 14% ha affermato di aver vissuto un cambiamento nella propria professione. Perché anche se i robot non sono ancora arrivati, il mondo del lavoro ha già iniziato la metamorfosi.

 

Fonte: ilsole24ore.com (qui)

Elites vs Popoli, Regimi totalitari, Tecnologia

Social Credit System: i big-data per controllare i cittadini in Cina. Come la tecnologia può aiutare i sistemi totalitari.

Il Social Credit System (SCS) dovrebbe essere uno strumento indipendente, organizzato in modo distribuito sul modello della blockchain, ma come ogni opportunità che le nuove tecnologie presentano, vi sono sempre delle elite che colgono l’occasione per garantirsi la soppravivenza. L’SCS, annunciato nel 2014 dal Consiglio di Stato cinese e prossimo all’utilizzo nel 2020, sarà uno strumento di controllo dei cittadini della Repubblica popolare cinese. Uno strumento al servizio dello Stato e del Partito comunista che senza abbandonare la propria dottrina sarà in grado di attuare il Comunismo 4.0. Una nuova dimensione della rivoluzione ubbidienza al Partito in cambio di benefici ed agevolazioni economiche. Un voto di scambio permanente, da un lato l’elite che vuole conservare se stessa e dall’altra i cittadini sottomessi che privandosi della propria identità libera accettano in cambio di una valutazione di affidabilità di comportarsi come vuole il Partito. In tale modo il Partito assicura al cittadino-compagno l’accesso agevolato ai servizi che il sistema economico “capitalista” offre. Uno strumento formidabile per ammaestrare questi cittadini-consumatori. Meno ci scandalizza se tale pratica è adottata da Amazon, o Google o altra multinazionale. Abituati a questo marketing, anche se lentamente ci rendono mansueti al Social Credit System. Uno strumento più utile alle dittature che alle democrazie funzionanti perchè semplicemente. Dimenticavo non siamo in una democrazia funzionante. E allora buon Social Credit System.

Immaginiamo una realtà in cui ogni nostra attività quotidiana è costantemente monitorata e valutata: dove siamo, cosa facciamo, con chi siamo, cosa copriamo, quante ore passiamo davanti al computer o alla tv, quando e quanto paghiamo le bollette, cosa facciamo sui social.

Se non ci risulta molto difficile da immaginare, è perché questo, in parte, sta già accadendo ogni volta che cediamo volontariamente e gratuitamente i nostri dati ai giganti del web come Google, Amazon, Facebook, Instagram, Twitter, Snapchat. Infatti, utilizzando social network, telefono, pagamenti online e carte di credito forniamo una grandissima quantità di informazioni che vanno dai dati personali (nome, cognome, indirizzo, mail, numero di telefono) alle preferenze di acquisto, interessi, hobby e gusti. Queste informazioni vengono analizzate e rielaborate in algoritmi per poi divenire quei fastidiosi banner pubblicitari personalizzati che vediamo sulla nostra home di Facebook.

Ma non solo. Gli algoritmi potrebbero rivelare molto più di quello che vogliamo.

Immaginiamo che sia lo Stato ad utilizzare questi algoritmi al fine di valutare i cittadini in positivo o in negativo, raggruppando le valutazioni in un unico numero, un punteggio o “trust score” utile a valutare se un cittadino è degno o no di fiducia. Un punteggio pubblico che sarà utilizzato per decidere in che misura un cittadino è adatto per un lavoro, può permettersi una casa, ha possibilità di trovare un partner…

Di questo tratta il “Progetto di pianificazione per la costruzione di un sistema di credito sociale”, un documento politico che conteneva un’idea tanto innovativa quanto distopica, reso pubblico dal Consiglio di Stato Cinese nel giugno 2014.

Il Progetto, dal nome “Social Credit System” consiste nel monitorare tutti i cittadini sul territorio, circa 1,3 miliardi di persone, in base alle loro attività online. Il Sistema è già funzionante, sebbene per ora la partecipazione dei cittadini sia volontaria, sarà resa obbligatoria a tutti a partire dal 2020.

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Postare opinioni politiche dissenzienti o parlare dei fatti di piazza Tiananmen, si sa, non è mai stata una buona idea in Cina, ma presto compiere un’azione del genere potrebbe danneggiare i cittadini abbassando i loro trust scores, con la conseguente limitazione dei diritti: ai cittadini con punteggi bassi non sarà permesso ottenere alcuni lavori, chiedere prestiti in banca o semplicemente noleggiare un auto o entrare in un locale.

Un mix tra 1984 e un episodio di Black Mirror, così è stato definito questo folle progetto dai media internazionali. Per il Governo Cinese, invece, è solo un altro dei tanti modi per influenzare il comportamento dei cittadini a vantaggio di una società che deve essere in linea con l’ideologia del Partito e che cerca costantemente l’instaurazione perfetta del regime totalitario.

Il “Social Credit System” non è, infatti, il primo tentativo del Governo cinese di controllare i suoi cittadini. Al contrario, la Cina vanta una lunga storia di sorveglianza sul suo territorio quando già più di mezzo secolo fa il Partito Comunista Cinese era in possesso dei “dang’an“, file segreti sui cittadini accusati di essere dissidenti.

La logica di base è la stessa del Social Credit System, ovvero il controllo totale, con la sola differenza che la sorveglianza è digitalizzata, più semplice, precisa e veloce.

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Riflettendo su quest’idea futuristica e agghiacciante, non può che venirmi in mente la riflessione che Bauman fa nel libro “Sesto potere”: gli individui della società moderna rinunciano alla privacy considerandola un prezzo ragionevole in cambio di ciò che viene offerto dalla società dei consumi. Accecati dalla promessa di poter essere visibili e notati da tutti, abbiamo dimenticato di essere sorvegliati, cadendo in uno stato di “servitù volontaria” in cui collaboriamo quasi entusiasticamente alla nostra sorveglianza elettronica/digitale.

Fonte: Compass Unibo Blog (qui)

Politica, Popolo vs Elite

Firma il Manifesto per una Economia Umanistica (di Valerio Malvezzi)

In questa lettera è condensata la consapevolezza che la libertà come l’abbiamo conosciuta ci è stata sottratta, in cambio ci è stato dato il mercato. Siamo diventati consumatori eravamo donne e uomini liberi. Lo sintetizza in modo lucido Valerio Malvezzi nel suo manifesto “Lettera aperta per una Economia Umanistica”. Un invito a leggerla fino in fondo, ma sopratutto a sottoscriverla. E’ venuto il tempo, non più rinviabile, di decidere da che parte stare. Decidere se continuare ad essere consumatore o donne e uomini liberi. Io scelgo di essere libero!

Dal sito Byoblu.com

Valerio Malvezzi al convegno “Spread, banche e sicurezza nazionale”, con le parole accorate del suo manifesto “Lettera aperta per una Economia Umanistica”, indirizzata a quei potenti della Terra che, comandando sui capitali e sulla finanza, tutto controllano, descrive la terribile realtà a cui i popoli oggi sono sottomessi. Il Mercato detta legge e i cittadini patiscono manovre finanziarie “lacrime e sangue”. I fondi speculativi privati possono vigilare sul loro stesso operato ma governi democraticamente eletti non possono decidere le loro politiche economiche. Il privilegio e l’arricchimento dei pochi si regge sul sacrificio e sulla povertà dei molti.

“Voi (politici) dovete fare una ed una sola cosa: chiedere a gran voce che l’economia torni sotto la morale perché per millenni, da Aristotele ad Adam Smith, tutti i grandi economisti erano filosofi morali. Questo è il tema cruciale della rivoluzione intellettuale del XXI secolo. Oggi ciò che domina il mondo è la finanza, che condiziona l’economia, che ricatta la politica al di fuori della morale”.

Serve una rivoluzione culturale che attraverso una economia umanistica possa rimettere “l’uomo al posto del mercato, il lavoro al posto del capitale, la produzione reale in luogo dei pezzi carta”.

Lettera aperta per una Economia Umanistica

Spero che esista al mondo una autorità inquirente, un magistrato che abbia titolo, ma prima ancora il coraggio di verificare ciò che sto per dire. Se cioè corrisponda a verità ciò che ho letto su organi di stampa, in articoli presto derubricati a notizie di secondo piano per addetti ai lavori, perché saremmo di fronte al più grande inganno finanziario della seconda decade del ventunesimo secolo.

La Banca Centrale Europea, il massimo organo di regolazione e di credibilità del sistema monetario e la sua vigilanza, che avrebbe il compito di vigilare sulla stabilità del sistema bancario, da anni sta guidando, con norme e regolamenti, le aggregazioni a fusioni bancarie, mediante stress test, volti a decidere chi debba essere fuso e sparire dal mercato. Se fosse vero che, dal 2014, tali analisi non siano state mai fatte dalla Banca Centrale o suoi uffici, ma appaltate, con modalità peraltro non trasparenti, a soggetti privati, investitori esteri, sarebbe un fatto di gravità inaudita e senza precedenti. Affidare a un operatore privato speculativo, BlackRock, un compito di vigilanza appare atto di palese conflitto di interessi.

Fuori dai tecnicismi giuridici, questo significa che tutto quanto avvenuto in questi anni nel mio Paese, l’Italia, in ordine ai riassetti proprietari del sistema bancario, si baserebbe su atti dettati da ragioni di necessità e urgenza basati su fondamenti tecnici non solo inesistenti, ma potenzialmente distorsivi del mercato. Milioni di risparmiatori e imprese hanno versato lacrime e sangue, letteralmente, per le conseguenze sia delle restrizioni del credito, sia per la distruzione del risparmio garantito dalla Costituzione Italiana.

Signori ignoti che da Paesi lontani movimentate la finanza mondiale, voi fate scrivere di agire per la stabilità del sistema bancario ma, nei fatti, voi rubate la vita e il futuro della povera gente, costringendo le imprese a chiudere, imprenditori a impiccarsi e darsi fuoco, anziani a vedere bruciare i risparmi di tutta una vita, fregati da tecnicismi giuridici incomprensibili, giovani ad emigrare perché avete gettato la liquidità sui tavoli delle borse, nei derivati e nei fondi speculativi, togliendola a chi sostiene i posti di lavoro. Voi fate sproloquiare astutamente di andare avanti, di riforme, di progresso, e fate raccontare che questo sarebbe l’Unione Bancaria Europea. In realtà non fate sapere al popolo le cose come stanno, e cioè che l’unico modo di procedere sarebbe quello di fermare tutto, fermare l’ingiustizia e tornare a un mondo giusto, ad una economia umanistica, nella quale sia l’uomo, e non il mercato, il cuore del nostro agire. Questa sarebbe la cosa giusta da fare, perché ciò che voi chiamate libero mercato altro non è che un sistema prevaricatorio di pochi che, mediante informazioni assunte in un sistema di relazioni sleali, si arricchiscono a dismisura ai danni di molti: i poveri, i semplici, le persone comuni, gli ultimi.

Signori politici, sembra che vi stiate occupando di questioni tecniche, tralasciando l’attacco al tema strategico. Scopo di una Banca Centrale è creare e gestire i soldi di un popolo. Per questo, la Banca Centrale deve essere detenuta dal popolo. Se invece, come accade ora, lo Stato, che quel popolo rappresenta, prende a prestito il denaro da un sistema di banche private, che a loro volta lo moltiplicano come i pani e i pesci, allora il governo sarà costretto a vessare il popolo di tasse e balzelli per ripagare il profitto indebito privato. Il cuore del problema politico è che non siamo più in una economia a regia pubblica, ma privata. Così stando le cose, siamo in una democrazia apparente, ma non di fatto, al punto che diventa perfettamente inutile e financo illusorio il diritto e l’esercizio del voto, poiché nessun governo, servo del sistema bancario privato, sarò mai in grado di esercitare il mandato del popolo sovrano. Signori politici, se noi non decidiamo di fare, finalmente, ciò che è giusto, costi quel che costi, invece di ciò che è ragionevole politicamente, allora non ci sarà mai speranza per la povera gente. Dobbiamo concentrarci sulle soluzioni alle ingiustizie e se il nostro sistema regolatorio non consente di trovare una soluzione, allora, ebbene, se ne deve convenire che si debba radere a zero questo sistema di regole ingiuste e crearne altre più eque. Lo dobbiamo fare perché non è più tollerabile, sull’altare della presunta efficienze, il sacrificio di tanti per il privilegio ingiusto di pochi.

So bene a quali rischi mi stia esponendo, anche per la credibilità correlata alla mia professione, nella quale quasi tutti recitano una diversa litania, per convenienza o interesse. Non mi interessa essere deriso; mi interessa essere vero, Ed è vero che, se la sofferenza di tanti è tollerata per il privilegio di pochi, allora questo sistema economico è, semplicemente, sbagliato.

Signori privati, voi oscuri demiurghi di sventura, voi dioscuri della povertà, voi saccenti profeti di tristezza, voi avete ignorato per vostro tornaconto il pianto di un popolo per anni, e lo ignorerete ancora, ma io sono qui a dirvi, ad annunciarvi, come ultimo dei cittadini, che il popolo sta cominciando a capire e che, quando il popolo si muove, le cose cambiano; e per questo semplice fatto cambieranno, che a voi piaccia, oppure no. Succederà perché, al di là di ciò che pensano i neoliberisti che ci raccontano da decenni che il pianeta sia guidato dai mercati, al contrario il mondo è guidato da tempo immemore dalla libera mente dell’uomo. Quella mente, per secoli, ha sempre condotto l’umanità sui binari da cui siamo usciti. Binari diritti, che non consentono una deroga di viaggio: la direzione si chiama morale.

Signori politici, voi siete degli illusi a pensare di potere risolvere i problemi del nostro Paese con gli accordi, con le deroghe, le riforme negoziate con l’Europa. E’ finito il tempo del politico; è giunto il tempo dello statista. Qui serve qualcuno che si alzi in piedi e dica, semplicemente, che l’Italia, erede di un pensiero millenario che parte dall’antica Grecia e attraversa il mondo latino e poi il razionalismo occidentale, è portatrice di una rivoluzione culturale. Quell’uomo dovrò dire al mondo che il sistema di pensiero che è alla base del modello economico degli ultimi quarant’anni non va riformato o migliorato con mediazione o negoziazione; esso va raso a zero.

Ci sono momenti nella storia nei quali, per procedere, bisogna distruggere fino alle fondamenta per poi ricostruire, su basi diverse. Io penso che fino a che il mondo politico non affronterà questa, che è la principale delle questioni, saremo sempre qui a vivacchiare da una elezione fintamente democratica alla successiva. Solo che, nei lustri, le generazioni italiane invecchiano, le donne incinte con gravidanza a rischio sono mandate a casa perché gli ospedali devono risparmiare, gli anziani devono rivolgersi a sanità private per evitare code interminabili, milioni di poveri non arrivano a fine mese e rovistano nei cassonetti, migliaia di imprenditori italiani si sono dati fuoco o impiccati per motivi economici, centinaia di migliaia di italiani giovani e per lo più acculturati fuggono a cercare lavoro all’estero, mentre i nostri telegiornali ci parlano solo di barconi.

Il sistema economico comporta una lotta che si ripete da decenni, mentre noi siamo qui a dibattere di sciocchezze, di percentuali di prodotto interno lordo, tra poltrone di velluto. Ma non capite che occorre alzarsi in piedi e dire, semplicemente; basta? Abbiamo un mondo in cui la gente crede davvero che non ci siano i soldi per fare le cose, quando la verità è che le cose si fanno col lavoro dell’uomo e che i soldi si creano premendo un bottone. Il problema è chi ha in mano quel bottone. Non è più tollerabile che il bottone della moneta sia nelle mani private: noi vogliamo che la mano che preme quel bottone torni a essere pubblica.

Abbiamo un mondo in cui la gente pensa davvero che il problema sia il debito pubblico, e nessuno ha compreso che esso è l’altro lato della medaglia che si chiama ricchezza privata. Il problema è chi detiene quel debito: noi vogliamo tornare ad avere nelle case italiane quel debito, come risparmiatori italiani, perché quel debito è contratto per la nostra casa, che si chiama Patria, e non siamo disposti a vendere il Colosseo o gli Uffizi a banche estere private, perché i sonetti di Dante e le opere di Cicerone non sono in vendita, poiché non è in vendita la nostra memoria. Non entrerò quindi nel tecnicismo delle scelte economiche necessarie per liberarsi dalla schiavitù dello spread, ma dico chiaramente ai politici che per risollevare l’Italia servirebbe un piano di espansione di spesa pubblica che le attuali regole europee non consentono. Siete degli illusi o dei pusillanimi a pensare di potere trattare con una tigre. La tigre si doma con la forza. La nostra forza è quella della ragione e della giustizia.

Voi dovete fare una e una sola cosa: chiedere a gran voce che l’economia torni sotto la morale. Per millenni, da Aristotele ad Adam Smith, tutti i grandi economisti erano filosofi morali. Questo è il tema cruciale della rivoluzione economica del ventunesimo secolo. Oggi ciò che domina il mondo è la finanza, che condiziona l’economia che ricatta la politica, al di fuori della morale. In questo schema le vostre tattiche sulle pensioni a quota cento o sul reddito di cittadinanza sono visioni di breve termine, collocate nel battito di ciglia tra un sondaggio e il successivo. So bene cosa state pensando: parlare di morale come struttura sovra-economica non porta voti, perché la gente non capisce. Non curatevi dei sondaggi, se avete a cuore il vostro Paese e sappiate che la gente è buona e, se voi parlerete il linguaggio delle persone e non delle burocrazie, capisce benissimo. La rivoluzione culturale alla base di qualsiasi speranza di salvezza non può che passare quindi da un manifesto per l’economia umanistica.

L’economia umanistica è la sfida di questo secolo, che seppellirà come incidente storico quella capitalistica. L’economia umanistica è ancella della filosofia morale, ma comanda la finanza, poiché la moneta è solo il prezzo delle cose, ma l’anima dell’uomo non è in vendita. Io sogno un manifesto per l’economia umanistica che, partendo da qui, da poche persone, dall’Italia, venga sottoscritto da tanti cittadini italiani e poi magari europei e forse un giorno del mondo. Il cuore del marcio degli ultimi quarant’anni almeno è il fatto che abbiamo costruito una economia a favore di alcune persone, e non delle persone.

Il cuore del documento di questo manifesto per l’economia umanistica deve essere l’uomo al posto del mercato, il lavoro in luogo del capitale, la produzione reale in sostituzione dei pezzi di carta. Se non avremo il coraggio di mettere nell’agenda politica al primo posto un manifesto per l’economia umanistica, saremo sempre schiavi di chi fa scrivere che il Botswana ha un rating superiore all’Italia perché ha miniere di diamanti. Dobbiamo spiegare al mondo che l’Italia vuole tornare a investire, bruciando le attuali regole del gioco sull’altare della giustizia, nelle proprie campagne, nei nostri campi, perché sono i nostri poeti che rispondono all’ignoranza dei diamanti del Botswana. Dai diamanti non nasce niente – cantava un italiano – dal letame nascono i fior.

Io sogno che sufficienti persone sottoscrivano idealmente questa lettera aperta, affinché il mondo politico italiano capisca che non è più il tempo di vivacchiare, ma il tempo di tornare a vivere. Troppe persone stanno cominciando nel mondo a intuire la verità sotto il velo dell’inganno. Prima o poi, da qualche parte, un manifesto per una economia umanistica nascerà. Nascerà perché il cuore di un popolo per decenni ingannato e oppresso non può che rinascere orgogliosamente dalle proprie ceneri. Quando, sul braciere di un manifesto per l’economia dell’uomo, saranno incenerite le carte che ci tengono in catene sotto quelle del capitale, sarà un giorno di giubilo. Io sogno che quel giorno nasca qui, da un piccolo Paese che tanto contributo ha dato nei millenni al pensiero dell’uomo. Io non so se vedrò da vivo quel giorno. So però che quello sarà un giorno radioso non soltanto per gli italiani che avranno insegnato al mondo ad alzarsi in piedi.

Quello sarà un attimo, indelebile, nella storia eterna dell’umanità.

Pavia, 26 gennaio 2019
Valerio Malvezzi

Firma il Manifesto per una Economia Umanistica

https://it.surveymonkey.com/r/EconomiaUmanista

Leggi i commenti di chi ha già firmato: https://it.surveymonkey.com/stories/SM-MK293X38/

Economia, Europa, Politica, Unione Europea, Verso le elezioni europee

La crisi che verrà, cambierà ancora lo scenario politico interno. E l’Europa franco-tedesca sarà sempre più forte.

Riprendo un articolo di Roberto Marchesi apparso sul sito de il Fatto quotidiano (qui) dal titolo “Questo ciclo economico è alla fine. Un’altra recessione è alle porte”. Ma anche altri annunciavano la recessione nel 2019. Nella speranza che la recessione resti tecnica e non si traduca in una nuova crisi economica, segno della chiusura del ciclo economico di crescita. Dimenticavo un crisi ora ci colpirebbe in modo drammatico non essendo come sistema paese riusciti a ritornare alla situazione pre-crisi 2008. Un dato è incontrovertibile, la recessione tecnica conseguenza di diversi fattori, tra i quali l’insufficienza delle politiche della precedente legislatura e del Governo Gentiloni troppo appiattite sui modelli imposti di austerità, consente, nostro malgrado di verificare se le misure messe in campo dal Governo del cambiamento sono state adeguate e sufficienti o dovranno essere implementate sforando quel limite anacronistico del 3% imposto da Bruxelless. D’ora in poi verificheremo cosa il Governo Conte sarà in grado di fare per affrontare la recessione e capire quali correttivi saranno adottati alla politica economica gialloverde. Spero sicuramente in una manovra correttiva, ma non di aumento delle imposte, semmai di espansione, a deficit, della spesa produttiva e degli investimenti necessari per stimolare l’economia in recessione. Un anno bellissimo lo ha definito il Presidente Conte, lui è consapevole che saremo pronti a osannarli se ci salveremo, ma anche pronti a spazzarli via se falliranno. E’ indubbio che le crisi economiche hanno già fatto vittime illustri. Nel 2008 la grande crisi ed il governo Berlusconi in carica proprio dal 2008 è finito con Governo in vitro guidato da Monti. Siamo nel 2019 e la recessione tecnica, rischia di diventare una seconda crisi che metterà a dura prova i debiti sovrani. Ma Draghi non interverrà prontamete. Attenderà che la crisi si evidenzierà in modo chiaro prima di proporre un nuovo QE alle cui condizioni gli Stati non metteranno ostacoli. Altra cessione di sovranità, in cambio di una ombrello protettivo. Uno scenario che speriamo sia scongiurabile. L’Europa delle banche sarà pronta ad approfittarne e vorrà la rivincita sui populismi. Arriverà la proposta di Debito pubblico europeo (di figli e figliastri ovviamente). E l’accordo di Aquisgrana tra Francia e Germania recentemente siglato sarà messo in atto. Saranno loro a governare il debito pubblico dell’area euro. Saranno loro a pretendere un”Unione europea a due velocità. Un’Europa che illusoriamente si presenterà con due facce, ma il risultato non sarà altro che quello che è già prestabilito, un ulteriore passo verso l’integrazione europea a guida franco-tedesca, dove la parte tedesca continuerà a guidare le politiche europee e la parte mediterranea continuerà a restare su quel piano inclinato quanto basta per non scivolare nell’abisso. Un colonialismo interno vestito da cooperazione solidaristica. Ma il punto è il seguente: la nostra attuale classe politica si accoderà o farà saltare il tavolo?

Quando si parla di borsa e mercati, parlare di “fine di un ciclo” significa innanzitutto dire che una burrasca per i risparmiatorista arrivando. In questa occasione non si tratterà di una semplice “correzione” (riaggiustamento dei valori, nda) ma sarà certamente una fase recessiva probabilmente lunga e pesante, visto che, oltre ai fenomeni soliti (di seguito descritti), questa avrà caratteristiche globali molto più ampie e contemporanee. Sarà perciò impossibile, nello spazio breve di questo articolo, descrivere compiutamente l’intero intreccio di tutti questi fenomeni, e le responsabilità di chi li governa, ma colgo l’occasione di un chiarissimo articolo pubblicato questo mese dalla popolare rivista americana Fortune, sotto il titolo: “The end is near for the economic boom” (La fine è vicina per il boom economico), per suonare anche qui le sirene, perché quando una crisi arriva negli Usa diventa sempre globale.

Vediamo dunque quali sono questi indicatori economici che fanno scattare l’allarme.

Il primo è il Treasury yield curve (vedi grafico sotto), quello che segna la differenza tra il rendimento delle obbligazioni di medio-lungo periodo da quelle a breve scadenza. E’ un classico: quando questo indicatore arriva all’inversione, cioè quando i bond di breve periodo danno rendimento maggiore di quelli a lunga scadenza, significa che il mercato è arrivato al punto di “correzione” ovvero: l’ottimismo deve essere sostituito dalla prudenza.

L’altro sicuro indicatore che preannuncia l’inversione di tendenza, e l’imminente entrata in recessione, è quello della disoccupazione.

Davvero curioso questo indicatore, perché è come guardarsi allo specchio, ti vedi al contrario di come sei in realtà e di come ti vedono tutti gli altri. Quando esso segnala il massimo del bel tempo significa che è in arrivo la tempesta! E’ davvero strano, ma finora non ha mai fallito!

L’anomalia sta (forse) nel fatto che, essendo un indicatore molto seguito anche a livello popolare, il bassissimo livello dei disoccupati consente all’indice della “confidenza”, cioè il gradimento popolare, di volare alto anche se in realtà, proprio sul piano economico, segnala “brutto tempo in arrivo” a causa dello squilibrio che si viene a creare per l’eccessivo ottimismo.

Un indicatore che invece tutti capiscono è quello dell’indebitamento, sia pubblico che privato che sta salendo senza freni e senza alcun serio motivo. Geoff Colvin, l’autore dell’articolo di Fortune citato sopra, attribuisce questa imprudenza all’eccesso di confidenza, ma sulla crescita della spesa pubblica la responsabilità (anzi, l’irresponsabilità) non può essere d’altri che di Trump, che evidentemente cura altri interessi invece che quelli della nazione.

Ma anche l’indebitamento privato è arrivato ad un livello preoccupante, e non otterrà grandi benefici dalla “flat tax” di Trump, dato che non ce n’era bisogno. Infatti le imprese, mediamente, si sono indebitate senza che ve ne fosse reale bisogno dato che il loro boom economico dura da decenni avendo attraversato senza gravi danni tutte le recessioni incontrate. “Bonanza” è cominciata per loro da Reagan in poi e dal 1997 (anno della completa liberalizzazione delle banche) la media annuale degli utili (fino al 2017) è stata del 7,2% (indice S&P).

Non sapendo come investire proficuamente quella “manna” dal cielo optano in gran parte sul “buy-back”, cioè l’acquisto di azioni proprie che, pur dando maggiore solidità finanziaria all’impresa (spesso non necessaria), non trova poi fattivo utilizzo imprenditoriale. Sono come la medicina data a chi non ne ha bisogno. Finirà col far male invece che bene.

Infatti, con una disoccupazione così bassa questa orgia di utili inutili produrrà solo inflazione, che la Banca Centrale (la Fed) sarà disarmata a quel punto a contrastare, perché Trump sta già usando dissennatamente tutti gli strumenti di politica economica al solo scopo di produrre (per se stesso) “armi di distrazione di massa” senza benefici reali per l’economia e per la gente, che anzi viene sempre più mortificata dalle sue scelte strampalate.

Persino Bernanke, l’ex presidente Fed repubblicano che si è trovato nel 2008 proprio nel vortice della prima “Grande Recessione” della storia economica, e ha trovato nella sperimentazione su larga scala del Quantitative Easing la via per accompagnare coerentemente il presidente Obama fuori dalla crisi, ha avuto parole di forte critica per Trump: “Questi stimoli all’economia arrivano nel momento sbagliato, Wile E. Coyote is going to go off the cliff” (mentre Willy Coyote vola giù dal precipizio).

Ci sarebbe ancora molto da dire ancora sulle politiche di Trump: la guerra dei dazil’autarchial’arroganza politica con cui vuole trattare nemici e alleati allo stesso modo, ecc. ecc. ma qui non ho più spazio. Questo ciclo economico va ad esaurirsi proprio nel momento peggiore. Ci sono già tutti i segnali della depressione in arrivo (ma non aspettatevi, avverte Geoff Colvin, che siano gli economisti a suonare la sirena, “loro non lo fanno mai!”), tuttavia, inspiegabilmente, la cosa non sembra interessare l’amministrazione Trump.

Tra pochi giorni (il 15 settembre) saranno dieci anni esatti dal grande crollo in Borsa del 2008 che ha accompagnato il fallimento di Lehman Brothers. Speriamo che la storia non si ripeta.

Shoah

Ricordare ci rende migliori

Oltre la memoria: il ricordo dell’Olocausto ha avuto in città e provincia echi imprevisti, per quantità e qualità.

Non è solo una impressione personale. Tutte le cronache di queste giornate della memoria testimoniano di una alta partecipazione, di una corale mobilitazione. Il ricordo dell’Olocausto ha avuto in città e provincia echi imprevisti, per quantità e qualità. Mai tante letture, mai tante serate di incontro, tante pietre di inciampo. A Provaglio in una affollata S.Pietro in Lamosa, decine di cittadini si sono alternati nella lettura di brani a tema. La scuola primaria di Ghedi ha scritto storie di deportati. A Calvagese folla alla posa di due pietre della memoria. In città decine le iniziative. Quasi tutti i comuni della provincia hanno ospitato eventi, concerti, racconti, ricordi. Se ne può trarre una sintesi, è lecito cercarvi un insegnamento? Forse no. Eppure ci deve essere un senso. Quantomeno è lecito leggervi una occasione positiva in un tempo che è un concentrato di notizie deprimenti. Forse l’opportunità che il ricordo di una storia così tragica ha dato a molti di testimoniare il bisogno di resistenza contro la rabbia, (il Censis la definisce cattiveria), che sarebbe il substrato della nostra identità definita dai social. La società vista nei giorni della memoria è di gran lunga migliore di quella che la difficile convivenza politica e sociale dei tempi che attraversiamo ci fa vedere. Forse, inconscia, abbiamo la necessità di ritrovare, magari solo per un giorno, sentimenti forti, radici che non mollano, idee che resistono sopra la superficie della liquidità civile. Chissà, la memoria ci aiuta a capire che il futuro ha bisogno anche, forse soprattutto, di etica.

Fonte: Corriere Brescia Editoriale di Tino Bino.

Europa, Politica, Sovranità

Perchè Draghi fa’ paura. Come Stalin. di M. Blondet

“Un paese perde sovranità quando il  debito è troppo alto”,  ha esalato Mario Draghi   in audizione all’europarlamento giorni fa.

Sui blog di chi capisce queste cose, ci si è stupiti e indignati. Alcuni  sarcastici:  Draghi ha riportato in vigore la schiavitù per debiti, un  grande progresso del  capitalismo. I commenti sottolineano la palese menzogna: il Giappone ha un debito del 240 per cento e non ha perso sovranità. Altri fanno notare invece che il Venezuela ha un debito pubblico del 23%, quindi dovrebbe essere solidamente sovrano..

Altri replicano che il debito è fa perdere sovranità solo se si è nell’euro, ossia se non  si ha una propria banca centrale d’emissione e prestatore d’ultima istanza. . Che uno stato  perde sovranità quando ha  debito denominato in moneta straniera, come noi italiani con l’euro – che per noi è una moneta straniera, che non possiamo manovrare.

Uno stupore generale perché pare che Draghi non sappia quello che fa  alla BCE, ossia creare  denaro dal nulla in quantità illimitata, cosa che fanno anche stati sovranissimi come il Giappone e gli USA.

Stupore che Draghi  dica  cose come:

“un paese perde la sua sovranità (…) quando il debito è così alto che ogni azione politica deve essere scrutinata dai mercati, cioè da persone che non votano e sono fuori dal processo di responsabilità democratica”.

“Ci sono i mercati. I mercati dicono a un paese cosa ci si può permettere e cosa no, cosa è credibile o cosa no”.

Ancor più stupisce che Draghi, per  smentire coloro che credono che l’Italia avesse la sovranità monetaria prima di entrare nell’euro – o diciamo, prima dell’81, quando la Banca d’Italia  aveva l’obbligo di comprare i titoli di debito  del Tesoro  eventualmente invenduti, egli replica: “Anche quelli che svalutavano regolarmente non avevano sovranità, perché quando si guarda a come si misura la sovranità,  la  stabilità dei prezzi e controllo dell’inflazione e della disoccupazione, questi paesi facevano peggio di quelli che si agganciavano (al marco) se si guarda ai numeri in 15-20 anni” (…).

Dunque Draghi ignora che  svalutare è  appunto un atto della sovranità  politica? Come lo è, al contrario, decidere di agganciare la lira al marco?  Ci si deve chiedere  che cosa intenda alla fine questo banchiere centrale per “sovranità”: pare averne una idea estremamente equivoca. La  confonde  con concetti diversi, come”forza”, potenza,  ricchezza eccetera.  Gli sfugge completamente – possibile? – che “sovranità” è una condizione giuridica:  la condizione di  indipendenza  legale,  analoga nell’individuo privato  alla “personalità giuridica”:  uno che ha personalità giuridica   è uno che può stipulare contratti, sia il suo reddito modesto o ricchissimo, non è quello che fa differenza.

Draghi dice  altre cose strane: che prima, c’era “Il caro vita”, miseria e guerra.  Prima, c’era disoccupazione  maggiore di oggi: cosa  falsissima. Dice che oggi  “la  moneta unica ha rafforzato l’occupazione dal 59 al 67%  e diminuito la  disoccupazione”.   Dice che le banche greche oggi “sono ben capitalizzate”. Dice che “c’è unanimità nel consiglio direttivo che la probabilità di una recessione sia bassa”, proprio mentre  i dati dell’economia tedesca cadono.

Insomma dice, con quella faccia sempre uguale e la voce sempre calma, tante enunciazioni smentite dai fatti reali, che alla fine, l’impressione che incute è di sottile, gelido terrore. Il terrore che ti prende quando ti   trovi davanti ad un autistico psicopatico, cui è stato dato il potere supremo, quello monetario.

Il terrore poi cresce quando si  deve constatare che quella di Draghi non è una sua privata follia.  Lo  stesso rapporto falso con la realtà lo ha  rivelato  condivisa per esempio dal governatore di Bankitalia, il grandemente inadempiente e non-sorvegliante Visco, che in una conferenza alla Scuola di Sant’Anna ha esalato:

Se c’è una tassa iniqua è proprio l’#inflazione, perché è regressiva e impedisce di occupare le persone: prima che ci fossero gli strumenti di #politicamonetaria per contrastarla, i tassi di disoccupazione erano alti e le crisi industriali parecchie”. 

 

Visco: “In Italia abbiamo avuto periodi con inflazione al 20%, non c’erano strumenti di politicamonetaria per contrastarla: fu con il divorzio Bankitalia/Tesoro che venne riportata al 5-6% e la “tassa di inflazione” spa  Alla  presentazione di  “AnniDifficili” a Pisa

 

Una frase così falsa da lasciare senza fiato.

“Embé, da un governatore non se po’ sentì ’sta cosa”, commenta uno.

Zibordi: “Ma che razzo dite ? negli anni ’70 la distribuzione del reddito a favore del lavoro dipendente raggiunse il massimo. L’inflazione era alta, ma perché la quota del reddito che andava al lavoro era alta (e gli aumenti salariali spingevano l’inflazione)”. E lo dimostra con questa tabella:

Leonardo Sperduti: “Negli anni 70 la capacità di risparmio netto è stata massima. Ma a loro piace cambiare la storia e rinnegare i dati”.  …”Siamo ancora al livello che emettere moneta crea automaticamente e direttamente inflazione? Quanta moneta è stata emessa dalle banche centrali mondiali? A quanto è l’inflazione in Europa, USA, UK, Giappone ecc?”.   Infatti s’è instaurata la deflazione,  ela BCE non riesce a portare l’inflazione almeno al 2%, come sarebbe obbligata a fare.

Inflazione tassa regressiva? Che colpiva i poveri?

“Allora, gli operai compravano casa e facevano laureare i figli. Ovvio che i rentier si sentissero erodere il potere”, rimbecca uno. “Guarda caso in quei periodi di inflazione brutta brutta, anche gli operai delle acciaierie compravano case ed appartamenti”, rincara un altro.   E il tutto comprovato con tabelle e statistiche di quegli anni della lira e della sovranità monetaria.

Disoccupazione anni 70, media 6%. Inflazione anni 70, media 16%- Oggi: Inflazione 2018 1,1%; Disoccupazione 11%

E non è nemmeno vero che l’inflazione abbia raggiunto il 20%, come afferma mentendo Visco (e con lui Giannino  Oscar, il laureato di Chicago):

Ma chiunque abbia vissuto quegli anni  da adulto e lavoratore, lo sa e lo conferma: l’inflazione conviveva col pieno impiego, anzi i politici erano “ossessionati dal pieno impiego” (disse Andreatta), e il risparmio privato degli italiani aumentò fra i più alti del mondo.

Anche il PIL reale (ossia al netto dell’inflazione) cresceva negli anni “bui” della lira svalutata e inflazionata: del 4% annuo. Oggi, nella stabbilità dell’euro, cresce dello 0,2% annuo. (Dragoni su dati CGIA)

Con che faccia Visco e Draghi – ed evidentemente  gli altri membri della BCE – dicono il contrario? E’   perché condividono totalitariamente – e totalitariamente impongono alla realtà e ai popoli –   la loro ideologia.  In ciò somigliano terribilmente al PCUS degli anni ‘3, dello stalinismo sovietico,    quando le radio proclamavano “la vita diventa ogni giorno più facile e felice, grazie al compagno Stalin!”, e intano la gente faceva le file davanti alle botteghe perché mancavano il latte, le salsicce, il formaggio  e il pane,  perché il Partito stava  “eliminando i kulaki come classe”, provocando la carestia. Nessun riscontro con la realtà fletteva la visione ideologica dei capi, nessuna pietà li piegava. Quando Svetlana,  la figlia di Stalin, di ritorno dalla  vacanza in Crimea, disse a papà che attraversando l’Ucraina aveva visto cadaveri  sulle massicciate  e folle di scheletri che si affollavano attorno al treno chiedendo un tozzo di pane, Stalin  ordinò: quando i  treni attraversano l’Ucraina, abbassare le tendine!

Daghi , Visco ispirano lo stesso terrore e ci convincono che siamo entrati in un nuovo totalitarismo e ”regno della menzogna”, anti-umano e distruttore di popoli. Non sono lontani di aver fatto ai greci ciò che gli ideologici del PCUS fecero aikulaki, ma Draghi dice che adesso le banche greche sono ben capitalizzate…E i media,come allora, giurano su queste odiosità e falsità e le diffondono come fossero il Verbo, l’Autorità salvifica.

Anche Ashoka Mody,  l’economista di Princeton, ha notato lo stesso scollamento fra il reale e le espressioni di Draghi quando costui ha celebrato festosamente il ventennio dell’euro. “Il tributo di Draghi all’euro rivanga miti già da lungo tepo confutati”

E Mody ne esamina quattro. Il primo:

E’ il mercato unico a necessitare di una moneta unica. No, non è vero”.

Mody cita una serie di studi complessi che  smentiscono come il commercio  sia migliorato “eliminando i costi dei pagamenti in valuta estera e degli accordi e del rischio di cambio delle coperture”. Li lasciamo ai lettori  più eruditi, perché noi ci accontentiamo di una tabella:  dove si vede che la Germania ha aumentato il commercio  con paesi che non hanno l’euro (Polonia, Ungheria, Cechia) e  diminuito i rapporti commerciali con Francia e Italia, paesi   che hanno l’euro.

“La sovranità monetaria crea più problemi di quanti ne risolva, dice Draghi.  Ma è  così?”

Draghi lo afferma  mostrando come si comportarono i governi e i politici  negli anni 70-80,quando abusarono del potere  sovrano delle loro banche centrali di stampare moneta, creando  vasti deficit di bilancio.  Dice insomma che farebbero lo stesso oggi.  Mody risponde che gli anni ‘7’0 furono anni “eccezionali”, in parte l’inflazione aumentò per  i rincari petroliferi, che portarono anche un brusco rallentamento della crescita, facendo entrare l’Occidente intero nel periodo chiamato di “stagflazione” (inflazione con stagnazione).  Ma poi le nazioni occidentali hanno imparato a disciplinare se stesse anche non adottando una moneta unica. Mody ricorda che   la speculazione (di oros) che  forzò  il Regno Unito ad uscire dal serpente monetario nel’92,  “fu una benedizione  mascherata da maledizione”, perché allora l’economia inglese crebbe grazie alla svalutazione della sterlina. (e potrebbe dire lo stesso dell’Italia, che subì lo stresso attacco). Mody cita uno studio importante degli economisti “ Jesús Fernández-Villaverde, Luis Garicano e Tano Santos  che  hanno sostenuto il contrario : l’euro ha indebolito la disciplina macroeconomica. Una politica monetaria comune per la zona euro ha portato i tassi di interesse a scendere troppo rapidamente per i paesi con strutture istituzionali deboli. I governi di questi paesi hanno approfittato dei tassi di interesse più bassi per aumentare , in deficit, i benefici  ai gruppi  favoriti (i parassiti)  piuttosto che impegnarsi nella più dura attività di investimento per aumentare i loro potenziali tassi di crescita. Lungi dall’infliggere la disciplina, la moneta unica l’ha sovvertita.

Soprattutto, “è sconcertante che Draghi non prenda in considerazione  il beneficio più importante della sovranità monetaria, la capacità di assorbire forti shock economici attraverso  le svalutazioni del tasso di cambio.  […] Il  deprezzamento per assorbire gli shock è inequivocabilmente auspicabile. Inoltre, nella misura in cui   la svalutazione del cambio accorcia il periodo di sofferenza a seguito dello shock, aiuta anche ad evitare le recessioni estese, che  questa  recente ricerca sottolinea che minano  il potenziale di crescita a lungo termine .

Altra falsa asserzione di Draghi, gravissima:

L’eurozona promuove la convergenza economica. No non lo fa.

“I padri fondatori dell’euro avevano ragione, dice Draghi,  che la “cultura della stabilità”imposta  dalla moneta unica avrebbe promosso maggiore crescita e occupazione. E cita a prova  la “convergenza”, il restringimento delle differenze di reddito pro capite tra i paesi membri della zona euro. Draghi riconosce che il Portogallo e la Grecia hanno stagnato e divergono piuttosto che convergere. E stranamente, non cita l’Italia (che non converge affatto, ndr.) . Tuttavia, in difesa della tesi di convergenza, indica i paesi baltici e la Slovacchia come successi.

Dopo aver dimostrato i motivi del tutto speciali per cui “la Slovacchia , entrata nell’eurozona nel 2009, l’Estonia nel 2011, la Lettonia nel 2014 e la Lituania nel 2015”  erano già fortemente convergenti prima  grazie anche al loro solido capitale umano (di lavoratori qualificati) ereditati dagli anni sotto la pianificazione socialista” come documentato quiqui , Mody rimprovera apertamente Draghi: “un  simile  uso selettivo delle prove è altamente discutibile” sul piano scientifico. Il fatto che non citi l’Italia che sta divergendo, e  citi l’Estonia che  converge, è profondamente  disonesto.  E’ la disonestà “col paraocchi” e “ammantata di  superiorità”  di un  ideologo che non vuole riconoscere la realtà, quando smentisce le sue teorie, invece di riconoscerle sbagliate.

Le conseguenze di una tale falsa narrativa possono essere gravi”, avverte Mody.

“I premi Nobel George Akerlof e Robert Shiller sottolineano il ruolo cruciale che le “storie” giocano nel determinare politiche e risultati economici. Ripetute all’infinito, le storie che ci raccontiamo diventano la nostra forza motivante, che ci spinge a ignorare le prove contrarie.  Mentre si diffondono,  hanno un “impatto economico”. Spesso un impatto politico più terribile”, dice l’economista indo-inglese.

Noi,  nel nostro piccolo, non abbiamo bisogno  di attendere i suddetti premi Nobel: abbiamo visto i danni che la “narrativa” marxista e sovietica, applicata dal KGB,  ha inflitto alla  Russia e all’Est europeo in mancato sviluppo e perdite umane.

Ma soprattutto nella chiusa del suo discorso, Draghi proclama che “l’unione monetaria era necessaria per porre fine a secoli di “dittature, guerre e miseria” e invece l’euro è “il segno definitivo  del “ del “progetto politico europeo”, che unisce gli europei “in libertà, pace, democrazia e prosperità”. E qui  davvero, dice anche Mody,  il discorso di Draghi   diventa “scary”, ossia  “fa paura”: “perché le nazioni europee sono più divise che mai, dal tempo della seconda guerra mondiale, e l’euro ha contribuito notevolmente ad approfondire l’euroscetticismo”, e in Francia la “democrazia” di Macron spara sui cittadini non meno della dittatura di Maduro.

Economia, Il Commento, Sovranisti

La miopia del sovranismo nostrano. Nel mondo della Brexit, della Cina, della Germania, e di Trump.

https://www.paolobarnard.info/intervento_mostra_go.php?id=2127

La visione di Paolo Barnard.

Il Sovranismo monetario italiano e la MMT rischiano di screditarsi per abbagliante miopia. Va fatto altro con urgenza. Ma onestà intellettuale impone di avvisare subito: non siamo più nel 2011, siamo in un altro secolo economico ora. Ciò che va fatto per avere una realistica speranza di vedere l’Italia fuori dall’euro è adesso di una mole e complessità spaventose. Per quanto ho visto, quello che ancora vi raccontano i vari gruppetti Sovranisti con leaders al seguito, e anche la MMT, sono solo frottole decadute oggi. Ma iniziamo da questo:

– Siamo travolti da un Vajont di dati catastrofici sulla nostra economia.

– Siamo gli ultimi in Europa in quasi tutto: PMIndex, innovazione/tech, crescita salari, infrastrutture, la crescita PIL reale è a quasi zero e la crescita prevista è un miserabile 0,6% nel 2019.

– Infatti siamo proiettati al 2024 come ancora gli ultimi in UE e molto sotto la Spagna.

– Siamo gli unici del G7 a non aver mai recuperato ai livelli pre 2008.

– Siamo dietro a Polonia e Repubblica Ceca per produttività.

– L’export dei nostri marchi è in calo persino con la Germania.

– Le aziende del Nord Italia non solo neppure si sognano di parlare di “Relocation” (che è il processo di riportare in patria i posti di lavoro che avevano esportato a Est), ma stanno di nuovo scappando in Slovenia piuttosto che sborsare per il Decreto Dignità di un governo di stolti che gli impone solo quei costi, mentre non gli crea nessuna economia per poterli pagare, perché Lega e 5S dopo le strombazzate si sono messi a stuoino di Bruxelles, e sulle tasse hanno tolto i centesimi del caffè.

Poi ce ne sarebbe da arrivare a Pasqua a scrivere. I ristoranti sono pieni, certo, i ragazzini spendono, certo, e tutti questi non pensano a, né sanno, un cazzo. La realtà è che l’Italia sta vivendo su un immenso debito, e non parlo del Debito Pubblico, ma della legge economica inconfutabile secondo cui chiunque, come appunto la maggioranza degli italiani, campi bene mangiando sull’immenso risparmio nazionale, sta mangiando soldi che sono stati il debito di altrettanti italiani. E dove si va a finire per sta strada? Ovvio.

Poi certo, rimane sacrosanto l’assioma che siamo conciati così per colpa della Moneta Unica Euro (non riscrivo qui il mio lavoro di 10 anni). Ma è proprio qui che arrivo al punto.

Otto anni fa fu legittimo chiamare a raccolta gli italiani per insegnargli come uscire dall’euro in ’10 facili mosse’. Lo facemmo spiegando la MMT in conferenze, e io in Tv più libri, e fu un notevole successo, ma attenti: il mondo di 8 anni fa era letteralmente un altro pianeta. I cambiamenti oggi in fase di fulminea evoluzione sono colossali, e oggi tornare alla carica per uscire dal criminale euro con i grafici e le formulette sintetiche della Prof.ssa Stephanie Kelton e del Sig. Warren Mosler, o con le conferenzine del Sovranista di turno col Power Point, non è più neppure pallidamente sufficiente.

Ma, chiederete, cos’è cambiato? Inizio dalla prima evidenza macroscopica.

Brexit.

Pochi giorni fa ho scritto a due massimi economisti MMT, cioè Marshall Auerback e Warren Mosler, una mail dove esponevo i seguenti concetti qui sotto riassunti:

So benissimo che uscire dall’Unione Europea e dalla Moneta Unica sono due sfide enormemente diverse, la prima molto più intrattabile. Ma non esistono dubbi che la grottesca e davvero agghiacciante agonia persino di una Superpotenza come la Gran Bretagna a fronte del potere di fuoco di Bruxelles e della ansie degli investitori, cioè Brexit, abbia mandato a ogni singolo europeo, soprattutto agli imprenditori di ogni stazza esistente, un segnale di panico al solo pensare a qualsiasi proposta che contenga il suono “exit”…”

 “E questo ha una sua ragione però. In effetti nessuno nel 2016 si sarebbe immaginato fino a quali profondità, in ogni sfera del vivere di un Paese, una rottura con la UE e le ansie degli investitori avrebbero provocato 1)crisi di fiducia, 2) intrattabili intrichi legali capaci di protrarsi per anni o decenni 3) fibrillazioni politiche interne, 4) e concreti danni per miliardi…

Se, dopo quanto sopra, voi economisti MMT vi ripresentaste oggi in Italia, per poter essere presi sul serio su eur-exit dovreste saper rispondere a un volume di domande mille volte quelle che vi furono poste dal 2011 al 2014”.

Per essere oggi presi sul serio nel pronunciare un suono “exit”, anche solo parlando di Moneta Unica, voi e noi dovremmo confrontarci in sessioni di altissimo livello con tutti i maggior attori economici di questo Paese. E parlo di: banche, fondi comuni, lavoratori del settore pubblico e comparti occupazionali privati, grandi e piccole/medie imprese di ogni sorta, settore energetico, esportatori, agricoltori e interessi regionali con relative filiere produttive, sindacati, operatori del turismo, università e settore Tech, investitori e risparmiatori domestici di ogni portata, legislatori, ministeri e aziende di Stato, et al…

Li potremmo convincere anche solamente a iniziare a considerare un suono “exit” solo se noi e voi sapremo sederci in lunghi, costosi (!), tavoli dove dovremo rispondergli su ogni singola domanda – e saranno complessissime – per convincerli che esiste anche solo una moderata speranza di farcela fuori dall’euro, conciati come già siamo. E farcela considerando che questo Paese navigherà in un mondo che è un altro pianeta rispetto a solo 8 anni fa….”

Non meniamo il can per l’aia: qui si tratta di saper raccontare all’Italia intera esattamente chi vince e che cosa se si esce dall’euro – sperando che davvero la bilancia penda nei calcoli dalla parte sovranista – poi chi perde e in quanti perderanno, e la somma realistica dei prezzi, e per quanto tempo stimato i cittadini dovranno sopportarli. Incontri serrati, attore economico dopo attore economico, politico dopo politico, quindi una squadra MMT decuplicata rispetto al ‘facile’ 2011. Domanda: la potreste mettere assieme?”.

Prima di elencare altri fattori fra quelli che hanno totalmente cambiato le carte in tavola per un eur-exit, penso a cosa invece sta facendo il Sovranismo monetario nostrano in questo momento. Allora: per decenza umana – neppure parlo di un tipo di decenza superiore, come quella intellettuale, ma proprio quella di base – dal termine Sovranisti vanno oggi epurati Lega, Salvini e i vergognosi suoi economisti Pippo&Baudo. Cioè, c’è un limite all’indecenza, ok? La Meloni ha il know-how per uscire dall’euro di un criceto, Liberi & Uguali oltre a essere microscopici sono per ora non pervenuti. Quindi chi rimane in Italia? I gruppetti Sovranisti o formazioni politiche dello 0,2% circa. E questi che fanno? Stanno pensando forse di iniziare a costruire uno schieramento di esperti in grado di fare ciò che ho descritto sopra? Ma per favore.

Insistono nell’errore madornale di credere che ‘blogghett-ando’, ‘Social-ando’, e ‘conferenzin-ando’, hanno delle chance nell’era di Brexit di convincere un Paese moderno, e le sue imprese, a prendere di petto Bruxelles stracciandone i Trattati più centrali. E purtroppo la stessa cosa stanno facendo quelli della MMT. Addirittura, e credetemi mi duole dirlo, un economista della stazza di Marshall Auerback mi ha risposto liquidando la colossale vicenda Brexit come “colpa dell’incompetenza della May” e spedendomi un suo articolo sulla crisi della Moneta Unica che è una delle più banali e antiquate semplificazioni di ciò che sta accadendo qui che io abbia mai letto. Mi sono cadute le braccia.

Ma veniamo al resto di ciò che ha cambiato tutto rispetto al 2011.

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Nel 2011 alla domanda “e i disoccupati?” era possibile rispondere con la formuletta MMT dei Programmi di Lavoro Garantito (PLG) gestiti dallo Stato per formare ogni disoccupato, dandogli un lavoro in attesa che poi il settore privato recuperi a sufficienza per riassorbirli tutti. Ma:

1) In quegli anni non era ancora esplosa la fulminante rivoluzione delle Nuove Tecnologie e delle Artificial Intelligence. Ora tutto è diverso, e ditemi realisticamente che mezzi avrebbe lo Stato italiano sovrano nella moneta oggi per davvero prendersi, ad esempio, un magazziniere disoccupato e formarlo con un lavoro di Stato negli Smart Logistic Networks zuppi di Artificial Intelligence (spiegati qui), ma che sono la realtà e futuro di qualsiasi azienda competitiva? Lo Stato italiano manco sa cosa sono gli Smart Logistic Networks, e allora quale azienda si prenderebbe oggi un disoccupato formato dai PLG di Stato a sistemi da anni ’90? Lo stesso vale per molti altri mestieri dove almeno le basi della Machine Learning stanno diventato pane quotidiano.

2) In quegli anni la Cina sembrava destinata a tirare come un toro l’intero mondo sia esportandoci a bassi costi, sia comprandoci montagne di cose. Quindi il settore privato italiano poteva supporre uno stato di salute tale da davvero riassorbire almeno una parte dei lavoratori alimentati dai PLG di Stato. Oggi la Cina non solo è piantata e nessuno davvero sa come, e se mai, ripartirà come prima (si veda anche lo stallo improvviso del suo faraonico progetto multi miliardario della Nuova Via della Seta), ma è in guerra di dazi con Trump, e non se ne vede la fine. Ci saranno delle tregue, ma non la fine. E’ ormai noto che persino l’economia tedesca si sta arenando per questi motivi, e Berlino ha ammesso che nel 2019 la sua crescita sarà la più bassa da 6 anni. Ribadisco: se cala la Germania, sono ancora batoste per le aziende italiane, poi ci mettete il fattore Cina e altro che assumere quelli del PLG in un settore privato italiano fiorente.

E allora, detto tutto ciò, dove finisce la facile formuletta 2011 del “Disoccupazione? C’è il PLG, no problem” della MMT?

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Nel 2011 l’idea di un’Italia giacobina, cioè clamoroso e isolato esempio di rottura dai sistemi globalisti sovranazionali, ci esaltava, ci sembrava plausibile anche nel terzo millennio. Oggi invece abbiamo sul tavolo le evidenze agghiaccianti di come l’isolazionismo nel XXI secolo, anche se giusto in linea di principio, venga macellato senza pietà, addirittura peggio che in epoche passate. Grecia, Argentina, Venezuela, Gran Bretagna e persino gli Stati Uniti sono esempi alla mano. Neppure Donald Trump, pensateci, è riuscito a isolare davvero l’America fuori dalla NATO, WTO, NAFTA, Delocalizzazioni, dipendenza dal petrolio di altri e fuori dalle trappole del Medioriente (ammesso che lo volesse davvero). Per non parlare appunto di Brexit.

Ora immaginate in questo contesto le prescrizioni di come uscire dall’euro in ‘10 facili mosse’ di Warren Mosler applicate all’Italia del 2019, quando attorno a lei verrebbe fatto il doppio della terra bruciata che in queste ore si sta facendo attorno alla Gran Bretagna. In soli 8 anni è cambiato tutto. Ciò che trapela da Grecia, Argentina, Venezuela, Gran Bretagna e persino dagli Stati Uniti è che adesso ogni vagito di isolazionismo sarà opposto con una ferocia, e con una coesione dei Poteri e degli investitori, senza precedenti nella Storia contemporanea. E spiace dirlo, ma qui né gli italici sovranisti né la MMT americana hanno risposte neppure lontanamente adeguate in caso di Ital-exit dall’euro e conseguente, quanto certo, attacco ‘nucleare’ contro un isolazionismo monetario di Roma, un attacco che solo 8 anni fa sembrava impossibile.

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Nel 2011 (e poi mi fermo, perché se no devo scrivere un libro) l’Occidente aveva aperto tutte le bocche di fuoco per uscire dallo storico crash del 2008. In particolare, non si dimentichi mai, l’euro ricevette una spinta atomica dal celeberrimo “Whatever it takes”  di Mario Draghi pronunciato nel luglio 2012, a cui poi seguirono altre tre propulsioni nucleari dell’economia europea chiamate LTRO, TLTRO e QE. Altrove nel mondo, come detto prima, sembrava che la Cina decollasse per l’iperspazio, il mercato del petrolio era abbastanza stabile, il costo del denaro era quasi a zero ovunque da noi, l’America neppure immaginava l’arrivo di Trump, le rinnovabili promettevano magie fra 5 minuti, e le Nuove Tecnologie e Artificial Intelligence (pur essendo una realtà che davvero c’è) infondevano un ottimismo un po’ troppo galoppante fra gli investitori e le aziende. La MMT e i Sovranismi avevano un senso in quei contesti. Il perché lo capite qui sotto.

Siamo al 2019 e ogni singolo punto sopra è, o collassato, o ha cessato di funzionare, o è instabile, o non ha mantenuto le promesse, o ha decisamente peggiorato l’economia globale. La realtà che un’Italia fuori dall’euro dovrebbe adesso affrontare è che, anche immaginando un suo magico successo (che ho già incrinato nei punti precedenti), essa si troverebbe sovrana nel mezzo di una stagnazione globale forte, e di una stagnazione europea tragica. Sulla UE in particolare va detto questo: Mario Draghi finisce il mandato da pietoso buffone che tenta di tenere i pezzi della sua faccia incollati fra loro di fronte alle telecamere delle conferenze stampa, ma la realtà è che l’Eurozona è cresciuta allo 0,2% (!!) nel 2018 e cioè l’esatta metà della previsioni del Mario, e aspettate: lo 0,2% è precisamente la sua crescita mediana per almeno 7 anni prima, con nel bel mezzo una Germania che, sì, esatto, è nel pantano.

Ma qualcuno là fuori si rende conto che, dietro gli imbarazzanti titoli dei quotidiani, la realtà è che la Deutsche Bank è FALLITA? (Paolo Barnard lo diceva alla Gabbia 4 ani fa) Si parla di un suo bail-out di Stato attraverso una fusione con un’altra ex ammiraglia tedesca, la Commerzbank, che è solo di poco messa meglio. Lasciate perdere la reazione da cortile della serie “gli sta bene a ste merde tedesche” o l’altrettanto miope “ma allora motivo in più per uscire dall’euro!”. Non è solo la super banca che affoga in Germania, sono anche i posti di lavoro giovanili e le infrastrutture. Ciò che questa storia ci racconta è che, sveglia!, il Pianeta è in recessione. E allora venendo all’Italia Sovranista o MMT, che cazzo credete che faremmo noi unici a sventolare la nuova Lira nel mezzo di un mare di lacrime? Non era questo il quadro nel 2011-12-13-14-15.

La MMT delle formulette del 2011-2 di Kelton o Mosler, o sti Sovranisti, ci saprebbero convincere, e saprebbero convincere “banche, fondi comuni, lavoratori del settore pubblico e comparti occupazionali privati, grandi e piccole/medie imprese di ogni sorta, settore energetico, esportatori, agricoltori e interessi regionali con relative filiere produttive, sindacati, operatori del turismo, università e settore Tech, investitori e risparmiatori domestici di ogni portata, legislatori, ministeri e aziende di Stato” che con la moneta sovrana ma in quel mare di lacrime e stagnazione sia globali che UE – e dopo aver sofferto una guerra spietata e pagato prezzi alti – lo stesso un’Italia sovrana sarebbe un passo avanti?

Se sì, ne sono felice, ma oggi qualunque gruppo Sovranista e qualsiasi MMTista è chiamato, se vuole essere preso minimamente sul serio, a rispondere, dicevo, non alle 20 domande del 2011, ma alle 2.000 domande serissime del nuovo pianeta Terra nel 2019, proprio perché c’è recessione, paura, precarietà che stanno dilagando. E attenti: questa recessione è peggio del crash del 2008. Semplice: un crash è un danno una tantum, una recessione globale è sistemica, lunga e infiltrante. Ben altri guai.

E allora lo dico chiaro: o io parlo a interlocutori ferrati che spaccano un capello con uno sguardo su tutte quelle 2.000 domande, e lo si fa davvero in almeno due anni di intensivi come descritti all’inizio dell’articolo, oppure vi consiglio di prendere Sovranisti e MMTisti che ancora vanno ‘blogghett-ando’, ‘social-ando’, e ‘conferenzin-ando’, e tirare lo sciacquone. Ne va proprio del minimo di serietà politica, economica e morale che io conosca.

Io sono Paolo Barnard, forse il primo in Italia 10 anni fa a buttare tutto se stesso sui media a favore del Sovranismo MMT per uscire dal criminoso euro. Ma io ho una coscienza dialettica, io rispondo in primis a quella coscienza. E ora vedo che quasi tutto è cambiato, e vedo che se oggi anche solo si contempla di abbandonare la Moneta Unica va fatto ben altro e con forze centuplicate, come racconto in questo articolo e con le motivazioni. Io non sono arroccato su ricettine divenute fasulle come i Rinaldi, Mori, Zoccarato, Fassina, o i Palma per scavarmi un posticino pubblico mentre mando alla rovina il pubblico per voluta ignoranza. Ok?

Ci sarebbe tantissimo altro da aggiungere, ma in questo spazio ho solo potuto dare un’idea delle sfide con alcuni esempi. A voi il compito: THINK.