Economia, Innovazione

Olivetti, 110 anni e nessuno che abbia imparato la lezione

La prima cosa che ti viene da chiederti è perché.

Perché un’azienda italiana che era all’avanguardia della tecnologia mondiale è quasi scomparsa?

Perché un intero settore industriale del nostro paese è stato cancellato a favore delle aziende statunitensi?

Perché la Silicon Valley aveva iniziato a parlare italiano ma poi la conquista dell’America è svanita nel nulla?

Sono i perché che ti vengono su come un bolo visitando la mostra ‘Olivetti: 110 anni di impresa’ appena aperta alla Galleria Nazionale d’arte moderna e contemporanea di Roma.

La risposta che vi daranno a questi tanti perché i nostri attuali, rapaci, imprenditori e supermanager è che Olivetti era una fabbrica di idee, di design, di simboli, di geni ma non di profitti. Che la ‘visione’ Olivetti non è quella del moderno capitalismo. Che Olivetti, in fondo, ha fallito.

In realtà, la filosofia di Adriano Olivetti, figlio del fondatore Camillo, era quella di un imprenditore illuminato come dai suoi tempi non più si manifestano nel mondo occidentale. Le sue stesse fabbriche erano studiate per dare qualcosa al territorio, in termini di lavoro, certo, ma soprattutto di bellezza e di meraviglia. La tecnologia per quella visione assumeva un ruolo quasi mistico che al giorno d’oggi un qualsiasi ricco scarparo guarderebbe dall’alto in basso senza neanche capire che il poveraccio è proprio lui.

Quello che la visione Olivetti aveva afferrato nella sua fantasmagorica espansione elettromeccanica è che il profitto non è il valore principale di un’azienda.

Lo sono, al contrario, le cosiddette positively disturbing ideas come i valori immateriali rappresentati dalla cultura e dalla capacità innovativa, la priorità ai giovani (i più adattabili all’innovazione), la selezione dei talenti, il design innovativo inteso come intrinseco al prodotto, una struttura aziendale informale nella quale chiunque, a prescindere dal proprio ruolo, potesse essere chiamato a dare il suo contributo alla ‘impresa’ (nel vero senso della parola).

La piramide aziendale, ovviamente esistente anche in Olivetti, doveva aiutare l’uomo nel processo creativo, non opprimerlo. Provate a suggerire una cosa del genere oggi alla Fiat di Marchionne (anzi, alla FCA, che la Fiat italiana non esiste più).

Ma l’idea più disturbante di tutte nel mondo lucrativo e inumano di oggi derivante dalle teorie ultraliberiste di Milton Friedman è senz’altro quella della responsabilità sociale dell’impresa. Una responsabilità che è dovuta agli azionisti quanto ai dipendenti, quanto al territorio sul quale si operi. Costruisce case per i dipendenti, cinema e piscine per la città. Distribuisce benessere, diminuisce l’orario di lavoro, senza variazioni di salario.

Voglio ricordare ancora una volta poi la regola aurea che si rispettava alla Olivetti: nessun manager doveva guadagnare più di dieci volte il salario minimo di un operaio. Oggi che i supermanager arrivano anche ad intascare (spesso immeritatamente) fino a 500 volte la paga di un loro umile dipendente, si capisce che il capitalismo illuminato ha avuto in Adriano Olivetti un unico, splendente sole. Che non è mai più risorto.

A proposito di sole, Olivetti e la California. A Cupertino l’azienda della grigia Ivrea fu la prima a fare tecnologia nella Silicon Valley prima che questa si chiamasse così. Nel 1973 la Olivetti apre il suo primo ufficio a Mountain View (sì, proprio dove ha sede Google) mentre Steve Jobs ancora studia e lavora ai videogiochi della Atari. Nel ’79 la Apple muove i primi passi mentre Olivetti inaugura l’Advanced Technology Center. Tre anni dopo nasce l’M20. L’Apple Macintosh arriva solo nell’84. Quello che è considerato il primo personal computer del mondo, il P101, Olivetti lo aveva prodotto nel 1965.

Perché Olivetti, un’azienda che era arrivata ad avere 50mila dipendenti in 100 paesi del mondo è quasi scomparsa e vive ora solo come pallida costola di Tim (200 dipendenti o giù di lì)? Molti oggi affermano che la gestione di Adriano Olivetti fu miope e non adeguata a cavalcare la rivoluzione elettronica. Negli anni 2000 poi, un vero e proprio tracollo: dal 2003 al 2014 le perdite medie annue s’aggiravano sui 30-35 milioni per un totale di 400 milioni di euro, ripianati prima da Pirelli e poi da Telecom.

Ma per qualcun altro, invece, la sorte di Olivetti era già stata decisa altrove. In un macabro parallelo con l’Eni di Enrico Mattei, qualche ex dipendente afferma che la manina che affondò l’azienda è quella imperialista americana. Nel 1962/63 gli Usa, presidenza Kennedy, avevano notato l’intraprendenza di questi italiani che avevano il predominio dell’office automation nel mondo e miravano al controllo dell’elettronica per entrare nell’era informatica.

In Italia si stavano formando i primi governi di centrosinistra. Detto fatto: le banche italiane chiesero alla Olivetti Divisione Elettronica il rientro immediato dei capitali. L’Olivetti fu costretta a “svendere” alla General Electric la sua Divisione Elettronica, con tutta la rete di assistenza. Un suicidio. Fantapolitica? Chissà.

Intanto oggi Olivetti celebra il suo anniversario solo grazie a un’altra azienda italiana nel frattempo divenuta francese. Andare a vedere la mostra della Gnam inorgoglisce, ma fa veramente incazzare.

Fonte: ilfattoquotidiano.it Articolo di I. Mej (qui)

Economia, Esteri, Innovazione

E’ a Tokyo la prima Smart City sicura e interconnessa grazie alla Blockchain

La Blockchain, in italiano “catena di blocchi”, è un processo in cui un insieme di soggetti condivide risorse informatiche – dati, memoria, Cpu, banda – per rendere disponibile alla comunità di utenti un database virtuale, generalmente di tipo pubblico, ma ci sono anche esempi di implementazioni private, e in cui ogni partecipante ha una copia dei dati.

Alla base del funzionamento della Blockchain c’è la sicurezza poiché il database condiviso è centralizzato e criptato; in questo modo viene garantita la sicurezza e la conservazione delle informazioni in esso contenute, inoltre, per effettuare delle modifiche è necessario il consenso di tutti e comunque vengono registrate tutte le versioni precedenti.

L’utilizzo della tecnologia Blockchain è ancora molto nebuloso poiché si può spaziare dall’impiego all’interno del mondo criptovalute, fino ad arrivare ai settori più disparati come banche, trasporti, sanità, finanza, sicurezza, istruzione, assicurazioni. Questi che abbiamo appena elencato sono alcuni degli ambiti che, secondo gli esperti, saranno prima o poi contaminati dalla Blockchain.

Blockchain è anche pronta a sbarcare all’Università di Pisa,primo ateneo in Italia e tra i primi in Europa ad adottare il registro criptato digitale in cui archiviare in ordine cronologico e pubblico tutte le informazioni legate alla carriera universitaria, così da porre fine ai millantatori di titoli di studio.

Ma ora ai diversi ambiti alternativi di applicazione della tecnologia Blockchain se ne aggiunge un altro: il suo utilizzo nella progettazione di una Smart City.

Le Smart City combinano le tecnologie dell’informazione e della comunicazione nel tentativo di migliorare i servizi come i trasporti attraverso la razionalizzazione che produce una riduzione dei costi. Un esempio semplice in tal senso è l’impiego di sensori per la segnalazione di parcheggi liberi, oppure i sistemi di illuminazione che utilizzano i sensori per rilevare l’attività umana nella zona e a seconda dell’afflusso aumentano o diminuiscono l’illuminazione.

L’Internet of Things e la Blockchain rappresentano un ulteriore step per lo sviluppo delle Smart City. L’applicazione dell’Internet of Things all’interno di un ecosistema complesso come quello urbano porta con sé una serie di problematiche.

Se da un parte l’IoT può essere sfruttata per una gestione intelligente ed interconnessa del flusso del traffico, la Blockchain entra in gioco perché in questo contesto è fondamentale mantenere la sicurezza dei dati.

Nell’esempio che prenderemo in rassegna, ossia un’avanzata smartcity di Tokyo, c’è tutto questo ma anche molto altro. Si tratta di un esperimento implementato all’interno del distretto di Daimaruyu che, in un’area di 120 ettari nel quale il 30% degli edifici appartiene a Mitsubishi, riunisce tre quartieri di Tokyo compresi fra la Tokyo Station e il Palazzo imperiale.

L’area delle smartcity di Tokyo.

Ci sono diversi stakeholder e aziende che hanno preso parte al progetto. Fujitsu ha creato l’infrastruttura tecnologica, ossia quella che consentirà alle aziende di condividere i propri dati senza perderne il controllo.  Alla base di tutto c’è sempre la condivisione di dati in modo sicuro e strutturato per creare valore, rispettando sicurezza, privacy e relazioni tra le aziende che vi partecipano.

La tecnologia impiegata, di tipo open source, appositamente progettata sotto la Linux Foundation per un utilizzo in contesto aziendale, è una Blockchain Hyperledger Fabricche sfrutta la “tecnologia contenitore” per ospitare contratti smart chiamati “chaincode” che comprendono la logica applicazione del sistema. In Hyperledger Fabric le regole definite per la specifica Blockchain stabiliscono chi può validare l’ingresso di membri nella Blockchain, autorizzare e verificare ogni transazione.

 Fujitsu ha progettato l’infrastruttura software Virtuora DXattraverso la quale permette di condividere data e smart contracts. Virtuora DX è un servizio cloud che consente alle aziende di portare visibilità e valore nei dati in loro possesso, condividerli, e accelerare la co-creazione di valore. Questo tipo di tecnologia è necessaria perché i dati possono essere sfruttati in modo sicuro per creare innovazione senza però che essi escano dal perimetro aziendale.

All’interno di un’area come quella di Daymaruyu, un distretto ad alta densità economica dove sono presenti 106 grattacieli – 4.300 uffici -, 280mila persone impiegate, 40mila ristoranti, 90mila negozi, 13 stazioni ferroviarie e metro, 28 linee, hanno la loro sede principale 16 delle più grandi aziende al mondo.

In quest’area, che non ha nulla da invidiare alla città rappresentata nel visionario film Minoriry Report, l’infrastruttura tecnologica consente di condividere le informazioni di tipo economico che provengono dalla gestione dei palazzi di proprietà di Mitsubishi, dai sensori IoT raccolti da aziende di trasporti – è presente anche un servizio di bus senza conducente -, dai negozi relativamente all’andamento delle vendite e dalla disponibilità dei beni, dal flusso di dati provenienti dagli hotel sulle camere disponibili, oppure i tavoli liberi all’interno dei ristoranti.

Alcuni dei servizi garantiti dall’uso della blockchain e dell’IoT nella smart city di Tokyo.

L’aggregazione di questi dati a diversi livelli – si può anche conoscere l’andamento dei prezzi degli immobili al metro quadro, oppure quante persone sono presenti all’interno di un locale ma anche sapere il valore e la quantità di ogni transizione effettuata – potrà quindi essere sfruttata dall’azienda che si collega, previa autorizzazione, per progettare un determinato servizio oppure per la sua attività commerciale.

L’esempio del distretto di Daymaruyu conferma l’ascesa delle Smart City che ormai sono diventate un obiettivo principale per molti paesi.

Escludendo il Giappone, secondo i dati diffusi dall’IDC, i paesi che compongono l’area Asia-Pacifico spenderanno nel 2018 in progetti di città intelligenti 28,3 miliardi di dollari, raggiungendo i 45,3 miliardi nel 2021. In tutto questo la Blockchain ha rapidamente guadagnato consensi e può essere considerata una parte integrante del successo delle Smart City.

Questa tecnologia può essere utilizzata anche per assegnare un’identità digitale verificata ad ogni cittadinocosì da consentirgli di accedere ad un sistema interconnesso. Tutto questo si traduce nella fruizione di un’ampia gamma di servizi governativi, professionali e privati – come la richiesta di prestiti bancari, la gestione della proprietà, il trasporto pubblico, lo shopping online o il pagamento delle tasse -, il tutto con estrema facilità e velocità.

Fonte: “E’ a Tokyo la prima Smart City sicura e interconnessa grazie alla Blockchain”  di E. Ragoni su businessinsider.com (qui)